giusnaturalismo
Der. della locuz. lat. ius naturale «diritto naturale». Corrente filosofico-giuridica fondata sul presupposto dell’esistenza di un diritto naturale, sulla cui struttura dovranno essere modellati i diversi diritti positivi. In partic., il termine si riferisce alla corrente di pensiero avviata da Althusius e Grozio all’inizio del Seicento, sviluppata da Hobbes, Pufendorf e Thomasius, e assimilata dal contrattualismo di Locke e di Rousseau e dal razionalismo kantiano. Con questo specifico significato storico il termine viene spesso utilizzato. Per g. si intende, quindi, non già una singola concezione del diritto, quanto piuttosto una molteplicità di dottrine, spesso in contrasto tra loro. Tali diverse dottrine hanno tuttavia in comune la duplice tesi secondo cui: (1) accanto al diritto ‘positivo’, cioè posto, creato dagli uomini, esiste altresì un diritto non positivo, implicito nella ‘natura’ (in un qualche senso di questa parola: natura come creazione divina, natura come cosmo, natura razionale specificamente umana); (2) il diritto naturale è un diritto ‘giusto’, assiologicamente superiore a quello positivo, di modo che il diritto positivo merita obbedienza se, e soltanto se, è conforme al diritto naturale. La concezione giusnaturalistica presuppone che vi siano norme, le quali non dipendono dalla volontà, ma semplicemente dalla conoscenza: nel senso che le norme del diritto naturale possono essere ricavate dalla conoscenza della natura, sono quindi frutto di conoscenza, non di volontà. Di conseguenza, l’esistenza delle norme è indipendente da atti normativi umani, ossia da atti di volontà. Tale concezione presuppone il rifiuto della ‘legge di Hume’, in virtù della quale non si possono inferire conclusioni normative da premesse conoscitive, non si può cioè ricavare il dover essere dall’essere. Al g. si oppone il positivismo giuridico (➔) o giuspositivismo, cioè la concezione secondo la quale non esiste un diritto che non sia ‘positivo’, prodotto dagli uomini; parlando di diritto, quindi, si fa riferimento soltanto a norme create dagli uomini (➔ diritto, filosofia del).
L’idea di un diritto originario comune all’umanità intera, rispetto al quale i differenti diritti positivi rappresentano una derivazione (e in certi casi una deviazione), risale all’antichità greca e romana, e si riscontra durante il Medioevo fino alla tarda scolastica. Nel mondo antico, simbolo della rivendicazione dell’esistenza e della superiorità di un diritto naturale rispetto alle norme poste dagli uomini è Antigone, che nella tragedia di Sofocle si oppone alla decisione del re di Tebe e dà sepoltura al fratello in nome di una legge di giustizia non scritta, ma più alta. In un ambito più specificamente filosofico, i sofisti distinguono tra giusto per convenzione e giusto per natura, ma intendono quest’ultimo in modi diversi: per Callicle è la legge del più forte; per Ippia, Antifonte e Alcidamante è ciò che è conforme alla natura razionale degli uomini, di cui proclamano la naturale eguaglianza. Aristotele distingue tra diritto naturale e diritto legale (o positivo): il primo è quello che è in vigore dappertutto (ha validità universale, indipendentemente dai luoghi) e non dipende dalle nostre opinioni (è sottratto al giudizio degli uomini); il secondo è quello che riguarda azioni originariamente indifferenti, ma che, una volta poste, diventano obbligatorie (Etica nicomachea, 1134 b). Quindi il primo indica azioni buone o cattive in sé, e dunque vincolanti; il secondo riguarda le azioni libere (per es., sacrificare a Zeus una capra o due pecore), la cui regolamentazione è affidata al diritto positivo prodotto dai governanti. Il concetto di diritto naturale è però sviluppato soprattutto dagli stoici, per i quali la natura è retta da un’immanente legge razionale (Logos). La loro dottrina fu divulgata da Cicerone in pagine che esercitarono un’influenza enorme. Nel De re publica Cicerone riconosce l’esistenza di una legge vera perché conforme alla ragione, immutabile, universale ed eterna, che l’uomo non può violare se non calpestando la propria natura di essere razionale. Questo passo, ripreso e diffuso da Lattanzio, influenzò profondamente il pensiero cristiano