GIUSTINIANO I (Flavius Petrus Sabatius Iustinianus; Φλάβιος Πέτρος Cαββάτιος ᾿Ιουστινιάνος)
Imperatore romano; successe allo zio Giustino I. Regnò dal 527 al 565. Fu console nel 521, nel 528, nel 533 e nel 534. Sposò Teodora (v.). Specialmente alcuni atti del suo regno, come la chiusura della scuola d'Atene e la pubblicazione del corpus della legislazione romana, sono apparsi agli storici punti precisi per la periodizzazione dell'Evo Antico e del Medioevo. La iconografia di G. rappresenta assai bene la sua posizione storica e pertanto egli è, cronologicamente, l'ultimo imperatore trattato in questa Enciclopedia dell'Arte Antica (soltanto l'attribuzione a G. II del cosiddetto "Carmagnola" (v.) giustifica il breve accenno a questo emulo di G. I). Procopio (Hist. arcana, viii, 4) descrive l'aspetto fisico di G., il suo volto tondo, il colorito roseo, notando la straordinaria somiglianza con i ritratti di Domiziano.
Il monumento più celebre dell'iconografia di G. è nei mosaici del presbiterio della basilica di S. Vitale a Ravenna, dove sono raffigurati G. e Teodora, rispettivamente sulla parete sinistra e su quella destra. Le due composizioni si datano tra il 546 e il 548. Quella di G. comprende: due diaconi; l'arcivescovo Massimiano (nome iscritto); un personaggio, sicuramente un ritratto, solitamente identificato con Giulio Argentario (benché, come nota il Deichmann, abbia il costume di senatore, dignità che Giulio Argentario non raggiunse); un altro personaggio barbato, identificato talora con Belisario (Ricci: si dubita però che sia un ritratto; comunque, nota il Nordström, indossa la clamide del patrizio, non il sagion del generale); un giovane patrizio imberbe, forse un eunuco, dal Nordstròm identificato con il praepositus della città (il Deichmann dubita che sia un ritratto); infine quattro guardie del corpo. Nel pannello di Teodora sono raffigurati due dignitari (quello in clamide bianca è stato supposto essere il praepositus); due nobili donne, in cui si sono volute ravvisare la moglie e la figlia di Belisario (Ricci); infine un gruppo di dame, tra le quali non vi è nessun ritratto da identificare. Le due composizioni sono state variamente interpretate. Quella di G.: l'imperatore partecipa all'antica processione dell'offertorio nel coro della chiesa (Tea, Lanzoni); porta i propri doni all'altare (Rodenwaldt), anzi (Grabar) il suo dono è quello particolare dei vasi che, stando al Liber de ceremoniis, 1, 1, p. 65, l'imperatore stesso posava sull'altare (nei pressi del quale, difatti, il mosaico è collocato); oppure G. assiste alla consacrazione della chiesa da parte di Massimiano (Bettini); incontra il patriarca nel nartece di S. Sofia, poiché ha ancora sul capo il diadema che non porterebbe se fosse già entrato nella chiesa (Wulff). Queste differenti interpretazioni si basano, generalmente, sulla simmetria con la composizione di Teodora, in cui sarebbe raffigurato il corteo dell'imperatrice che dall'atrio (con la fontana) si approssima alla porta laterale che conduce al matroneo, sicché verrebbe a essere una parte distinta di una stessa processione. Il Cecchelli (1950) ha insistito sul carattere di imagines imperiali delle due composizioni, staccandole da una particolare occasione storica della chiesa e vedendo in quella di Teodora la Basilissa nel palazzo di Costantinopoli.
