Giustiniano e le riforme religiose
Il ritratto di Giustiniano è più famoso di quello di Costantino, e non solo per le sculture, le monete o i mosaici, in particolare quello di S. Vitale a Ravenna. Del resto niente indica che l’imperatore Giustiniano abbia in qualche momento cercato di coltivare una particolare similitudine con il suo celebre predecessore. Nemmeno la sua fisionomia ve lo predisponeva molto. Pur condividendo con lui un’altezza media, se ne sarebbe distinto per un incarnato più uniforme, tratti più armoniosi o ancora per un portamento meglio sostenuto da un collo meno imponente1. Se Giustiniano assomigliava a qualcuno dei suoi predecessori, a voler credere alla Storia segreta di Procopio di Cesarea, costui non era dunque Costantino, ma piuttosto Domiziano (81-96)2. In realtà, l’allusione evidentemente malevola nel racconto di Procopio – caratteristica di tutta l’opera – non si riferisce alla presunta somiglianza tra Domiziano e Giustiniano, se non per suggerire il pungente contrasto tra il loro corpo, piuttosto ben fatto, e il loro spirito cattivo, o per deridere una certa tendenza alla calvizie di Giustiniano, del resto già evocata da Malalas3. In compenso, l’invettiva di Procopio sviluppa volentieri il tema della tirannia esercitata dal calvus Nero, in particolare contro il Senato, per meglio imputarla a Giustiniano. Più che la descrizione fisica o anche morale, evidentemente orientata, è la leggenda che suggerisce il paragone tra Costantino e Giustiniano. Attraverso il suggestivo gioco di spostamenti, essa individua nel registro religioso il luogo dell’espressione più significativa di questo rapporto allo stesso tempo scomodo, ambiguo e ciononostante ineluttabile.
Secondo la Storia della costruzione di Santa Sofia (redatta probabilmente nel IX secolo) Giustiniano, ammirando lo splendore della sua chiesa, avrebbe esclamato davanti all’ambone «Ti ho vinto, Salomone!». Questa celebre formula, che si pretende enunciata al momento della consacrazione di Santa Sofia, risuona come l’eco deformato dell’inno 54 composto da Romano il Melode in occasione della dedicazione, il 27 dicembre 537, o qualche mese prima, durante la Quaresima. In effetti, in questa rappresentazione originale, che costituisce la più antica testimonianza relativa alla sedizione Nika e alle sue conseguenze, l’edificio ricostruito ha indiscutibilmente la meglio sul modello veterotestamentario: «se si considera Gerusalemme e l’immenso tempio che l’illustre Salomone, questo grande saggio, che aveva speso molto tempo a elevarlo, ornarlo e decorarlo e come esso fu distrutto e consegnato all’oltraggio […] si potrà vedere la grazia accordata a questa chiesa»4. Ma le comparazioni storiche operate da Romano il Melode non si limitano a questo. Esse suggeriscono un altro primato guadagnato dal basileus: a credere al kontakion, Giustiniano prevale anche su Costantino. Non ha forse Giustiniano risollevato l’intera città, con uno zelo, un impegno e una celerità senza eguali5? Per niente avventata, questa lezione in un poema composto su ordinazione non è meno eccezionale. Infatti, molto spesso Giustiniano si guarda bene dal suggerire una frequente comparazione con la figura del primo imperatore che aveva favorito il cristianesimo. Da nessuna parte, nell’imponente opera giuridica che egli ci ha trasmesso con il concorso decisivo di Triboniano, egli introduce delle referenze privilegiate al suo illustre predecessore. Anzi, prendendo spunto dalle raccolte gregoriane ed ermogeniane, la struttura stessa del codice, al contrario del Codice Teodosiano, non conferisce affatto a Costantino il posto simbolico di primo legislatore. Niente, nella designazione o nella titolazione di Giustiniano, evoca con precisione le prodezze del vincitore di ponte Milvio o il legislatore benefattore della Chiesa. Gli capita certamente di richiamare l’opera perfetta di Costantino «di pia memoria»6 in materia conciliare, come fa con Teodosio il Grande, Teodosio II o con Marciano. Ma nessuna assemblea sinodale, pur preoccupata di affermare la sua ortodossia, loda Giustiniano come un nuovo Costantino, al contrario di Marciano a Calcedonia o di Giustino, suo zio, a Costantinopoli e a Tiro, né la sua sposa Teodora come la nuova Elena. Questa riserva nei confronti del passato costantiniano, se si applica in modo particolare alla città-capitale, si estende ugualmente all’impresa di costruzione magnificata da Procopio e relativa all’Impero: solo alcune brevi menzioni, e senza fronzoli – così come del forte di Daphne sulla riva nord del Danubio7 – sono riservate a Costantino negli Edifici. E se la città di Elenopoli, fondata in onore di sua madre, viene menzionata, è soprattutto per sottolineare che Giustiniano ne ha corretto le insufficienze per portarla alla sua piena realizzazione assicurandone l’approvvigionamento di derrate e soprattutto di acqua8.
L’inno di Romano fa dunque scaturire quello che è più spesso relegato nell’implicito della comunicazione pubblica. Giustiniano non si concepisce come colui che sarebbe associato a Costantino, l’uno che offre la città, l’altro che offre Santa Sofia, secondo l’immagine mostrata in un celebre mosaico del nartece di Santa Sofia realizzata sotto il regno di Basilio II, probabilmente alla fine del X secolo. L’inno ritiene piuttosto che Giustiniano, dopo i colpi inferti dai barbari, restauri e porti al compimento della sua vocazione universalistica quell’espressione dell’Impero romano cristiano che Costantino aveva solo intravisto. Se dunque l’esultanza provata davanti al magnifico spettacolo della luminosa cattedrale conduce Giustiniano a svelare ulteriormente il suo rapporto con il fondatore della capitale, è perché egli ha appena vinto una battaglia ideologica significativa, che i programmi di costruzione della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo (terminata forse nel 520) poi della chiesa dei Ss. Sergio e Bacco (forse nel 527) non avevano potuto assicurare. A quel tempo in effetti, un’altra impresa, impressionante e competitiva, voleva misurarsi con Salomone rivendicando un patrocinio costantino-teodosiano tra i più ingombranti per l’imperatore. Terminato verso il 525, il santuario consacrato al santo militare e martire Polieucto non proclama soltanto le virtù della sua benefattrice, la pia Anicia Giuliana. Discendente diretta di Teodosio il Grande, nata dal sangue di quattro sovrani, calcedonianissima e nobilissima, ella esprime così la convinzione di incarnare e trasmettere, grazie alla sua genealogia, una continuità storica, dinastica ma anche dottrinale, capace di garantire al meglio l’equilibrio sociale. Al contempo, Giustiniano deve rafforzare la sua legittimità compromessa da un’origine così oscura. Egli si adopera per cancellare fin dal suo avvento al potere tutti i legami con il suo padre naturale, sopprimendo i nomi di Petrus Sabbatius dalla sua denominazione. Egli deve anche fare i conti con la reputazione eretica della sua sposa che la sua carità e la sua devozione, celebrate l’una e l’altra nell’iscrizione incisa nella chiesa dei Ss. Sergio e Bacco, non sono bastate a migliorare. In queste condizioni, tutte in onore di Anicia Giuliana, l’epigramma di San Polieucto, affidato all’Antologia Palatina, comporta un carico simbolico pericoloso: attraverso una breve ekphrasis che descrive la rappresentazione del battesimo di Costantino9, esso designa la continuità e la coerenza di un progetto imperiale che, centrato sulla sua città e fondato sull’ortodossia, non sembrerebbe riservare molto posto a Giustiniano. È per questo che l’imperatore sfrutta l’occasione che gli offrono le devastazioni della sommossa urbana del 532 – al punto che voci indiscrete hanno potuto lasciare intendere che egli stesso l’avesse provocata – per dimostrare sopra ogni cosa che a lui solo è stata affidata la missione divina di portare a perfezione quello che Salomone ha immaginato, quello che Costantino ha intrapreso.
È dunque nella prospettiva di una relazione con l’opera di Costantino, allo stesso tempo stretta, discreta e non esclusiva, che bisogna considerare le riforme di Giustiniano, di cui uno dei principali aspetti, il primo ai suoi occhi, riguarda la religione. Il ruolo che egli così si attribuisce non è spiegato affatto con la megalomania, che si riconoscerebbe nelle ventisette città alle quali egli attribuisce il suo nome, nella designazione di schiere di apprendisti studenti in legge chiamati giovani ‘Giustiniani’, o ancora nella monumentale statua equestre eretta sull’Augusteion, che mostra un basileus vestito alla maniera di Achille10. Né la sua impresa si può piegare alla dialettica di un regno in cui si opporrebbero due momenti, quello di un Giustiniano audace e coronato di successi da una parte e quello di un Giustiniano che invecchia, che si allontana dall’azione fino a suggerire a Corippe i versi seguenti: «egli non si preoccupava più di niente, già raffreddato dagli anni non ardeva che per l’amore della vita eterna, trovandosi già tutto il suo spirito nei cieli»11, tanto da considerare questi due periodi estranei l’uno all’altro a causa dello scoppio della grande peste (542) e dell’accumularsi delle difficoltà militari. Più probabilmente, attraverso una politica dal corso apparentemente aleatorio (Eduard Schwartz ha usato l’espressione «zig-zag»12) e, a prima vista, sconcertante, specialmente in materia dottrinale, è l’unità di un disegno a caratterizzare l’iniziativa di Giustiniano, dal 527 – o anche, quando ne guadagna il favore, dal regno di suo zio Giustino (518-527) – fino alla sua morte nel 565. Questo ideale poggia sulla necessità di ottenere che a regnare siano la buona organizzazione e il buon ordine (kosmia et taxis13), seguendo l’esempio di quello che avrebbe prevalso nella Roma antica. All’interno dell’Impero, questa tranquillità è l’oggetto permanente della legge, riorganizzata senza indugio secondo la sua coerenza latina, e continuamente perfezionata secondo le notizie redatte soprattutto in greco, mentre le armi dovevano difenderne l’integrità di fronte alle minacce esterne. Ma la ricerca di questa gouvernance serena non costituisce il fine dello sforzo imperiale. Se Giustiniano si afferma come fonte unica del diritto secolare e come legge incarnata14, mentre la materia giurisprudenziale, elaborata lungo i secoli, è drasticamente riassunta e definitivamente codificata (Digesto) è perché egli intende portare a termine l’edificazione di uno Stato completamente, intrinsecamente cristiano.