di cultura latina. L’idea di un diritto naturale dettato dalla ragione suscitò però non pochi problemi di ordine teologico (per es., in Agostino) per la difficoltà a far coesistere una legge naturale e una legge rivelata, e perché, ammettendo nell’uomo la presenza di una legge morale autonoma, si poneva un limite alla necessità della grazia per la salvezza. È con Tommaso d’Aquino che si giunge a una sistemazione definitiva (Summa theologiae, Prima Secundae, q. 90 e segg.). Tommaso distingue tra quattro forme di leggi: aeterna, naturalis, humana e divina. La legge eterna coincide con la ragione di Dio che governa il mondo; la legge naturale è «partecipatio legis aeternae in rationali creatura», è cioè la scintilla di razionalità presente nella mente dell’uomo, il modo in cui l’ordine cosmico si manifesta in quel particolare aspetto che è la razionalità della creatura umana. La legge naturale può essere compendiata in un solo precetto generalissimo da cui discendono tutti gli altri («bene faciendum, male vitandum»). Tutti i particolari precetti che l’uomo deriva da questo (o per conclusionem, cioè per deduzione logica, o per determinationem, cioè per applicazione agli specifici casi concreti) costituiscono la legge umana («lex humanitus posita»). Un posto a parte ha, infine, la legge divina, cioè rivelata attraverso le Sacre scritture. Tutta la sfera della condotta umana è dunque posta sotto la direzione della legge naturale: se la legge posta dall’uomo discorda da essa «non erit lex, sed legis corruptio» (q. 95). La corrispondenza del diritto positivo al diritto naturale è dunque condizione della sua validità. Il g. di Tommaso divenne la base del g. cattolico, ed è tuttora al centro della dottrina giuridico-politica cattolica. Il razionalismo del g. cattolico fu fortemente contrastato dalle correnti volontaristiche, e in partic. da Guglielmo di Occam per il quale il diritto naturale è certamente dettato dalla ragione, ma questa è soltanto lo strumento di una notifica con la quale la volontà divina si afferma sull’uomo, e in qualsiasi momento Dio può modificare a suo arbitrio ciò che è giusto; tesi questa poi sviluppata dalla Riforma protestante. Tra volontarismo e razionalismo tentarono una mediazione i teologi giuristi spagnoli della seconda scolastica, tra i quali Fr. Suárez.
Nel Seicento l’idea di un diritto naturale si secolarizza, acquistando un significato antiecclesiastico e antiteologico. Traendo forza dalla critica rinascimentale dell’autorità, il g. moderno intende infatti fondare il diritto su basi razionali e immanentistiche, indipendentemente da qualsiasi verità teologica e rivelata. Storicamente l’esigenza di universalità dei giusnaturalisti fu generata, per contrasto, dalle guerre di religione del Cinque e Seicento, che spingevano a cercare nuove basi per la convivenza dei popoli, venuto meno l’universalismo cattolico. Rispetto alla dottrina medievale, inoltre, il g. moderno pone l’accento sull’aspetto soggettivo del diritto naturale, ossia sui diritti innati degli individui. Caposcuola del g. moderno è considerato l’olandese Grozio che definisce la sua dottrina in polemica contro le ali estreme del calvinismo di impronta rigidamente volontarista (in Olanda, il partito dei gomaristi). Nella sua opera De iure belli ac pacis (1625) Grozio, affrontando il tema del diritto internazionale, cerca il fondamento di un ordine che possa essere riconosciuto come valido da tutti i popoli e permetterne così la coesistenza pacifica, e lo individua nel diritto naturale. Questo consiste nei dettami della retta ragione, la quale ci fa riconoscere se una determinata azione, a seconda che sia o no conforme alla natura razionale, ha in sé la qualità di necessità morale, e quindi deve essere perseguita, o se invece deve essere evitata (I, X, 1). Il diritto naturale, che discende dalla natura razionale e sociale dell’uomo, per la sua validità è indipendente non solo dalla volontà di Dio, ma anche dalla sua esistenza (sarebbe valido «etiam si daremus Deum non esse», Prolegomeni, 11). Questa affermazione (che in realtà riecheggia formule della tarda scolastica) divenne celeberrima e in età illuministica apparve come un annuncio della nuova cultura laica.