Già l'Alföldi (1935) e, in seguito, il Visser (1936) e il Deichmann (1952), hanno notato come l'imperatrice sia intenzionalmente raffigurata di fronte alla significativa βασιλοκὴ κογχή (cfr. apoteosi); anzi per il Deichmann quello di Teodora è senz'altro il quadro imperiale, posto nella basilica da Massimiano per onorare la propria patrona, mentre la composizione con G. è piuttosto il quadro arcivescovile, in cui il personaggio più importante è Massimiano, che ha voluto tuttavia raffigurare accanto a sé l'imperatore per significare il proprio lealismo. Secondo il Nordström il quadro di G. potrebbe ritrarre un momento particolare della processione imperiale e religiosa che si svolge nel nartece di una basilica. I sacerdoti, diaconi e patriarca, si sono avvicinati con il libro, il turibolo e la croce (Lib. de cer., i, 10; iii, 114); l'imperatore ha baciato la croce e l'evangelario (ibid., i, 18) ed è stato probabilmente incensato (ibid., i, 22), e quindi patriarca e imperatore si sono scambiati i saluti; ora la processione sta riprendendo la marcia ed è vicina ad entrare in chiesa; mentre i diaconi già sono in cammino, il corteo imperiale indugia ancora un momento prima di muoversi. Così il Volbach, che però pone i due riquadri in relazione tra loro.
Si è discusso sul ritratto di G., in cui, appoggiandosi a un passo di Malalas (1, 18), si sono voluti identificare i mustacchi (cfr. giustino). Ma si tratta di un particolare un po' incerto e, d'altronde, tutta la concezione di questo volto, come sempre nell'arte bizantina di questo periodo, risponde a criteri di stilizzazione e di tipizzazione precisi; in ogni caso non si può escludere che, dopo il ritratto monetale dell'anno 538 (v. avanti), sbarbato, G. si facesse crescere la barba. G. ha sul capo lo stemma, la corona menzionata per la prima volta nei documenti ufficiali di G., da cui pendono le cataseista, due file di perle che rimarranno tipica insegna dell'imperatore.
Il problema iconografico conduce all'altro, di importanza storica e stilistica, oltreché iconografica, dell'origine dei ritratti imperiali di S. Vitale, se, cioè, si tratti di cartoni preparati a Costantinopoli, se i ritratti imperiali siano desunti da eventuali làurata inviati a Ravenna, se almeno parte delle cpmposizioni sia ravennate e parte costantinopolitana. Su ciò v. Ravenna.
Nel 543-44, dopo le vittorie di Belisario in Africa, G. innalzò nell'Augustèon di Costantinopoli una nuova colonna al posto di quella, demolita, di Teodosio, e vi pose al sommo la propria statua equestre. Essa fu ammirata da Maometto II il Conquistatore e dai visitatori occidentali di Costantinopoli, sinché, nel XVI sec., fu fusa per farne cannoni. I cronisti bizantini ricordano l'eccezionale copricapo della statua, ancora descritto con meraviglia da Ruy Gonzales de Clavijo nel 1404. Date le affinità con le descrizioni e per l'insolito copricapo, si è voluto identificare un ricordo della statua in un disegno del XV sec. (non, come è stato detto, del 1340) contenuto in un codice miscellaneo di autori greci e latini, forse composto per Maometto II, già nella Biblioteca del Serraglio a Istanbul e quindi passato, per donazione, alla Biblioteca Nazionale di Budapest (v. vol. II, fig. 1169). Tale identificazione è stata contestata da Ph. Lehmann, la quale ha proposto di riconoscere nel disegno, dovuto alla collaborazione di uno sconosciuto Nymphirius, di Giovanni Dei, ambasciatore veneziano a Costantinopoli, e di Ciriaco de' Pizzicolli (v.), la riproduzione, non del tutto esatta e con qualche libera interpretazione, di un medaglione di Teodosio. Si riferiscono qui le osservazioni della Lehmann e di altri studiosi, pur con qualche riserva. Il disegno reca la dicitura: fon (Fons?, da restituire, secondo la stessa autrice, in con[stantinopolis]?) Theodosi gloriae perennis. È curiosa la disposizione dell'iscrizione nel disegno, ingegnosamente spiegata dalla Lehmann come se Ciriaco avesse voluto sottolineare il significato di signum salutare (confronta Grabar, L'Emp. dans l'art by Vzantin, 1936, p. 46) del globo con la croce, appunto fons gloriae