Così l’opera imperiale è chiamata a riflettere le realtà dall’Alto. Erede dell’ideologia costantiniana precisata da Eusebio di Cesarea, il basileus si vuole rappresentante di Dio in terra – motivo che Procopio si accontenta di invertire negli Anekdota facendo di Giustiniano il principe dei demoni. Il sovrano è dunque l’immagine particolare di Dio, perché egli governa senza essere lui stesso governato da nessun altro. Nel nome stesso della responsabilità che egli ha ricevuto anche per decreto divino, l’imperatore deve dunque avere come prima preoccupazione che la benevolenza divina non manchi mai al suo regno e procuri una felice realizzazione alle sue iniziative. Questa esigenza assume un’accezione nuova per Giustiniano, abile sin dalla sua giovinezza costantinopolitana negli studi giuridici e appassionato di teologia, ma poco aperto ai classici, né molto esperto nella pratica delle armi, cosa che lo distingue dal vincitore di Massenzio e Licinio e spiega il forte legame che lo associa a Belisario. Sull’esempio dell’immutabile modello celeste, Giustiniano intende dunque incarnare la stabilità del potere nel suo palazzo, al punto da non essersi spostato fuori dalla capitale, sembrerebbe, che una sola volta per recarsi al santuario dei diecimila angeli di Germia in Galazia (ottobre 563)15. Giustiniano, soprattutto, medita giorno e notte – egli sottolinea quest’ultimo punto come se si trattasse di insistere continuamente sulla sua pratica di una forma di ascesi governamentale – per concepire la conformazione del diritto degli individui, ereditato dall’antica tradizione romana, alla legge e al piano divino. Per fare questo Giustiniano mette in cima alle sue preoccupazioni l’integrità della dottrina cristiana, che tende a diventare sotto il suo regno l’elemento centrale che permette di definire la comunità romana. Così egli apre il libro I del suo Codice con il titolo Della Trinità suprema e della fede cristiana16. Non si tratta dunque di un pio segno di deferenza o della rivendicazione di un favore convenzionale. Al contrario, l’imperatore enuncia così il desiderio di pervenire all’unità dei suoi argomenti, la sola capace ai suoi occhi di garantire la coerenza della sua azione. Pertanto, il complemento del titolo immediatamente introdotto «e che nessuno osi avversarla pubblicamente»17 designa l’ostilità e la diversità dei credi che egli intende ridurre.
Nei confronti dei pagani l’arsenale legislativo realizzato da Giustiniano è immediatamente e deliberatamente repressivo. Esso si inscrive in una tendenza avviata già da molto tempo. In effetti, è molto lontana la stagione in cui nello scritto di Licinio impropriamente chiamato editto di Milano, composto in nome dei due Augusti, si enunciava il principio della libertà di scelta religiosa. Senza dubbio lo stesso Costantino aveva manifestato il suo rifiuto di sacrifici di sangue in suo onore dal 315 e vietato i sacrifici privati e il loro contorno di pratiche divinatorie: tuttavia egli aveva conservato l’immagine di un imperatore poco incline a perseguitare. Ma la preservazione di un certo modus vivendi tra le appartenenze religiose garantito dallo Stato è finita già prima della fine del IV secolo. Oggetto di una interdizione di tutte le forme di culto privato o pubblico durante l’ultima parte del regno di Teodosio il Grande, il paganesimo declina. Nel 423, Teodosio II mostra anche di credere che i suoi adepti siano scomparsi18. Ma Giustiniano non si accontenta di una semplice erosione, per lui troppo lenta. Egli intende sradicare tutte le forme di adesione alle divinità tradizionali. Si precisa il sistema che priva chi praticava quei culti di tutte le forme di trasmissione di proprietà, in quanto donatori o beneficiari di successione; e viene revocata loro la facoltà di sedere in giudizio. In particolare, la pena di morte, che fino a quel momento non era stata prevista che per i manichei in materie simili, è brandita come minaccia nei riguardi di quanti, battezzati, ritorneranno alle loro antiche pratiche19. Questa misura è abbinata all’obbligo imposto ai pagani di prepararsi a ricevere il sacramento iniziatico, mentre per quelli che tarderanno è prevista tutta una serie di interdizioni all’esercizio delle loro competenze, in materia di insegnamento scolare e superiore. Ed è compito dell’imperatore preoccuparsi di dare un’efficacia dimostrativa alle proprie ingiunzioni: avendo molto presto posto il principio secondo cui nessun onore né alcuna dignità potevano spettare ai pagani, o agli eretici20, mentre le spese, per esempio quelle curiali, continuavano a incombere su di loro, egli se la prende con delle figure particolarmente in vista nell’apparato dello Stato. Nel 529, il questore del Sacro Palazzo, Tommaso, l’ex prefetto del pretorio Asclepiote, il patrizio Foca e altri ancora sono perseguitati. Se il primo sfugge alla fine alla sua pena, prima di essere riabilitato, il secondo si suicida; quanto a Foca, egli riesce a discolparsi questa volta ed è anche chiamato a esercitare per qualche tempo la funzione di prefetto del pretorio dopo la sedizione Nika.
In un tale contesto di repressione, caratteristico dell’inizio del regno, si è tentati di elevare, seguendo Gibbon, la chiusura definitiva della Scuola filosofica di Atene al rango di simbolo di una intolleranza forsennata. Tuttavia i recenti lavori mostrano che questa decisione è sicuramente il risultato dei rapporti di forza locali, cosa che permette di comprendere meglio perché, al contrario, l’insegnamento filosofico si mantenga ad Alessandria. In compenso, bisogna credere che la fuga, alla fine durata poco, del gruppo dei sette condotto dal neoplatonico Damascio fino alle vicinanze di Cosroe21 risponde più sicuramente a un clima di persecuzione alimentato dal potere centrale che raggiungerà il suo apice nel 531. Interrotto momentaneamente in seguito alla sedizione Nika, lo sradicamento intrapreso da Giustiniano riprenderà con fasi di diversa intensità: nel 542, il monaco Giovanni (futuro vescovo miafisita di Efeso) si vede affidare una missione ufficiale, e secondo la sua stessa testimonianza, conduce alla fede cristiana settantamila anime in Asia, Caria, Lidia e Frigia. Se le vesti battesimali sono allora finanziate dalla cassa imperiale22, si può pensare che fossero applicate altre disposizioni, ancora più convincenti. Infatti poco dopo, nel 545-546, mentre Giovanni continua le sue operazioni persuasive, una nuova serie di procedimenti si apre, accompagnata da torture. Rimesso a giudizio da denunce strappate ai suoi correligionari, Foca preferisce ingerire nottetempo un veleno mortale. Giustiniano non gli evita la sorte infamante di essere sepolto come un asino. Le fonti evidenziano, infine, una terza e ultima ondata di violenza: essa si abbatte sui pagani restanti nel 562, e non riguarda solo Costantinopoli dove li si mostra in parata prima di bruciare i loro libri e i loro oggetti figurativi23. In effetti, Michele il Siro24 evoca l’arresto di cinque preti, uno di Atene, due di Antiochia e due di Eliopoli (Baalbek). Fino alla fine del suo esercizio del potere, Giustiniano non intende lasciare alcuno spazio ai recalcitranti: ai suoi occhi, per loro, come per gli eretici, è già troppo vivere25. Per questo bisogna chiudere gli ultimi templi, quelli ai confini di Iside a File (forse nel 537) e quello di Giove Ammone nel deserto della Cirenaica al quale egli sostituisce un santuario consacrato alla Théotokos. Sebbene le forme di paganesimo non scompaiono alla morte di Giustiniano – come rivela l’affare di Anatolio che avvenuto sotto il regno di Tiberio II (580), è ben narrato da Giovanni di Efeso26 – la direzione impressa dal basileus, così come la sua perpetuazione, cambia la natura stessa del legame sociale e culturale, poiché la lotta intrapresa contro tutte le tradizioni pagane contribuisce a rinforzare il fenomeno di scomparsa dei saperi che rischia di essere percepito come troppo direttamente legato alla loro pratica o alla loro memoria. Numerosi intellettuali manifestano una coscienza inquieta di questa evoluzione e cercano di raccogliere le conoscenze minacciate: da qui alcune imprese enciclopediche sorprendenti, come quella di Stefano di Bisanzio, e soprattutto i lavori audaci di Giovanni Lido, che non ha assolutamente ancora rinunciato, verso la metà del secolo, all’idea che l’imperatore possa approfittare di questa urgenza. Niente affatto relegato alla lotta al paganesimo, il principio direttivo della politica religiosa di Giustiniano – riunire nell’unità della fede ortodossa tutti gli abitanti di un Impero esteso alle province un tempo perdute – si scontra ancora con due comunità tradizionali poste al di fuori dei riferimenti cristiani: i samaritani e gli ebrei. Rispetto al giudaismo, riguardo al quale Costantino aveva essenzialmente legiferato per impedire tutte le circoncisioni forzate sugli schiavi e proteggere i convertiti al cristianesimo usciti dalle sue fila, Giustiniano non rimette in causa il suo statuto di culto riconosciuto dallo Stato (ma