Tratto caratteristico del g. secentesco è il metodo razionalistico; al di là delle differenze dottrinali, tutti i pensatori condividono l’esigenza di trasformare politica e diritto in una scienza dimostrativa: a tal fine occorre emanciparsi dall’autorità di Aristotele e seguire invece il metodo della scienza. Bisogna dunque prendere a esempio la geometria (cioè partire da assiomi o verità autoevidenti riguardanti l’uomo e le sue necessità fondamentali, e procedere secondo un’ordinata catena di deduzioni), oppure acquisire il metodo analitico-sintetico della fisica. Già Grozio aveva distinto una «via a posteriori», basata sull’esame empirico e sul confronto, e una «via a priori» (De iure belli ac pacis, I, XII, 1), e aveva invitato a seguire l’esempio dei matematici (Prolegomeni, 58); ma è soprattutto Hobbes che nella prefazione al De cive (1642) propone di studiare lo Stato come un orologio, cioè come un meccanismo da smontare nei suoi componenti (gli individui con i loro istinti, in primis quello alla vita) e da ricomporre in una nuova unità (lo Stato ideale). E nel Leviatano (1651) definisce le leggi naturali come «conclusioni o teoremi» tratti dalla ragione in merito a quello che si deve fare o evitare. Questo programma ha un preciso risvolto polemico, messo bene in luce da Pufendorf, il grande sistematizzatore e divulgatore delle tematiche giusnaturaliste in opere (De iure naturae et gentium, 1672, e De officio hominis et civis, 1673) che ebbero vastissima diffusione: si tratta di rifiutare l’argomento del consensus gentium: Cicerone aveva infatti sostenuto che «In ogni cosa il consenso di tutti i popoli è da considerarsi legge di natura» (Tusculanae disputationes, I, 13-14). Ma il metodo della collazione e del confronto tra le leggi, le abitudini e le credenze dei vari popoli, oltre a essere impraticabile per la casistica infinita da esaminare, porta a relativizzare e non a definire valori assoluti, che possano costituire il fondamento di un’ordinata coesistenza tra uomini e tra popoli. La storia appare, infatti, ai giusnaturalisti non già maestra di vita, bensì teatro della follia degli uomini; nello stesso tempo viene rifiutato il principio d’autorità: non Aristotele, né Cicerone, né la Chiesa, bensì solo la ragione umana può indicare il percorso da segui- re. Di conseguenza, anche il modello di Stato che viene elaborato è puramente razionale. Oltre ad alcuni giuristi filosofi (quali Grozio, Pufendorf, Thomasius, Wolff, Barbeyrac e Burlamaqui), sono giusnaturalisti alcuni tra i massimi pensatori dell’età moderna: Hobbes, Spinoza, Locke, Rousseau (che però sottopone il g. a una serrata critica), Kant. Costoro condividono un modello teorico fondato su tre elementi: lo stato di natura (la condizione prepolitica in cui vivono gli individui, liberi ed eguali, soggetti al solo diritto naturale); il patto, o contratto, come strumento per far sorgere lo Stato (➔ contrattualismo); e lo stato civile o politico, nel quale le leggi civili sostituiscono le leggi naturali, modellandosi su di esse, e vengono fondate le istituzioni giuridico-politiche. Tale modello è fondamentalmente dicotomico: l’uomo vive prima nello stato di natura, poi nella società civile. Particolare è il caso di Rousseau, che propone un modello non dicotomico ma triadico, delineando un diverso percorso, che dallo stato di natura (stato di felicità e innocenza, da cui l’uomo è uscito con l’istituzione della proprietà privata e stipulando un patto iniquo) porta alla società civile (stato di decadenza), iniqua perché basata su un patto di sopraffazione, e infine alla repubblica (stato di rinascita), cioè alla società di eguali che nascerà dal patto equo (il contratto sociale). Il modello giusnaturalistico classico propone una concezione atomistica e individualistica dello Stato, in quanto il punto di partenza è dato dagli individui nello stato di natura, considerati come entità autonome, ciascuno portatore di un pacchetto di diritti e di doveri che – al momento del patto – saranno ceduti in proporzioni più o meno grandi e che lo Stato sarà tenuto a rispettare. Proprio perché il punto di partenza è dato da individui liberi e uguali, che decidono volontariamente di mettere un limite all’illimitata libertà naturale per vivere pacificamente e in condizioni di maggiore sicurezza, il fondamento di legittimazione dello Stato non può che essere il consenso, espresso attraverso il patto, di coloro che saranno poi chiamati a obbedire alle leggi civili. Lo stato di natura come stato di libertà e di uguaglianza, e tuttavia già regolato dalle leggi di ragione, è dunque la necessaria premessa dell’ipotesi contrattualistica che fonda lo Stato sul consenso: senza la legge naturale (e in partic. quella che impone pacta sunt servanda) sarebbe impossibile un adempimento dei patti e quindi la costituzione della società civile.