perennis per l'imperatore che se ne insigniva. La leggenda ricorda inoltre il titolo gloria romanorum che ricorre frequentemente nei conî costantiniani e post-costantiniani e soprattutto nei medaglioni aurei donati dagli imperatori ai re barbari (Costantino Porfirogenito, nel suo De cerem., II, 48, 686-692, dà una lista particolareggiata dei patriarchi e dei re a cui la cancelleria imperiale inviava tali βούλλαι χρυσαῖ; una novella di G. delle calende di luglio del 535 riservava al solo imperatore il diritto di coniare e di distribuire medaglioni d'oro). Un medaglione sappiamo che fu donato nel 556 ad Arethas re d'Etiopia (Theoph., Chron., p. 378); un altro, già nel Cabinet des Médailles di Parigi, proveniente dai dintorni di Cesarea in Cappadocia, fu rubato nel 1831 ed è ora noto attraverso un calco conservato nel British Museum. Quivi G. appare due volte; nel recto ritratto a mezzo busto, con lorica, lancia e scudo, paludamento fermato da una fibula, sul capo nimbato un diadema gemmato e un casco a cupola sormontato da una cospicua cresta di penne di pavone. Forse è questa la toupha, l'insegna regale che G. aveva derivato dai Persiani. La Lehmann mette in rilievo la differenza tra questa raffigurazione e quella del disegno di Budapest, in cui il Grabar ritiene si debba vedere una contaminazione con un copricapo turco (op. cit., 1936, p. 47). Sul verso G. appare a cavallo, nel medesimo costume e con il nimbo, incedente verso una stella e guidato da una Nike (la figura femminile è chiaramente riconoscibile) che reca sulle spalle un trofeo; iscrizione: salus et gloria romanorum, con(-stantinopolis) ob(ryzum). Lo Schramm ha riferito questa effigie alla statua equestre, ma in realtà il fatto che G. porti qui la lancia nella destra e non abbia il globo contrasta con le descrizioni del monumento. Tuttavia è convincente l'ipotesi, di J. M. C. Toynbee, che anche questo medaglione sia stato coniato per celebrare il trionfo di Belisario sui Vandali in Africa nel maggio del 534.
Il Grabar nota come nella statua del 543-44 e nei medaglioni di G. appaia per l'ultima volta nell'iconografia imperiale bizantina la raffigurazione equestre, dopodiché essa sarà propria soltanto di alcuni santi, specialmente in Egitto (sull'origine di questa iconografia v. P. Perdrizet, Negotium perambulans in tenebris, Strasburgo 1922; Grabar, op. cit., 1936, p. 47, n. 6; l'iconografia di S. Demetrio come guerriero sembra però più tarda: v. M. Horster, in Felix Ravenna, iii, 77, lxxiii, 1957, p. 33 ss.), mentre la raffigurazione sulla quadriga conserverà ancora in seguito la sua funzione trionfale. Così, ad esempio, il grande medaglione di Tiberio Il descritto da Gregorio di Tours (O. M. Dalton, ii, 1927, pp. 233-234) aveva nel rovescio la quadriga con l'iscrizione gloria romanorum. La figura equestre su una colonna che compare in talune vedute di città di manoscritti bizantini (Ottateuci) può ben essere il ricordo del Fultima statua imperiale equestre. Riprendendo su nuove basi una vecchia ipotesi, A. Grabar ha riproposto di attribuire a Giustino I o II o a G. il celebre dittico imperiale Barberini, con la raffigurazione trionfale dell'imperatore a cavallo (v. anastasio; costantinopoli; dittico; zenone).
Sotto G. l'espansione dei confini dell'Impero fece risorgere numerose zecche, che giunsero così a undici dalle cinque che erano sotto Giustino. Anche se la monetazione sotto G. non raggiunse l'eccellenza di altre opere del regno, tuttavia due innovazioni simultanee, introdotte nel 538, furono notevoli. Da allora sui pezzi di bronzo fu segnato l'anno di emissione e tanto sulle coniazioni enee quanto sulle auree un nuovo ritratto imperiale, rigidamente frontale, sostituì quello più antico visto di tre quarti. Questo volto, che il Wroth descrive "sbarbato, grasso, tondo e non senza un sorriso", non fu mai cambiato in seguito, ma nondimeno costituì certamente una reazione all'uso del ritratto convenzionale che si riscontra anche nei conî di G. precedenti l'anno 538. Proseguendo la tradizione inaugurata da Giustino, l'angelo apparve sui rovesci al posto della Nike.