lo proibisce nell’Africa riconquistata). In compenso, egli si preoccupa delle date fissate per la celebrazione della Pasqua affinché esse non possano precedere quelle della Chiesa. Egli arriva anche a preconizzare l’impiego sinagogale della traduzione greca della Settanta, persuaso com’è che questa preparerà i suoi uditori alla conversione. Al tempo stesso egli respinge simultaneamente l’uso del Talmud (Deuterosis) che giudica estraneo alla rivelazione delle Sacre Scritture27. Riducendo un po’ più dei suoi predecessori lo spazio di espressione concesso al giudaismo, egli contribuisce così a una riebraizzazione della comunità contraria alle sue intenzioni. Contro i samaritani, ignorati dalla legislazione di Costantino, Giustiniano si fa più duro, come se la loro anzianità biblica non dovesse premunirli che dell’obbligo di cambiare religione. Interdetti dall’inizio del V secolo, come gli ebrei, dal servizio dello Stato, la legge li priva di tutti i luoghi di culto dal 528. Scatenata nella primavera del 529, la rivolta samaritana, abbondantemente descritta da Cirillo di Scitopoli nella sua Vita di san Saba28, comporta una repressione fra le più sanguinose in Palestina, al punto che una parte importante della comunità fugge verso la Persia. Per quelli che rimangono sul posto non resta che la soluzione di condurre un’esistenza di secondo piano, priva dei diritti di successione revocati come ai pagani, oppure di avviare una nuova insurrezione (555), anche questa severamente punita. Con i manichei, la logica giustinianea di riduzione dell’alterità religiosa raggiunge certamente il parossismo. Applicata per la prima volta senza dubbio il 31 marzo 302 sotto i tetrarchi, la repressione che colpisce la comunità dualista non è stata proseguita da Costantino. Ma essa riprende sotto il regno di Valentiniano I e in seguito non cessa di intensificarsi, in quanto il movimento incriminato è identificato come una dissidenza all’interno dello stesso cristianesimo. Giustiniano la considera come un’insopportabile devianza settaria, ben denunciata dalla Chiesa così come proscritta dalla legge romana. Dal suo avvento al potere (527), egli si ritiene autorizzato a fare applicare la pena capitale, già promulgata da Anastasio, contro i suoi adepti. Giovanni di Efeso indica che molti di loro furono bruciati vivi in una nave infiammata inviata in mare29, mentre Malalas segnala che una delle vittime più in vista era la sposa di un senatore30. Sembra che questa politica di terrore raggiunga presto i suoi scopi: il manicheismo, se non tutte le correnti del pensiero dualista, scompare allora dall’Impero. La stessa sorte toccò anche ai montanisti, dei quali Procopio afferma che periscono incendiando essi stessi i propri santuari della Frigia31. Senza dubbio essi giungono a questo gesto estremo in ragione della brutalità con la quale la legislazione imperiale è attuata: al pari del caso presentato dai samaritani, essa prevede in particolare la distruzione dei loro luoghi di culto32 oltre alle già evocate interdizioni a trasmettere le proprietà. Attivo nello stesso focolaio in cui la dottrina pneumatica incriminata si era diffusa a partire dal II secolo, Giovanni di Efeso si vanta anche di aver rovinato degli edifici e distrutto le reliquie di Montano, di Priscilla e di altre profetesse del movimento33.
L’imperatore vede, forse, nelle tendenze origeniste della Nuova Laura un altro errore plurisecolare, la cui soppressione può giovare alla gloria del suo regno. Lo si comprende quando si considera la sproporzione tra l’importanza del focolaio, circoscritto a qualche cerchia monastica della Palestina, e il grande risalto dato alle misure destinate a punirlo. In ogni caso, Giustiniano stesso rifiuta che si consideri la sua azione in questo campo come destinata a guadagnare la fiducia dei miafisiti34. Nulla indica che egli subisca qualche influenza da Teodora. Certo della propria causa, l’imperatore non immagina dunque altra via di decisione che quella dell’editto che è promulgato nel 543 e riguarda una serie di proposizioni da condannare tratte dall’origeniano Περὶ ἀρχῶν35. Il decimo e ultimo anatema colpisce lo stesso Origene. Giustiniano approfitta ancora dell’affaire per applicare una procedura pentarchica semplificata: oltre al sinodo permanente, ciascuno dei patriarchi, Vigilio compreso, dà il proprio assenso alla misura presa secondo la richiesta imperiale. Dopo che degli imprevisti hanno suscitato nuovi dissensi in seno stesso ai difensori della preesistenza delle anime tra isocristi e protoctisti, l’imperatore introduce una nuova lista di quindici anatemi che i padri conciliari, ancora prima dell’apertura del concilio di Costantinopoli (553), sono invitati ad accettare36. L’oggetto teologico è chiaro: oltre ad alcune delle tesi di Origene, sono questa volta le teorie di Evagrio a essere particolarmente prese di mira. Di conseguenza, la coercizione si abbatte sulla Nuova Laura, mentre l’opera esoterica e spirituale di Evagrio Pontico, i Kephalaia gnostica in particolare, scompare dalla letteratura greca, con il rischio di prosciugare tutta una corrente speculativa fino ad allora caratteristica della varietà del pensiero cristiano.
Nei confronti degli ariani e della diversità delle posizioni che questo termine indica, Giustiniano non differisce molto dai suoi predecessori, se non per una maggiore severità nell’applicazione delle misure che li escludono dagli impieghi civili e militari. Egli fa eccezioni temporanee solo per i goti federati37. La spedizione contro i vandali dà anche l’occasione all’imperatore (convinto ad attaccare, si dice, dalla visione di un vescovo, Leto, martirizzato nel 48438), di assimilare i barbari agli eretici. Dopo le sue prime vittorie, egli rende grazie sottolineando che i vandali, in 105 anni, si sono mostrati al tempo stesso «nemici dei corpi e delle anime39. Senza dubbio l’iscrizione nel calendario liturgico costantinopolitano, l’8 dicembre, della persecuzione subita dagli africani sotto il regno di Unerico rientra in questo discorso, applicabile all’Italia solo in minima parte. Gli ultimi edifici ariani ancora aperti in Oriente sono confiscati nel 538, se si crede a Giovanni Malalas40. Ma le tracce di un altro approccio imperiale, costantiniano, della controversia trinitaria non sono cancellate. Così, le tensioni registrate poco dopo l’arrivo di papa Vigilio a Costantinopoli incitano Giustiniano, il 28 maggio 547, a ricordare che, al contrario, la memoria dell’azione nei riguardi degli ariani non potrà rendere fragili le prerogative imperiali. Il basileus sceglie due lettere del suo predecessore, le fa tradurre e le invia al pontefice41. Queste lettere sono certamente destinate a giustificare l’intervento imperiale nelle questioni di fede. Ma c’è di più: uno dei due testi riporta una vigorosa condanna di Costantino42 verso Eusebio di Nicomedia, come se si trattasse di non prestare il fianco a un temibile rimprovero, tenendo presente l’errore originale: quello del battesimo del primo imperatore cristiano da parte di un eretico se non addirittura un eresiarca.
Nella sua preoccupazione di non concedere niente ai supposti nemici di cui fanno ancora parte i nestoriani, Giustiniano non sembra dunque né interrogarsi né mostrare esitazioni sulla politica da seguire, a parte nel caso dei miafisiti, a dire il vero molto numerosi. Non c’è, nonostante ciò, nessun dubbio che Giustiniano resti quello che egli fu sin dalla propria infanzia, un calcedoniano: ma la sua formazione, o ancora la frequentazione di vescovi e di monaci, sciiti per esempio, lo rende incline a privilegiare una cristologia discendente, della divinità verso l’umanità. Così, dal primo anno del suo regno, l’imperatore conferma attraverso un editto in forma di confessione di fede accompagnato da una serie di anatemi43, il suo attaccamento a una concezione teopaschita dell’Incarnazione (il Verbo di Dio come soggetto della sofferenza) già annunciata nel 520 da papa Ormisda. Al tempo stesso egli mantiene le misure in vigore prese da suo zio verso gli «eutichiani» soprattutto nelle diocesi di Oriente, dove l’antico comes orientis Efrem, divenuto arcivescovo di Antiochia, moltiplica le offensive brutali contro le roccaforti monastiche e i loro appoggi popolari. In compenso, Giustiniano, così come Giustino prima di lui, lascia l’Egitto al di fuori di ogni repressione. Senza dubbio egli vi constata il solido radicamento del movimento anticalcedoniano. Forse è anche messo al corrente delle rivalità interne a esso. Vi si sviluppa, infatti, una nuova controversia sulla corruzione a cui il Cristo avrebbe potuto andar soggetto nel suo corpo umano dopo la sua morte. Essa oppone i corruticoli – o ftartolatri, (termine peggiorativo che significa ‘adoratori del corruttibile’) – e partigiani dell’insegnamento di Severo (severini), agli incorruttibili, chiamati anche aftartodecti o giulianisti in ragione del loro attaccamento alla dottrina di Giuliano di Alicarnasso. La controversia si diffonde velocemente nella valle del Nilo.