Ogni giusnaturalista, tuttavia, declina in modo differente il modello, a seconda della propria concezione antropologica (che emerge dalla descrizione dello stato di natura) e politica: Hobbes teorizza uno Stato assoluto, Locke e Kant uno Stato liberale, Rousseau uno Stato democratico. Per Hobbes il diritto di natura è esplicazione di libertà egoistica (la vita è il sommo bene, per il raggiungimento del quale tutto è concesso), e di conseguenza affermazione di potenza di ciascuno contro tutti, per cui è sinonimo di ius in omnia e porta inevitabilmente al conflitto; lo stato di natura non è dunque altro che uno stato di guerra universale e perpetua («bellum omnium contra omnes»). La pace potrà sorgere solo mettendo fine a tale stato grazie a un pactum subiectionis, in virtù del quale gli individui – sulla base di un calcolo utilitaristico – convengono tra loro con patto irrevocabile di trasferire tutti i loro diritti naturali (escluso il diritto alla vita) senza condizioni alla persona del sovrano, la cui volontà è fonte esclusiva e misura del diritto. In tal modo il diritto naturale scompare per diventare lex civilis, la quale ha per fine la conservazione dell’ordine interno e la difesa esterna, cioè la si- curezza dello Stato personificato nel sovrano. Una volta creato lo Stato, sarà compito del sovrano, detentore di un potere unico e unitario, interpretare a suo arbitrio la legge di natura, e al suddito spetterà un’obbedienza assoluta, anche per quanto riguarda lo ius circa sacra (Hobbes propone una Chiesa di Stato). Pufendorf nega che lo stato di natura sia uno stato di guerra (l’uomo nello stato di natura può ascoltare non solo la voce delle passioni, ma anche la ragione che gli suggerisce di non limitarsi a un punto di vista egoistico e autoreferenziale), ne fa però uno stato di miseria e di insicurezza. L’uomo naturale è dominato da due sentimenti contraddittori: l’amor di sé (istinto di conservazione) e la consapevolezza della propria fragilità (imbecillitas); l’insufficienza delle proprie forze lo spinge a cercare gli altri e a diventare socievole (non nasce sociale, ma associabile), per condurre una vita comoda è infatti necessario ricorrere all’aiuto degli altri per procurarsi quello che ciascuno da solo non ha la capacità e il tempo di produrre. Anche per Spinoza (Tractatus theologico-politicus, 1670, cap. 5° e Tractatus politicus, post. 1677, cap. 2°) il diritto naturale è «ipsa naturae potentia» concessa a ogni essere ai fini della sua conservazione, e gli uomini, essendo soggetti alle passioni, «sono tra loro naturalmente nemici». L’esperienza dei mali induce gli esseri dotati di ragione a crearsi un ordine civile, nel quale le esigenze dell’individualità e della socialità si esplicano sotto l’egida dello Stato nei limiti imposti dalla salus publica; fine dello Stato è però permettere a tutti la libertà di pensare con la propria testa, e quindi garantire la massima tolleranza. Per Locke, che affronta questi temi nei giovanili Saggi sulla legge naturale (scritti tra il 1660 e il 1664) e nel Secondo trattato sul governo civile (1690), il diritto naturale si identifica con il diritto inalienabile dell’uomo alla vita, libertà e proprietà. Tale diritto è superiore alla legge civile, che a esso dovrà ispirarsi; se questo non avvenisse, infatti, il potere dei governanti risulterebbe illimitato e irresponsabile. Lo stato naturale è, almeno inizialmente (cioè fino a quando la proprietà è ristretta nei limiti del consumo individuale) uno stato di pacifica socialità e di mutua benevolenza, nel quale gli uomini si riconoscono liberi e uguali, e ognuno in relazione ai propri bisogni si costituisce una proprietà mediante il lavoro e