Nel breve periodo in cui G. e Giustino I regnarono insieme (1° aprile-1° agosto del 527) furono coniati rari bronzi e abbastanza numerosi pezzi d'oro con i due sovrani (due varietà di solidus). Negli aurei, emessi a Costantinopoli, appaiono i due imperatori, nimbati, con il diadema, drappeggiati in lunghe vesti, le mani sul petto (un globo nella sinistra?), sbarbati; sul rovescio, angelo frontale con globo e croce e stella sul fondo: victoria augustorum. I conî enei hanno invece i busti nimbati dei due imperatori e sul rovescio, come sempre, l'indicazione del valore. Sono stati emessi a Costantinopoli e ad Antiochia.
In altri modi G. impose il proprio ritratto come manifestazione della propria presenza e della propria autorità. La tradizione letteraria ci ricorda l'uso di portare in processione i grandi codici contenenti gli editti di G. per l'amministrazione delle province che avevano sul piatto superiore della legatura il ritratto del sovrano (v. codice). Non è escluso che questa consuetudine avesse avuto inizio con lo stesso G.; ma Malalas, quasi contemporaneo di G., fa risalire a Costantino l'uso di portare in processione la statua imperiale (Chron., xiii, Bonn, p. 322). Durante il regno di G. (554) si svolse una grande processione dell'immagine di Cristo di Camuliana in cui essa ricevette gli onori delle immagini imperiali. Sembra che questo trasferimento del rituale imperiale a un'immagine sacra fosse incoraggiato dalla stessa corte di G. (Kitzinger, p. 125). Il dittico del console Giustino (540) presenta sulle due valve il clipeo con il busto di Cristo fiancheggiato da altri due clipei con i busti di G. e Teodora. E l'unico dittico consolare a noi noto in cui compaia la figura di Cristo, ma la sua novità sta soprattutto nell'associazione dell'imperatore e dell'imperatrice a una persona divina. Lo stesso accade nel dittico imperiale Barberini già ricordato, ove, al di sopra dell'imperatore trionfante, è raffigurato il Pantochrator entro un clipeo sostenuto dagli angeli simili a Vittorie. Ora appunto in S. Sofia (Paul. Silent., Descriptio S. Sophiae, vv. 702-804; Bonn, pp. 38-39) erano esposti due tessuti in cui apparivano G. e Teodora benedetti da Gesù e ancora G. e Teodora benedetti dalla Vergine. Questo accostamento delle immagini dei monarchi all'immagine divina è una indicazione interessante del valore soprannaturale che ormai si incominciava ad attribuire all'icona ed è nello stesso tempo agli inizî di quel processo che nell'iconografia e nei simboli politici e religiosi imperiali culminerà in G. II (v.).
Due interessanti monumenti della tarda antichità sono stati erroneamente attribuiti a G.: il mosaico nella navata destra di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, con l'iscrizione, posteriore, Iustinianus, in cui si deve forse identificare Teodorico (F. v. Lorentz); un celebre piatto d'argento scoperto a Kerč in cui, come hanno dimostrato il Matzulevitsch e il Delbrück, deve riconoscersi Costanzo II. Infine vi sono insormontabili difficoltà al riconoscimento di un prototipo antico nella raffigurazione di G. nel mosaico, eseguito durante la rinascita macedone, al di sopra della porta S di S. Sofia a Costantinopoli.
L'ipotesi del Grabar (1936) che vedeva nella raffigurazione del sacrificio di Melchisedec nel presbiterio di S. Vitale a Ravenna un'allusione alla posizione di G. come re e sacerdote è stata contraddetta dal Nordström.
Di G. console (521) sono noti tre dittici (Milano, già Trivulzio; Le Puy, Collezione Aymard; Parigi, Cabinet des Médailles). In tutti e tre la decorazione consiste in un medaglione centrale con l'iscrizione dedicatoria e in quattro protomi leonine poste agli angoli di ciascuna valva: sono privi di raffigurazioni, destinati a membri del senato (patribus ista meis offero consul ego).
Particolare altezza d'arte raggiunsero i monogrammi di G. e Teodora, notevoli specialmente nei capitelli di S. Sofia e dei SS. Sergio e Bacco.
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