Una campagna di repressione più dura del solito avviata da Efrem dopo l’assalto dato alla sua residenza, o ancora la ripresa del conflitto con la Persia (531), impegnano forse Giustiniano a riesaminare la sua politica. Sicuramente egli vi è indotto da sua moglie Teodora, la cui influenza cresce visibilmente dopo aver dimostrato un coraggio virile di fronte alla rivolta Nika. Ciononostante, tutto porta a credere che già da prima del divampare della rivolta, Giustiniano aveva attenuato l’impiego della violenza, attraverso richiami dall’esilio, per facilitare l’inizio di un dialogo ufficiale, che si concretizza nella venuta dei vescovi siriani a partire dalla fine del 531.
Tenutasi durante l’anno 532 nella capitale, al palazzo di Ormisda, una conferenza documentata da una parte e dall’altra riunisce in un contraddittorio due delegazioni episcopali dei partiti ortodosso e miafisita. Durante la prima sessione, ci si accorda sul punto che Eutichio meritava di essere condannato per la sua eresia mentre si ammette che Dioscoro non ha mai aderito alle sue convinzioni. In compenso, la seconda sessione di discussione si conclude mentre si sono induriti gli scambi relativi alle due nature, dopo che i miafisiti hanno rimproverato al concilio di Calcedonia di aver reintegrato Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa. Preoccupato di prendere in mano la direzione delle operazioni, l’imperatore convoca allora un terzo incontro. Messi in difficoltà dalla questione della loro comunione con Timoteo IV arcivescovo alessandrino sospettato di giulianismo, i siri fanno segretamente sapere all’imperatore che i loro avversari rifiuteranno di aderire alle formule teopaschite («l’Uno della Trinità ha patito nella carne»). Informato di questa accusa, Ipazio di Efeso si impegna ad allontanare il proprio partito da ogni sospetto. Tutto indica che Giustiniano è veramente coinvolto nell’intenso confronto fra i diversi punti di vista che si svolge davanti a lui. Egli ritiene di sua competenza la presentazione di proposizioni, in particolare sulla condanna di alcuni personaggi morti nella pace della Chiesa (Diodoro di Tarso e Teodoro di Mopsuestia si aggiungono a Teodoreto e Iba) o ancora sull’accettazione universale dei dodici anatemi enunciati da Cirillo di Alessandria. In contropartita, i miafisiti riconosceranno il concilio di Calcedonia, almeno per la parte che condanna Eutichio, e cesseranno di attaccare il Tomo (lettera dottrinale diafisita) redatto da papa Leone nel 449.
Se niente di concreto sembra emergere dai dibattiti di per sé contraddittori, se non la conversione ufficiale di un vescovo miafisita, l’imperatore spinge più avanti la propria intenzione di porre rimedio alla controversia in virtù della propria competenza teologica, tanto più che l’attaccamento dei calcedoniani al teopaschismo non gli è sembrato dei più convincenti. Si nota pertanto che lo strumento conciliare, privilegiato da Costantino, non è molto apprezzato da Giustiniano. Opponendosi a un neonestorianesimo di cui sono accusati in particolare i monaci acemeti, egli emana una confessione di fede (formula Iustiniani ad populos44) che, riprendendo il precedente costituito dall’editto Cunctos populos di Teodosio I, figura al primo rango delle leggi raccolte nel Codice giustinianeo45. Il provvedimento è parte di un dispositivo destinato a far pressione sulla Chiesa romana per ottenere il suo assenso al teopaschismo. Questa manifesta intenzione, semplicemente ponderata dalla riaffermazione della validità incontestabile dei quattro concili46, sfocia infine nell’atteso riconoscimento da parte del papa, Giovanni II, al termine di uno scambio di lettere che l’imperatore non manca di inserire nella propria raccolta47.
È consuetudine attribuire alle manovre di Teodora la nomina di due vescovi severiani, Teodosio ad Alessandria, nel febbraio 535 – vivamente contestato dai giulianisti che gli oppongono un concorrente, Gaiano, nel maggio 535 – e Antimo, a Costantinopoli, nel giugno dello stesso anno. Quest’ultimo non è altri che l’antico vescovo di Trebisonda, uno dei rappresentanti calcedoniani della conferenza del 532, che è in seguito passato al miafisismo. L’aspetto più rilevante è che Giustiniano lascia fare. Senza dubbio egli immagina di poter convincere Severo di Antiochia, che l’imperatore ha fortemente voluto nella capitale (535). In questo caso le condizioni previste nel 532 sarebbero diventate la via imperiale a una comunione infine ristabilita. Non ottenendo, però, molte delle concessioni sperate da un interlocutore che egli credeva indebolito dalla controversia aftartodoceta, Giustiniano si fa leva sulle esigenze del vescovo di Roma, Agapito, per cambiare associati. Infatti, venuto in delegazione per portare la richiesta del re ostrogoto Teodato di rimuovere le truppe romane dalla Sicilia, il papa, anticipatamente avvertito della sua partenza, esige la deposizione di Antimo e incoraggia la promozione al suo posto di colui che aveva forse condotto la contestazione, Mena. Agapito ottiene anche che l’imperatore e il nuovo arcivescovo firmino il libello di Ormisda, nondimeno deve confermare l’approvazione della linea teopaschita promossa da Giustiniano. Il concilio che segue di poco la morte inattesa del papa (22 aprile 536), aggiunge alla condanna di Antimo anche gli anatemi del monaco Zoara, di Pietro di Apamena e soprattutto quello di Severo, i cui scritti si stabilisce che siano bruciati (maggio-giugno 536). Giustiniano può dunque mostrarsi soddisfatto delle decisioni conciliari. Egli ha mostrato infatti quello che la formula di Mena sosteneva senza giri di parole: «nessuna questione che reca turbamento nella santa Chiesa dovrà essere risolta senza il suo [di Giustiniano] avviso e il suo consenso»48. La piena conformità delle decisioni ecclesiali alle intenzioni imperiali è enunciata ancora una volta nella novella 42, nella quale Giustiniano applica le sanzioni previste dal sinodo. Senza dubbio l’imperatore non ha preteso un seggio in occasione del concilio, ma egli non di meno ha tratto grande profitto dalle risoluzioni adottate in questa riunione tutto sommato limitata nei partecipanti. Ciononostante essa fu valorizzata al punto che, per diversi anni, fu considerata dai suoi contemporanei addirittura come un quinto concilio ecumenico.
Giustiniano compie un passo supplementare imponendo con tutta la sua autorità il ripristino in Egitto di una gerarchia fedele a Calcedonia, a cominciare da Alessandria, da cui tutti i vescovi della valle del Nilo dipendono direttamente. Paolo di Tabennesi, il nuovo patriarca (forse alla fine del 537), è munito di attribuzioni civili eccezionali e installato sulla cattedra di San Marco, mentre Efrem, nell’aria siro-mesopotamica, assistito dal vescovo di Amid, Abraham bar Kaïli, riprende una brutale repressione. Presto gli «eutichiani e gli acefali che soffrono della cattiva dottrina di Dioscoro e di Severo»49, di qualunque confessione essi siano, sono esplicitamente e nominalmente designati dalla legge come eretici e sono esposti immediatamente alle misure discriminatorie sul piano patrimoniale. Eppure l’imperatore, che deve d’altronde tener conto delle vicissitudini di certi episcopati (ad esempio deposizione di Paolo da parte del concilio di Gaza nel 540), non rinuncia a esercitare pressioni in materia cristologica.
Mentre parte degli oppositori al concilio si rifugiano a Costantinopoli, in ragione dei cattivi trattamenti subiti, Giustiniano si riserva la possibilità di intrattenersi con le figure principali del movimento miafisita. Egli affida anche, lo si è visto, importanti compiti missionari al monaco Giovanni. Poco dopo la morte di Teodora, egli riceve Antimo e Teodosio di Alessandria50; riunisce ancora quattrocento monaci siri verso il 549, albergati all’ospizio di Sant’Isidoro, peraltro senza che i colloqui, distribuiti lungo un intero anno, abbiano buon esito. Verso il 557, convoca Giacomo Baradeo, lo stesso che, dopo Giovanni di Tella, si è sforzato di assicurare, con la benedizione di Teodosio, la perpetuazione di un clero miafisita in Oriente. Pseudo-Dionigi nella sua Cronaca evoca altre iniziative nei confronti degli egiziani. Tutto lascia intravedere l’interesse di Giustiniano per questi incontri, così come la sua instancabile volontà di porre fine alle divisioni delle Chiese affidandosi anche ad altri strumenti di persuasione piuttosto che alla sola forza.