l’occupazione della terra comune. Gli uomini, però, agiscono anche in base ad altri impulsi, passionali e irrazionali; si aprono così conflitti, che nello stato di natura non possono essere risolti a causa della mancanza di un tribunale al di sopra delle parti. Inoltre, con l’introduzione della moneta, vengono a cadere i limiti della proprietà basati sull’uso personale e sorgono forti differenze sociali. A garanzia dei propri diritti naturali gli uomini convengono quindi di creare lo Stato e a esso affidano il potere coattivo e punitivo che ciascuno esercitava per sé stesso nello stato di natura. Se, dunque, gli individui entrano nella società civile per ottenere una più efficace tutela dei propri diritti naturali, il rispetto di tali diritti costituirà un preciso limite giuridico all’esercizio del potere sovrano, e la loro violazione un legittimo motivo di resistenza. Rousseau, nel Discorso sull’origine della disuguaglianza (1754), sottopone i concetti di diritto di natura e stato di natura a un durissimo attacco: lo stato di natura descritto dai giusnaturalisti è soltanto una proiezione della realtà contemporanea in un passato remotissimo: essi credevano di descrivere l’uomo naturale, e descrivevano invece l’uomo che avevano sotto gli occhi, trasformato e corrotto; in partic. lo stato di guerra descritto da Hobbes come stato dei primitivi rapporti tra gli uomini traccia un quadro sicuramente veritiero di tali relazioni, ma come si manifestano nella moderna società civile basata sulla proprietà privata e sulla divisione del lavoro, che hanno prodotto dipendenza reciproca e sopraffazione dei più forti sui più deboli. Se invece spogliamo l’uomo da tutte le sovrastrutture prodotte dalla storia e dalla vita in società, possiamo ipotizzare un originario stato di innocenza e di semplicità, in cui l’uomo, privo di ragione e di linguaggio, viveva una vita solo sensibile in totale isolamento, guidato dall’amor di sé (positivo istinto di sopravvivenza) e dalla pietà naturale. Il diritto inteso in rapporto a un uomo individualisti- camente determinato ha storicamente generato rapporti fondati sulla forza e sull’arbitrio, in primo luogo la proprietà privata fonte di disuguaglianza. Il diritto ‘giusto’ deve invece essere il prodotto di un atto collettivo, quel contratto sociale con il quale ciascuno cede al corpo comune tutti i propri diritti naturali e individuali, rinunciando a vivere secondo le leggi della propria natura empirica. I diritti naturali individuali si trasformano così, per la mediazione dello Stato, in diritti del cittadino, e come tali acquistano valore universale e morale. Kant (Metafisica dei costumi, 1797, Dottrina del diritto) fa coincidere il diritto naturale con il diritto dei privati: il diritto naturale, infatti, regola i rapporti tra gli individui già prima dell’istituzione dello Stato, e in esso un posto particolare ha l’istituto della proprietà; regola anche quella forma primitiva e naturale di società che è la famiglia, e altre associazioni private. Tali diritti naturali, però, nello stato di natura sono soltanto provvisori, in quanto non garantiti da una forza in grado di intervenire in caso di violazione. Anche lo stato di natura è quindi uno stato provvisorio, instabile e incerto, in cui l’uomo non può continuare a vivere. È dunque necessario (anzi per Kant è un vero e proprio dovere morale, scevro da connotazioni utilitaristiche), trasformare tali diritti da provvisori in perentori (aggiungere cioè l’elemento della coazione), e quindi uscire dallo stato di natura ed entrare in una società civile che possa garantire il mio e il tuo esterni. Compito dello Stato sarà dunque quello di permettere la libera realizzazione degli