Questo obiettivo costante spiega il fascino esercitato su di lui da Teodoro Aschida, un monaco origenista venuto dalla Palestina nel 536 e presto elevato alla sede di Cesarea di Cappadocia dopo essere entrato nelle grazie dell’imperatore. Nel momento in cui il diacono latino Pelagio, che tuttavia si oppone alla sua influenza, rientra a Roma, Aschida ha la prontezza di indurre l’imperatore a rilanciare le sue proposte del 532 e a mostrare così la continuità della sua azione. Se Aschida cerca anche di proteggere i suoi amici origenisti suscitando una controversia, la cui entità promette di essere tra le più considerevoli, Giustiniano manifesta ancora una volta la sua propensione a prendere l’iniziativa in materia dogmatica con l’obiettivo di legare i miafisiti alla Chiesa imperiale. Evidentemente non si tratta per lui di attirarsi l’ignominia con il rischio di apparire un tiranno eretico, capace di legiferare contro l’autorità di un concilio, così come era accaduto a Basilisco (475-476). Rivendicando al contrario la sua completa adesione a Calcedonia, egli incentra il proprio attacco sull’opera di Teodoro di Mopsuestia (morto nella pace della Chiesa nel 428), sui lavori anticirilliani composti da Teodoreto nel contesto della controversia nestoriana (428-433) e sulla lettera di Iba a Mari il Persiano (scritta poco dopo l’unione del 433). Si noti che Giustiniano, convinto da Aschida, considera quest’ultimo testo un falso. La procedura utilizzata contro quelli che si è convenuto chiamare i ‘tre capitoli’ (espressione che rinvia ai tre capitula che contengono le tre condanne) somiglia molto a quella impiegata nei confronti degli origenisti: è quindi pubblicato un editto (544-545), del quale si ha conoscenza solo tramite una serie di frammenti citati dai suoi avversari (Facondo d’Ermiane e Pelagio)51, che viene inviato a tutta la Chiesa imperiale. Eppure questa volta i patriarchi faticano ad accordarsi con l’imperatore, mentre Vigilio comincia a porre dei rifiuti, poiché si tratta di condannare direttamente (Teodoro) o implicitamente figure morte nella pace della Chiesa, due delle quali ristabilite nella loro dignità episcopale a Calcedonia. Giustiniano allora guadagna abilmente del tempo. Dopo aver costretto il papa, che non ha saputo conquistare la sua fiducia, a lasciare Roma, egli non si affretta a farlo entrare a Costantinopoli. È solo quando il rapporto di forza si delinea nettamente, quando gli altri patriarchi hanno espresso la loro sottomissione, che Vigilio è ammesso nella capitale (25 gennaio 547). Comincia allora nei confronti del papa una lunga e logorante partita orchestrata dal palazzo. Vigilio cerca di organizzare i partiti: compie immediatamente un atto memorabile e spettacolare (la scomunica di Mena fino al giugno 547) che non manca di rimandare allo spirito di Agapito, e tuttavia in seguito si mostra più incerto, servendosi probabilmente di lettere segrete, la cui autenticità è contestata, sotto forma di garanzie date all’imperatore (giugno 547). Attraverso una riunione di concertazione, il papa cerca ben presto di persuadere i settanta vescovi occidentali presenti a Costantinopoli, ma la risoluta opposizione espressa da Facondo di Ermiane lo induce a porre fine al dibattito (inizio del 548). L’11 aprile egli fa conoscere la sua decisione mediante uno iudicatum che mira ad assicurare la distinzione e l’articolazione tra due principi ugualmente affermati: condanna dei ‘tre capitoli’ e adesione a Calcedonia52. Di fronte all’opposizione a questa sentenza che si manifesta in Illiria e soprattutto in Africa (dove il papa è scomunicato dal giudizio di un’assemblea conciliare riunita a Cartagine53), Vigilio deve rivedere la sua linea di condotta. Dall’imperatore egli ottiene allora di poter ritirare il suo iudicatum ma deve giurare di non ostacolare la condanna dei ‘tre capitoli’. In questa occasione, per una seconda volta, Giustiniano si veste dell’autorità di Costantino per costringere il papa a rivedere le sue posizioni. Infatti Vigilio pronuncia la formula solenne che invoca la potenza dei chiodi della passione54, disvelata, come riporta la tradizione, dalla pia madre del primo imperatore favorevole ai cristiani, l’imperatrice Elena, e da allora attributo esclusivo del palazzo. Né allora, né più tardi, sembra, Vigilio oppone la leggenda del battesimo romano amministrato dal suo predecessore Silvestro all’ostentazione della legittimità ricercata da Giustiniano.
L’accordo tattico stipulato tra l’imperatore e il papa è sfruttato a corte: dopo che la prospettiva di un sinodo con delegazioni illiriche e africane si è dissipata, un secondo editto, in forma di trattato approfondito contro i ‘tre capitoli’, è promulgato nel luglio 55155. La sua affissione e soprattutto l’impiego che ne fa Aschida, suscitano crisi ancora più acute con Vigilio, che è ospitato presso santuari per due volte, a metà agosto del 551 (nella chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, già menzionata, nei pressi del palazzo di Placidio, abituale residenza del papa a Costantinopoli) e dal 23 dicembre 551 al 26 giugno 552 sulla riva asiatica del Bosforo (presso il santuario di S. Eufemia, sede del concilio di Calcedonia). In questo secondo rifugio, Vigilio, qui raggiunto da Pelagio, non manca di fare un primo racconto dettagliato delle sue tribolazioni (nella lettera enciclica Dum in sanctae Eufimiae del 5 febbraio 55256). Dopo nuove violenze scomunica Aschida, Mena e i vescovi alle loro dipendenze, facendo affiggere una condanna preparata dal 14 agosto precedente ma fino ad allora tenuta segreta57. Poco dopo, il papa raccoglie molti di questi testi in un dossier che affida ai legati del re franco Teobaldo, perché, il tramite del vescovo di Arles, si sappia in Occidente quali sofferenze egli abbia patito.
Dopo il pentimento di Mena e di Aschida, evidentemente sollecitato da un ordine dell’imperatore, la situazione si tranquillizza, ma prende un nuovo corso quando Giustiniano convoca un concilio, di certo dopo la morte dell’arcivescovo di Costantinopoli (24 agosto 552). Vigilio cerca allora, attraverso molteplici trattative, di assicurare nell’assemblea, se non la presenza di una maggioranza di vescovi occidentali – la sua proposta di tenere la riunione in Sicilia o in Italia continentale è respinta – almeno di un numero uguale a quello degli orientali. Giustiniano gli oppone allora la logica pentarchica di uguali rappresentanze numeriche per ciascun patriarca. Vigilio opta allora per il ritiro.
Senza dubbio Giustiniano non siede in seno all’assemblea, al contrario di Costantino, né fa dirigere i dibattiti sinodali da commissari, per meglio lasciar credere che essa disponga di una reale autonomia. Però il concilio, che si apre in assenza del papa il 5 maggio 553, è comunque direttamente controllato dall’imperatore. Posto sotto la presidenza di Eutichio di Costantinopoli, di Apollinare di Alessandria e di Domno di Antiochia, mentre Eutichio di Gerusalemme si è fatto rappresentare, l’assemblea riunisce 153 vescovi di cui solo sei occidentali (africani gli altri). La lettura della lettera programmatica redatta dall’imperatore apre ufficialmente i lavori dell’assemblea: questa aspira a porsi in continuità con i quattro concili convocati da Costantino, Teodosio, Teodosio II e Marciano. Essa deve colpire il nestorianesimo serpeggiante che è ancora veicolato dai ‘tre capitoli’. Quanto al rifiuto di prendere parte alle deliberazioni mostrato da Vigilio, Giustiniano intende criticarne l’inconsistenza, non senza brandire la minaccia di prove singolarmente compromettenti per il papa. Invitato dai vescovi a raggiungerli, Vigilio non lo fa, prevedendo in compenso di esprimersi in merito entro un termine di venti giorni. Le sessioni conciliari dunque si susseguono senza di lui e senza altri vescovi occidentali a lui vicini, e si adducono diversi casi di condanne post mortem per meglio sconfessare Teodoro di Mopsuestia. Gli scritti di Teodoreto e la lettera di Iba, la cui falsità non è stata dimostrata, sono parimenti colpiti dagli anatemi. Il 26 maggio, in occasione della settima sessione, i padri conciliari vedono presentarsi uno dei più alti servitori dello Stato, il questore del Sacro Palazzo. Questi li informa che Giustiniano ha rifiutato di ricevere il parere scritto che Vigilio ha lungamente sviluppato58 insieme con i membri del suo entourage, tra cui Pelagio. L’imperatore non ha dunque preso atto della distinzione che il papa introduce fra la condanna portata contro sessanta proposizioni di Teodoro di Mopsuestia e il rifiuto di contestarne la memoria. Al contempo egli non accetta di correggere le decisioni di Calcedonia a proposito di Teodoreto e di Iba. Per compromettere ancora di più la credibilità del papa e accusarlo di colpevoli procrastinazioni, l’imperatore presenta davanti al concilio i documenti segreti già evocati all’inizio della riunione. Conforme alle intenzioni dell’imperatore, il concilio decide di ritirare il nome di Vigilio dai dittici, non senza affermare simultaneamente che «l’unione al Seggio apostolico»59 è ciononostante conservata.
Il concilio si conclude dunque con la proclamazione di quattordici anatemi contro i ‘tre capitoli’, il cui tenore riprende direttamente l’enunciato dell’editto imperiale pubblicato nel luglio del 551. Ottenendo dai vescovi la conferma della condanna delle posizioni origeniste pronunciata nel marzo-aprile del 553, Giustiniano si cura di impedire che le decisioni sinodali appaiano come la vittoria schiacciante del partito di Aschida. Al contrario, bisogna comprendere come la Chiesa imperiale, se essa è creazione costantiniana, sia tenuta a rispondere senza indugio alla sollecitudine dell’imperatore. Lo stesso Vigilio si sottomette presto (secondo Constitutum del 23 febbraio 55460), ma deve risiedere ancora qualche tempo a Costantinopoli. Munito della pragmatica sanzione imperiale (agosto 554) che riorganizza il governo dell’Italia risolutamente riconquistata, egli può infine pensare di ritornare a Roma, ma muore prima di poterla raggiungere, durante uno scalo siciliano a Siracusa (7 giugno 555). Giustiniano impone il suo successore, l’inatteso Pelagio, al quale ha restituito la libertà. Da allora, colui che era stato uno dei campioni della difesa dei ‘tre capitoli’, al punto da accusare Vigilio dopo il secondo constitutum e da essere stato imprigionato, dovrebbe facilitare l’accettazione della condanna dei ‘tre capitoli’ in Occidente e in Italia specialmente. A dispetto delle sue precauzioni, un nuovo scisma si sviluppa nelle regioni di Milano e soprattutto di Aquileia: esso non sarà arginato con decisione che all’inizio del VII secolo. La resistenza africana o illirica sarà invece liquidata più rapidamente.
Il disegno di Giustiniano – promuovere un’interpretazione specifica della dottrina calcedoniana, articolata intorno a due principi complementari, l’enunciato teopaschita e la condanna dei ‘tre capitoli’ – aggiunge di fatto divisione a divisione. Queste decisioni, confortate dall’autorità di un concilio ecumenico, senza il quale il suo regno sarebbe stato simbolicamente imperfetto, suscitano non pochi tormenti presso i diafisiti, senza attirare l’attenzione dei monofisiti. Nessun documento lascia in ogni caso intendere che quanto l’imperatore considera una chiarificazione decisiva modifichi la posizione degli avversari di Calcedonia. Non c’è nessun dubbio, in compenso, che il dibattito teologico solleciti continuamente le facoltà dell’imperatore, al punto da spingere Procopio ad affermare, in un paragrafo, che tutte le sue attenzioni sono concentrate sulle questioni dottrinali, a scapito delle necessità militari in Italia61. Giustiniano pone la controversia cristologica al primo posto delle sue preoccupazioni, non soltanto di credente ma anche di sovrano. Di conseguenza, egli non si accontenta di essere il difensore della Chiesa, come Costantino, ma intende esserne in qualche modo il maestro. Schwartz lo dipinge dunque come un pericoloso teologo, appassionato o dilettante, che vuole ridurre l’ortodossia esclusivamente alle proprie concezioni62. Ma questa rappresentazione è parziale: essa suppone, come ha mostrato recentemente Mischa Meier, che per non provocare l’irreparabile, l’imperatore avrebbe dovuto limitarsi al ruolo, allora secolare, del politico ecclesiastico63. Non rispettando questa convinzione, Giustiniano diverrebbe l’‘affossatore’ della Chiesa imperiale immaginata da Costantino. Tutto porta a credere che Giustiniano non confonda passione e piacere in materia di approfondimento teologico: egli cerca incessantemente di migliorare i dispositivi dogmatici che definiscono l’ortodossia, così come si sforza di perfezionare il corpo di leggi che regge l’Impero. La prova che questa ambizione non lo abbandona mai appare in una misura tardiva, spesso discussa. Secondo la testimonianza di Evagrio Scolastico infatti, che corrobora in parte la Vita di Eutichio64, il vecchio imperatore concepirebbe un editto dal contenuto aftartodoceta, sotto l’influenza di un nuovo vescovo origenista, quello di Ioppe, entrato a corte. Solo la morte gli impedirebbe di imporne la firma esiliando i recalcitranti, come Anastasio di Antiochia. La procedura apparentemente prevista dall’imperatore è assai conforme alle precedenti e non può in sé stessa sembrare sospetta. Resta da interpretare quello che è dato comprendere rispetto al contenuto: potrebbe trattarsi di un gesto verso i giulianisti, eppure ciò avviene senza che la dottrina delle due nature sia abbandonata. Certamente Giustiniano contempla a tal punto la divinità all’opera in Cristo da pensare che facendo l’esperienza di passioni innocenti, della sofferenza e della morte, il Verbo ne trasformerebbe l’umanità. Non si tratta di divagazioni senili: bisogna invece guardare alle iniziative imperiali come all’ultimo atto di una riflessione continua, fino al rischio dello smarrimento. Presa nel suo insieme, l’ampia opera propriamente teologica di Giustiniano non appare dunque incoerente. Essa contribuisce anche a una ridefinizione della fede ortodossa, garantendo l’adozione ufficiale della formula teopaschita e un riequilibrio dell’enunciato sulle due nature in senso cirilliano. Giustiniano può dunque essere riconosciuto come un neocalcedoniano, un rinnovatore, esponendosi evidentemente in questo campo, come in quello della legge o anche in quello delle conquiste, a essere vilipeso come tale65.
Sul versante ecclesiologico, invero inseparabile dal precedente, l’attivismo imperiale produce un altro effetto durevole: esso integra Roma, alternando seduzione e obbligo, in una Chiesa imperiale nella quale, con suo grande dispiacere, la sede apostolica non è più percepita nella sua assoluta singolarità. Si tratta di un cambiamento fondamentale, perché nel corso di due secoli, dalla successione di Costantino fino al 536, i papi avevano sfruttato la specificità della loro posizione. Essi si ritrovano improvvisamente senza una vera concorrenza ecclesiale in Occidente e sotto la protezione politica, salvo che in rari periodi (ad esempio durante il regno di Costanzo II), di regimi tra loro certamente diversi e addirittura contrari al loro insegnamento in materia dottrinale, tutti però impegnati a sottolineare la propria specificità nei rapporti con Costantinopoli.
Questa oggettiva convergenza di interesse procurava alla sede apostolica una sorprendente libertà e facilitava considerevolmente l’espressione della sua ideologia petrina, fondamento della sua pretesa al primato. È dunque questo sforzo intellettuale e istituzionale, scandito dagli apporti di Leone, di Felice III e specialmente di Gelasio, che si trova rimesso in discussione.
Giustiniano intende, infatti, manifestare le potenzialità della competenza riconosciuta all’imperatore da Costantino: assicurare la preservazione dell’unità ecclesiale. A lungo ostacolata dalla dualità del potere imperiale, dalla perdita delle province e dalla scomparsa stessa dell’Impero romano d’Occidente (sopraggiunta nel 476 secondo la Chronica di Marcellino Comes, un membro dell’entourage illirico di Giustiniano), questa attribuzione acquista un rilievo nuovo via via che le vittorie militari si accumulano. L’obiettivo designato consiste nell’armonia (symphonia) tra Impero (basileia) e sacerdozio (hiérosynè), entrambi principali doni di Dio agli uomini66. Frutto di questa preoccupazione, l’idea pentarchica, enunciata a partire dal 535 in numerose novelle così come altrove all’occasione67, articola molto abilmente diverse intenzioni: in primo luogo essa pone il potere politico in posizione preminente, in quanto nessuna sede, neanche quella di Roma, può pretendere di costituirsi come il suo interlocutore ecclesiale autorizzato. A questo proposito, la posizione unanime dei cinque patriarchi è la sola ammissibile, perché essi soltanto possono conferire alla Chiesa la sua autorità a rappresentare l’unità apostolica. In secondo luogo, l’ordine gerarchico accettato è tenuto ad annichilire i rapporti di forza geo-ecclesiologici tra le sedi principali. Da questo punto di vista l’imperatore e i suoi consiglieri sembrano avere meditato precisamente sui fattori ecclesiologici all’opera nella controversia miafisita che ha così profondamente scosso l’Impero a partire dal 448. Così Giustiniano eleva «il trono santissimo e apostolico dell’antica Roma» al primo posto. Egli accorda in seguito il secondo posto alla sede della Nuova Roma68, prima di riservare i tre restanti rispettivamente ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme69. Anche se non è menzionata nella documentazione ufficiale tra il 451 e il 535, questa classificazione non è arbitraria. Essa non si appoggia solo sull’ordine iniziale mostrato dalla lista dei vescovi presenti all’epoca della prima sessione di Calcedonia. Sono piuttosto le disposizioni decise durante il concilio (il decreto disciplinare chiamato impropriamente 28° canone, che riguarda Costantinopoli e la definizione della competenza sovrametropolitana di Gerusalemme sull’insieme della Palestina) che ne costituiscono il fondamento più solido. A questo accomodamento, derivato essenzialmente dall’ordine politico (spazio eminente delle vecchie e nuove capitali), viene implicitamente ad accostarsi una seconda logica quale concessione all’antica storia del cristianesimo e all’ideologia veicolata da Roma. È così che Alessandria e poi Antiochia, e non Antiochia e poi Alessandria, sono collocate alla terza e alla quarta posizione. Questa ripartizione mostra senza dubbio il maggior prestigio che la sede di Atanasio e Cirillo conservava in Oriente, ma su questo punto essa riproduce in egual misura la classifica presentata da Roma durante il pontificato di papa Damaso, in nome del legame che unisce ciascuna delle tre sedi all’eredità e alla figura di Pietro. Del riferimento al principe degli apostoli, che priverà Costantinopoli di tutta la legittimità a occupare il secondo posto, ufficialmente non è fatta nessuna menzione nel discorso imperiale relativo alla pentarchia.
In sostanza Giustiniano non si affanna a elaborare una teoria generale della sua costruzione ecclesiologica. Quello che gli interessa, oltre all’affermata coesione delle cinque sedi nella fede, è che, ciascuno dei patriarchi, ognuno nel proprio campo, assicuri a un livello che fino ad allora non era stato istituzionalizzato, l’informazione, il controllo e la trasmissione attesi, in materia di affari religiosi, tra potere centrale da una parte e le province, fino alle Chiese locali, dall’altra. Questa riforma si applica d’altronde senza che il diritto dei metropoliti sui loro suffraganei sia ridotto. Detto altrimenti, Giustiniano intende sfruttare le capacità funzionali di un sistema che non copre interamente lo spazio ecclesiastico nell’Impero (come per esempio nel caso dell’autocefalia cipriota) e che non corrisponde a una circoscrizione civile a volte di taglia comparabile se non uguale, anche se egli lo lascia immaginare impiegando spesso l’espressione ‘patriarca della diocesi’70. In quanto responsabile per le metropoli, il patriarca è così competente per evitare l’assenteismo episcopale. Egli ha in particolare il compito di regolare la circolazione dei vescovi che desiderano andare a perorare la propria causa a Costantinopoli poiché, salvo mandato imperiale, egli può negare la propria raccomandazione. Inoltre, il patriarcato è considerato dalla legge come il livello idoneo a disporre di una rappresentanza permanente nella capitale. Sono gli agenti ufficiali del patriarca, gli apocrisiari, incaricati di introdurre e rappresentare i candidati autorizzati presso il potere a «godere della vista imperiale» e a ottenere, per esempio, una certa riduzione sulle imposte. Ancora al patriarca spetta la vigilanza sulle offerte versate, affinché al momento delle ordinazioni esse corrispondano alle tariffe fissate. È ancora a lui, infine, che compete il giudizio in appello delle cause ecclesiastiche già ascoltate dall’organismo provinciale, o di conoscere i casi che coinvolgono i metropoliti71 (novella 123, c. 23).