obiettivi che ciascuno si pone nel corso della propria vita, facendo in modo che la libertà dell’uno non ostacoli la libera realizzazione dei piani dell’altro. Di conseguenza, fine dello Stato sarà la produzione di un diritto positivo, unica condizione che permetta la coesistenza degli arbitri. Una volta istituito lo Stato, il legislatore sarà chiamato a operare come se il suo potere provenisse da un contratto originario: il patto è infatti solo un’idea regolativa, e non un fatto storico a cui far riferimento per giudicare la legittimità del potere sovrano. Al cittadino non viene concesso un diritto di resistenza, perché la resistenza a una legge, sia pure ingiusta, avrebbe luogo secondo una massima che, universalizzata, distruggerebbe la possibilità stessa di una costituzione civile (la quale deve avere a proprio fondamento la sovranità). Al cittadino rimane però un’altra via per dissentire: esercitare la libertà di penna e mobilitare l’opinione pubblica (dovere di obbedienza assoluta nelle azioni, diritto della massima libertà nei pensieri). Kant, come tutti i giusnaturalisti, vede nelle relazioni internazionali un esempio concreto di stato di natura e, nel saggio Per una pace perpetua (1795), applica lo schema giusnaturalistico al problema della pace. Propone infatti un trattato o convenzione tra gli Stati per regolare i rapporti internazionali mediante regole condivise e mettere fine a tutte le guerre. Condizione essenziale, però, è che tali Stati siano a regime repubblicano, che per Kant è l’opposto non del regime monarchico, bensì di quello dispotico; in tali Stati deve cioè trovare piena applicazione il principio della separazione fra potere esecutivo e potere legislativo. Alla fine del Settecento, l’idea centrale del g. moderno – l’esistenza di diritti individuali innati che qualsiasi Stato è tenuto a rispettare – trovò la propria consacrazione nella Dichiarazione d’indipendenza (1776) e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) che inaugurarono rispettivamente le rivoluzioni americana e francese. Tuttavia, il momento della massima diffusione delle idee giusnaturalistiche, non solo tra i protagonisti del dibattito filosofico ma presso larghi strati dell’opinione pubblica occidentale, segnò anche l’inizio del loro tramonto. Sul piano filosofico, il g. verrà infatti combattuto da tutti quei sistemi che negheranno la credenza in un ordine razionale universale, dato una volta per sempre (dall’empirismo di Hume all’utilitarismo di Bentham), nonché dallo storicismo di Hegel, fino a Marx. Sul piano giuridico, il g. verrà eclissato dalle grandi codificazioni dell’età napoleonica; il g. moderno si trasforma in giuspositivismo nel momento in cui ha raggiunto il suo obiettivo: la codificazione delle leggi di natura e dunque il pieno riconoscimento dei diritti innati dell’individuo. Funzione storica del g. è stata quindi quella di affermare i limiti del potere dello Stato: dall’esigenza di uno Stato limitato dalla legge naturale sono sorti il costituzionalismo moderno e lo Stato di diritto, in opposizione alla teoria del diritto divino dei re e all’assolutismo monarchico. Conclusasi la grande stagione giusnaturalistica, il secolo successivo, l’Ottocento, rappresentò il secolo d’oro del positivismo giuridico, con la piena affermazione della sua tesi centrale, e cioè il riconoscimento di positività, imperatività (o normatività), statualità, sistematicità, coerenza e completezza come caratteristiche essenziali del diritto. Il trionfo, dunque, del principio di effettività (cioè l’idea che un ordinamento è giuridico se è efficace) su quello di giustizia (una legge è tale per il suo contenuto di giustizia) sostenuto dai giusnaturalisti.