Nel momento in cui comincia a esprimere il suo favore nei riguardi della comunità cristiana, Costantino non ignora che essa si era da lungo tempo dotata di un certo numero di canoni posti naturalmente sotto il patrocinio apostolico o decisi da assemblee sinodali che le permettono di rispondere alle sfide della sua durata nel tempo e della sua crescita. Riunendo il concilio di Nicea (325), l’imperatore desiderava che la Chiesa continuasse a precisare la propria disciplina oltre che il proprio dogma. In compenso, egli ritiene suo dovere configurare alcuni dei suoi rapporti con il diritto romano. Egli privilegia allora la figura del vescovo in quanto incarnazione del corpus christianorum e gli conferisce nuove importanti attribuzioni. Si elabora così pazientemente una ripartizione delle competenze che riposano sulla distinzione implicita tra externa e interna. Senza dubbio questa distinzione resta fragile e può essere turbata dall’influenza imperiale, come suggerisce il pensiero attribuito da Atanasio a Costanzo II: egli riterrebbe che la sua sola volontà valga come canone72. La progressiva coincidenza tra la società e la comunità cristiana dà ben presto il via a una permeabilità più grande delle disposizioni regolamentari proprie della vita della Chiesa. Così, nella sua novella 17 (luglio 445), Valentiniano III tratta della questione del primato giurisdizionale della sede di Roma nell’affaire delle usurpazioni commesse in Gallia da Ilario di Arles; a Calcedonia, Marciano, durante la sesta sessione, fa conoscere il suo desiderio che i ‘tre capitoli’ siano promulgati dai vescovi in materia di sorveglianza dei chierici e dei monaci: essi diventeranno i canoni 3, 4 e 20 del concilio.
Pienamente cosciente di questo processo, Giustiniano ha per obiettivo di conferirgli una coerenza d’insieme facendo del potere legislativo dello Stato la fonte ordinaria dell’armonizzazione, dal momento che esso è ispirato da Dio. Con il consiglio degli ecclesiastici che popolano il suo entourage e alimentano la sua riflessione, egli opera dunque una giuridicizzazione spinta dalla vita cristiana nel contesto quotidiano del suo sviluppo: la città. Simultaneamente, egli si premura di sottolineare che le sue decisioni hanno origine dai santi canoni e dalle leggi73. Questo radicamento gli permette ancora una volta di presentarsi come colui che non ha altra preoccupazione che la chiarezza delle regole – cosa che non impedisce dei rinvii da una novella all’altra – e il controllo dei comportamenti. Da qui le sue decisioni dettagliate sui candidati eleggibili alle funzioni episcopali (un uomo preferibilmente celibe o che, in ogni caso, non abbia più una compagna né dei figli, capace di padroneggiare abbastanza la scienza sacra, con un’età di trentacinque anni, minimo di trenta, che può essere eventualmente un laico ma che, in questo caso, non dovrà bruciare le tappe del cursus, etc.); da qui le sue prescrizioni sulle modalità di designazione e di ordinazione delle persone esaminate. Riguardo alle funzioni giudiziarie del vescovo, in particolare quelle ereditate dall’audientia episcopalis cara a Costantino, Giustiniano ha per progetto quello di lasciare aperta al tribunale imperiale la possibilità di essere adito, quando esso sia ugualmente competente e la causa interessi un laico. In compenso, egli assegna al vescovo una funzione civile crescente: a fianco delle autorità pubbliche egli deve farsi carico della preoccupazione dell’approvvigionamento e del buono stato delle costruzioni. Egli deve anche sorvegliare i rappresentanti dello Stato. Gli spetta inoltre un’azione caritatevole organizzata per sua iniziativa in istituzioni specializzate. Nel caso di frequenti fondazioni private, è importante che egli ne supervisioni il funzionamento. Inoltre, egli deve visitare le prigioni.
La legislazione giustinianea si preoccupa anche della scelta e del comportamento degli ecclesiastici – che devono astenersi dagli spettacoli – e si estende fino alle diaconesse esigendo maggior rigore dai preti e dai diaconi. Essa riflette in egual misura la tecnicità delle funzioni diversificate, esercitate nel quadro di un apparato episcopale perfezionato che, per le sedi più importanti (Costantinopoli e Alessandria), può ormai contare diverse centinaia di persone. Una delle priorità dell’imperatore sembra essere quella di inquadrare rigorosamente la vita monastica. Egli la identifica nel cenobitismo, insiste soprattutto sull’assoluta separazione dei sessi e pone le comunità costituite sotto la necessaria guida dei capi, gli egumeni, essi stessi sottomessi ai vescovi. Egli tende anche a fare dei conventi, in quanto luoghi di penitenza, delle istituzioni nelle quali potrà essere eseguita una sentenza penale.
Per quanto riguarda la sua opera in materia di politica religiosa, il bilancio di Giustiniano può sembrare stridente e perfino odioso. A voler credere al Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis di Agnellus (dopo la metà del IX secolo), alla morte dell’imperatore, certamente, si piange con una profonda afflizione l’uomo ortodosso74. Tuttavia, al contrario di Costantino, la Chiesa non accorda a Giustiniano l’accesso alla comunione dei santi75. Senza dubbio il suo ricordo era troppo segnato dall’oppressione che egli esercitò sulla Chiesa stessa. Un moderno giudizio sul rimprovero allora mossogli è stato avanzato in modo incisivo da uno dei migliori esperti del periodo, Ernst Stein, secondo cui Giustiniano ha la terribile specificità di essere «il solo principe che abbia perseguitato tutte le comunità religiose del suo Impero, senza far eccezione per quella in cui si riconosceva egli stesso»76. Certamente Giustiniano è ugualmente tra quanti sono stati più duramente esposti all’accusa, così volentieri brandita contro i sovrani bizantini, di cesaropapismo. Gilbert Dagron ha giustamente stabilito quanto questo concetto, che stigmatizza gli eccessi del re-prete, che Iustus Henning Böhmer (1674-1749) aveva forgiato in opposizione a quello della teocrazia, fosse viziato da anacronismo77. Impreciso e deliberatamente polemico, esso non rende giustizia ai criteri di distinzione stabiliti da Eusebio di Cesarea che non confonde missione imperiale e sacerdozio ecclesiale, elementi che certo Giustiniano considera assai prossimi l’uno all’altro. In materia di fede e di culto, l’imperatore-teologo, compositore di un celebre inno cristologico (Ho Monogenès), si avvicina quanto più possibile al limite di competenze fissato per la basiléia. Ciononostante egli ha vegliato affinché l’immagine di una intesa effettiva – benché non sempre immediata e cordiale – persistesse con il sacerdozio; completa così il ruolo di «il vescovo di quelli di fuori» di cui seppe donare un’immagine luminosa senza sconfinare nella funzione ministeriale del clero. Tra le altre cose egli accoglie come padrino i nuovi battezzati, i re eruli (Grete, nel 528) o unni del Cersoneso (Grod, nello stesso anno78), con un gesto che nessun precedente costantiniano poteva relativizzare. Nonostante ciò, Giustiniano fallisce nell’apparire eguale in dignità al fondatore dell’Impero cristiano, di cui la capitale eponima poté manifestare il disegno nel tempo e conferire a Costantino una gloria cristiana senza pari.