Il g. è riapparso nel sec. 20°. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, il dibattito fra filosofi del diritto si svolse sotto il segno della ‘rinascita del diritto naturale’, come reazione allo statalismo dei regimi totalitari. Giuridicamente, i regimi fascisti erano stati considerati come la necessaria conseguenza del positivismo giuridico, interpretato come quella concezione del diritto secondo cui non vi è altro diritto che il diritto positivo, inteso come l’insieme delle norme poste e rese efficaci dal potere politico effettivamente dominante in un determinato territorio. Dietro l’apparente neutralità di questa teoria si scorgeva l’ideologia secondo cui ogni norma posta dallo Stato, per il solo fatto di essere posta, è anche giusta, e quindi deve essere obbedita in quanto tale, cioè indipendentemente dal suo contenuto. Le conseguenze di tale ideologia erano state la negazione di ogni diritto di resistenza alla legge ingiusta e quindi l’acquiescenza a ogni forma di potere (in partic. al fascismo e al nazismo); se ne deduceva di conseguenza che il diritto di resistenza alla legge ingiusta poteva essere fondato soltanto sul riconoscimento di una legge superiore al diritto positivo e da questo indipendente, cioè il diritto naturale. Ispirato in parte al principio di un diritto naturale vigente fra gli uomini indipendentemente da ogni statuizione fu il Tribunale militare internazionale di Norimberga (1945-46) contro i criminali di guerra; nelle nuove costituzioni (Francia, Italia, Germania, ecc.) furono riaffermati solennemente i diritti inviolabili della persona umana di origine giusnaturalistica; il 10 dic. 1948 l’Organizzazione delle Nazioni Unite emanò la prima Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo, che estendeva a tutta l’umanità le dichiarazioni nate alla fine del Settecento dalle teorie del diritto naturale. Il primo autorevole interprete di questo rivolgimento fu G. Radbruch (in Gesetzliches Unrecht und übergeseztliches Recht, 1946; e Vorschule der Rechtsphilosophie, 1948; trad. it. Propedeutica alla filosofia del diritto), il quale sostenne che il positivismo giuridico era colpevole di aver ridotto il diritto alla forza e che in casi estremi d’ingiustizia, come alcune leggi naziste, la legge ingiusta non deve essere considerata giuridica né dal cittadino né dal giudice. In questo ambito di riflessioni, H. Rommen, esponente del g. cattolico tradizionale, pubblicò nel 1947 la seconda ed. di Die ewige Wiederkehr des Naturrecht (trad. it. L’eterno ritorno del diritto naturale) e nel 1951 H. Welzel pubblicò una storia del diritto naturale, in cui lo ius naturae viene considerato, in polemica contro il positivismo giuridico e il formalismo da esso derivato, come un’etica materiale della giustizia (Naturrecht und materiale Gerechtigkeit; trad it. Diritto naturale e giustizia materiale). Al di là di positivismo e giusnaturalismo si veniva configurando anche la posizione di Hart in The concept of law (1961; trad. it. Il concetto del diritto), dove, pur riaffermando l’autonomia del diritto rispetto alla morale, l’autore lascia spazio a un «contenuto minimo del diritto naturale», fondato su alcuni caratteri irriducibili dell’uomo come essere biologico e come essere sociale. La seconda ripresa novecentesca del g. si è avuta con la «nuova dottrina del diritto naturale» di J. Finnis (Natural law and natural rights, 1980; trad. it. Legge naturale e diritti naturali). Finnis riprende un’esigenza che era già stata avanzata, anche se in una diversa prospettiva, da L. Strauss (Natural right and history, 1953; trad. it. Diritto naturale e storia). Strauss aveva polemizzato contro tutte le teorie relativistiche e storicistiche, che, sostenendo che non esistono valori assoluti ma solo storici, avrebbero aperto la strada al nichilismo e all’oscurantismo, e sarebbero state causa dell’avvento degli Stati totalitari; il g. si pone quindi come difesa dell’individuo contro l’ordine imposto dal potere politico. Per Finnis, al di là di un ritorno al g. in reazione al formalismo del positivismo giuridico, la dottrina del diritto naturale va considerata in positivo come risposta alla profonda necessità dell’uomo di reagire allo scetticismo e al relativismo etico. La problematica della legge naturale è dunque in buona misura ineliminabile, e la si ritrova continuamente sotto altri nomi e altre vesti.