1 Per una bibliografia generale si vedano: W.H.C. Frend, The Rise of the Monophysite Movement. Chapters in the History of the Church in the Fifth and Sixth Centuries, Cambridge 1972; L. Magi, La sede romana nella corrispondenza degli imperatori e patriarchi bizantini (VI-VII sec.), Louvain 1972; P.T.R. Gray, The Defense of Chalcedon in the East (451-553), Leyde 1979; L. Perrone, La chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, dal concilio di Efeso (431) al secondo concilio di Costantinopoli (553), Brescia 1980; A.M. Demicheli, La politica religiosa di Giustiniano in Egitto. Riflessi sulla chiesa egiziana della politica giustinianea, in Aegyptus, 63 (1983), pp. 217-257; A. Grillmeier, Jesus der Christus im Glauben der Kirche, II/2, Die Kirche von Konstantinopel im 6. Jahrhundert, Fribourg 1989 (trad. fr. Le Christ dans la tradition chrétienne, II/2, L’Église de Constantinople au VIe s., Paris 1993); J. Meyendorff, Imperial Unity and Christian Divisions. The Church, 450-680 A.D., Crestwood 1989, (trad. fr. Unité de l’Empire et division des Chrétiens, l’Eglise de 450 à 680, Paris 1993); P. Chuvin, Chronique des derniers païens. La disparition du paganisme dans l’Empire romain du règne de Constantin à celui de Justinien, Paris 1990; F. Gahbauer, Die Pentarchietheorie. Ein Modell der Kirchenleitung von den Anfängen bis zur Gegenwart, Frankfurt a.M. 1993; M. Maas, John Lydus and the Roman Past, Antiquarianism and politics in the Age of Justinian, London 1992; Cl. Sotinel, Autorité pontificale et pouvoir impérial sous le règne de Justinien: le pape Vigile, in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 104 (1992), pp. 439-463. M. Whitby, Images for Emperor in Late Antiquity: A Search for New Constantine, in New Constantines. The Rythm of Imperial Renewal in Byzantium, 4th-13th Centuries, Papers of the Twenty-Sixth Spring Symposium of Byzantine Studies (St. Andrews March 1992), ed. by P. Magdalino, Aldershot 1993, p. 83-93; J. 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Wipszycka, Storia della chiesa nella tarda antichità, Milano 2000; G. Crifò, Chiesa e impero nella storia del diritto da Costantino a Giustiniano, in Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, Atti delle prime e delle seconde giornate patristiche torinesi (Torino 18-19 aprile 1994 e 29-30 aprile 1996), a cura di E. dal Covolo, R. Uglione, Roma 2001, pp. 329-355; B. Croke, Count Marcellinus and his Chronicle, Oxford 2001; D. Hombergen, The Second Origenist Controversy. A New Perpective on Cyril of Scythopolis’ Monastic Biographies as Historical Sources for Sixth Century Origenism, Rome 2001; O. Mazal, Justinian I. und seine Zeit. Geschichte und Kultur des Byzantinischen Reiches im 6. Jahrhundert, Köln-Weimar-Wien 2001; K.L. Noethlichs, Justinianus (Kaiser), RAC, XIX, cc. 669-763. J. Beaucamp, Le philosophe et le joueur. La date de la fermeture de l’École d’Athènes, in Mélanges Gilbert Dagron, Travaux et mémoires, 14 (2002), pp. 21-35; M. Meier, Das andere Zeitalter Justinians. Kontingenzerfahrung und Kontingenzbewältigung im 6. Jahrhundert n. Chr., Göttingen 2003; G. Tate, Justinien. L’épopée de l’Empire d’Orient (527-565), Paris 2004; The Cambridge Companion to the Age of Justinian, ed. by M. Maas, Cambridge 2005; B. Croke, Justinian, Theodora and the Church of Saints Sergius and Bacchus, in Dumbarton Oaks papers, 60 (2006), pp. 25-63; The Crisis of the Oikoumene. The Three Chapters and the Failed Quest for Unity in the Sixth Century Mediterranean, ed. by C. Chazelle, C. Cubitt, Turnhout 2007; B. Croke, Justinian under Justin. Reconfiguring a Reign, in Byzantinische Zeitschrift, 100 (2007), pp. 13-56. J. Hillner, Monastic Imprisonment in Justinian’s Novels, in Journal of Early Christian Studies, 15 (2007), pp. 205-237. V.L. Menze, Justinian and the Making of the Syriac Orthodox Church, Oxford 2008; C. Dell’Osso, Cristo e Logos: il calcedonismo del VI secolo in Oriente, Roma 2010; H. Leppin, Justinian. Das christliche Experiment, Stuttgart 2011; M. Meier, «Ein dogmatischer Streit» – Eduard Schwartz (1858-1940) und die ‘Reichskonzilien’ in der Spätantike, in Zeitschrift für Antikes Christentum, 15 (2011), pp. 124-139. Ph. Blaudeau, Le siège de Rome et l’Orient (448-536). Etude géo-ecclésiologique, Rome 2012.
2 Procop., Arc. VIII 12-21.
3 Malal., chron. XVIII 1.
4 Rom. Mel., 54, in Hymnes. V. Nouveau Testament (XLVI-L) et Hymnes de circonstance (LI-LVI), éd. par J. Grosdidier de Matons, Paris 1981, §21.
5 Ivi, § 22-23.
6 ACO IV 1, pp. 8, 22-23.
7 Procop., Aed. IV 7,7.
8 Ivi, V 2.
9 AP I 10.
10 Procop., Aed. I 2,5-12.
11 Coripp., Iust. II vv. 265-267.
12 E. Schwartz, Zur Kirchenpolitik Justinians, München 1940, p. 276.
13 Novell. Iust. 31, praef. (17 marzo 536).
14 Novell. Iust. 105,2,4 (28 dicembre 536).
15 Theoph. Conf., Chron. a.m. 6056
16 Cod. Iust. I 1.
17 Cod. Iust. I 1.
18 Cod. Theod. XVI 10,22.
19 Cod. Iust. I 11,10 (anno 529 o 531).
20 Cod. Iust. I 5,12 (anno 527).
21 Agath., Hist. II 30.
22 Io. Eph. apud Ps.-Dionysium Telmarensem, Chron. a.s. 853 (A.D. 541-542).
23 Malal., Chron. XVIII 136.
24 Malal., Chron. IX 33.
25 Novell. Iust. 37,6 (1° agosto 535).
26 Io. Eph., h.e. III 27-29. Si veda anche Evagr., h.e. V 18.
27 Novell. Iust. 146 (8 febbraio 553).
28 Cyr. S., v. Sab. 70-71.
29 Io. Eph. apud Ps.-Dionysium Telmarensem, Chron. a.s. 852 (A.D. 540-541).
30 Malal., Chron. XVII 21.
31 Procop., Arc. XI 23.
32 Cod. Iust. I 5,18 (A.D. 527-529).
33 Io. Eph. apud Ps.-Dionysium Telmarensem, Chron. a.s. 861 (A.D. 549-550).
34 Si veda la sua lettera agli Illiri (CPG 6882), in Drei dogmatische Schriften Justinians, hrsg. von E. Schwartz, München 1939, p. 47 l. 26 e p. 48 l. 5.
35 CPG 6880, ACO III, pp. 189-214.
36 ACO IV 1, pp. 248-249.
37 Cod. Iust. I 5,12 (anno 527).
38 Vict. Tonn., Chron. 118 (anno 534).
39 Cod. Iust. I 27,1 (anno 534).
40 Malal., Chron. XVIII 84.
41 ACO IV 2, p. 103 ll. 40-42.
42 Ivi, p. 102 l. 1, p. 103 l. 39.
43 Cod. Iust. I 1,5 (anno 527).
44 Cod. Iust. I 1,6 (15 marzo 533).
45 Cod. Iust. I 1,1.
46 Cod. Iust. I 1,7 (26 marzo 533).
47 Cod. Iust. I 1,8 (25 marzo 534).
48 Essa è pronunciata durante la terza sessione del concilio di Costantinopoli (21 maggio 536). Cfr. ACO III, p. 181 ll. 25-26.
49 Novell. Iust. 109, praef. (7 maggio 541).
50 Io. Eph., v. sanctorum 47.
51 CPG 6881, raccolta dei frammenti in E. Schwartz, Zur Kirchenpolitik Justinians, cit., pp. 321-328.
52 Il documento non ci è pervenuto. Le citazioni figurano in ACO IV 1, pp. 11-12 e nel primo constitutum, in Collectio Avellana 83 ed. O. Günther, pp. 316-317.
53 Vict. Tonn., Chron. 141-142 (anno 550).
54 ACO IV 1, pp. 198-199.
55 CPG 6885, Drei dogmatische Schriften Justinians, cit., pp. 72-111.
56 In E. Schwartz, Vigiliusbriefe, München 1940, pp. 1-10.
57 Ivi, pp. 10-15.
58 Primo constitutum, in Collectio Avellana, cit., pp. 230-320.
59 ACO IV 1, p. 202 ll. 10-11.
60 Il testo, di cui manca la prima parte, è stato pubblicato da Schwartz, ACO IV 2, pp. 138-168.
61 Procop., Goth. I 35,1.
62 E. Schwartz, Über die Reichskonzilien von Theodosius bis Justinian, in Zeistchrift der Savigny-Stiftung für Rechstgeschichte, kanonistische Abteilung, 11 (1921), p. 152 e Id., Zur Kirchenpolitik Justinians, cit., p. 293.
63 M. Meier, «Ein dogmatischer Streit», cit., p. 136.
64 Evagr., h.e. IV 39-40; Vita Eutychii ed. C. Laga, Turnhout 1992, pp. 32-34.
65 Procopio riferisce non senza riserve la dichiarazione degli ambasciatori, due preti della Liguria, inviati da Vitige alla corte sassanide per incitare Cosroe a rompere la pace con i Romani (539), cfr. Pers. II 2,6. « Essendo Giustiniano, per natura un innovatore avido di tutto quello che non gli appartiene, egli è incapace di conformarsi a quello che è stato stabilito, egli ha concepito il desiderio di dominare la terra intera».
66 Novell. Iust. 6, praef. (16 marzo 535).
67 Lettera agli Illiri, cit., p. 47 ll. 22-23.
68 Novell. Iust. 131,2 (18 marzo 545).
69 Novell. Iust. 6,109 (7 maggio 541) e 123 (1° maggio 5469).
70 Novell. Iust. 6,3 ed epilogo; Novell. Iust. 123,22.
71 Novell. Iust., 3 e 23.
72 Ath., h. Ar. 33.
73 Novell. Iust.123,22.
74 § 90: «luctus ingens ubique fuit et moeror nimis de tali orthodoxo viro».
75 G. Dagron, Empereur et prêtre, cit., p. 161.
76 E. Stein, Histoire du Bas-Empire, II, De la disparition de l’Empire d’Occident à la mort de Justinien (476-565), éd. J.R. Palanque, Amsterdam 1968, p. 279.
77 G. Dagron, Empereur et prêtre, cit., passim.
78 Malal., Chron. XVIII 6,14.