VERMIGLIO, Giuseppe
– Figlio di Pietro (Archivio di Stato di Roma, ASR, Tribunale del governatore, Costituti, 1606, reg. 563, c. 25v; Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 33, nota 128; Archivio di Stato di Milano, Notarile, Drisaldi Daniele q. Gio. Stefano, b. 26320, 23 novembre 1621; Terzaghi, 2000, p. 52, nota 17), nacque molto probabilmente intorno al 1587, come sembra attestare uno Status animarum che, nel 1631, lo registra d’età di quarantaquattro anni (Milano, Archivio storico diocesano, Anagrafe, S. Pietro in Campo Lodigiano, vol. 57, Status animarum, 1631, cc. n.n. [9c]; Giussani, 1987). Non si hanno notizie della madre.
La prima biografia nota è il succinto profilo dedicatogli da Luigi Lanzi (1796), che lo include tra i pittori della «Scuola piemontese», rilevando tuttavia che nel Daniele nella fossa dei leoni della Galleria Sabauda egli si firmava «Mediolanensis». Anche le precedenti fonti, ovvero Carlo Torre (1674, 1714, p. 51), Pellegrino Orlandi (1719, p. 204), Francesco Bartoli (1776, p. 82), lo ricordano come «torinese». Più tardi Noemi Gabrielli (1940) e Alessandro Baudi di Vesme (1968) hanno pensato a una nascita ad Alessandria, o a Novara (Giussani, 1987; Frangi, 1994, p. 161, nota 4), all’epoca parte del Ducato di Milano.
Il riscontro con i documenti processuali romani che lo attestano invariabilmente milanese, e soprattutto il fatto che subito dopo la parentesi capitolina l’artista si stabilì nel capoluogo lombardo, prendendovi moglie, hanno però più recentemente suggerito di dare credito alla documentazione antica circa l’origine dell’artista da Milano (Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 17; Ead., in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 39).
La produzione pittorica di Vermiglio è stata riscoperta grazie a una serie di indagini che, a partire dalle importanti aperture di Mina Gregori (1989, p. 140, nota 16), hanno inserito l’artista nella cerchia dei primi e più originali seguaci e copisti di Caravaggio, consacrandolo quindi come personale interprete del naturalismo nella Lombardia di Federico Borromeo (Bora, 1981; Frangi, 1994; Pulini, 1996; Morandotti, in Percorsi caravaggeschi..., 1999; Giuseppe Vermiglio..., 2000; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000). Ciononostante, le notizie circa la sua formazione artistica restano esigue. Dal primo documento che riguarda Vermiglio, il 20 febbraio 1604 egli risulta acquartierato a Roma nella bottega del pittore Adriano Monteleone perugino, «suo padrone» (ASR, Tribunale del governatore, Visite dei notai, reg. 35, 20 febbraio 1604; Bertolotti, 1884, pp. 167-169). All’epoca l’artista aveva circa diciassette anni ed è molto difficile stabilire da quanto tempo si trovasse nell’Urbe. Le coordinate stilistiche entro cui si svolse la prima attività pittorica sono però chiare: da una parte la fascinazione per lo stile tardomanierista del più celebre e prolifico pittore della città, il Cavalier d’Arpino (Giuseppe Cesari), dall’altra quella per l’avanguardia rappresentata da Caravaggio e dal suo innovativo naturalismo. In entrambi i casi fu la bottega di Monteleone a far da cassa di risonanza per il giovanissimo Vermiglio, non a caso ubicata nelle vicinanze dell’atelier del Cavalier d’Arpino (Terzaghi, 2012, pp. 196 s.). Tradisce la conoscenza di Cesari da parte di Vermiglio l’Adorazione dei pastori su rame (Frangi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, pp. 104 s.), di cui esiste anche una versione su tela di formato minore (ibid., p. 104), entrambe eseguite intorno al 1622 circa, quando ormai Vermiglio aveva fatto ritorno in Lombardia. D’altra parte, sappiamo che Monteleone dipingeva «quadri di Sibille», una specializzazione comune a molte botteghe frequentate da Caravaggio, e soprattutto che esercitava la professione di mercante d’arte, in contatto con numerosi artisti gravitanti nell’orbita delle conoscenze e delle amicizie di Merisi (Bertolotti, 1884, pp. 167 s.; Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, pp. 30 s.; Calenne, 2010, pp. 113-118). Il legame con il genio lombardo caratterizzò la pittura di Vermiglio lungo tutto il corso degli anni romani, ma anche, seppure in modi diversi, il suo rientro in Lombardia.
Prima ancora che i dipinti, sono i documenti a restituire testimonianza di una vita sregolata non molto lontana da quella condotta a Roma da Caravaggio: risse, rappresaglie, porto d’armi abusivo. Nella notte del 22 giugno 1605 Vermiglio venne arrestato perché portava la spada senza permesso (ASR, Tribunale del governatore, Relazione dei birri, reg. 106, 22 settembre 1604 - 14 luglio 1606, c. 128v; Bertolotti, 1884, p. 168; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 131). L’anno dopo, il 20 aprile 1606, insieme a un gruppo di amici, tra cui il pittore Filippo Rodi e Orazio, ricamatore del cardinale Scipione Borghese, fu nuovamente processato per una rissa ai danni del personale di cucina del cardinale Giovanni Dolfin proprio nei pressi di palazzo Borghese, da dove, per sua stessa ammissione, egli proveniva in quell’occasione (ASR, Tribunale del governatore, Relazione dei birri, reg. 103, 20 aprile 1606, c. 315v; Costituti, reg. 563, cc. 24v-28r; Bassani - Bellini, 1994, pp. 234 s.; Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, pp. 32 s.). All’epoca l’artista risultava residente nella contrada degli Otto Cantoni, e nella stessa abitazione fu l’anno dopo insieme al pittore romano Giovan Paolo Martegani (Alla ricerca di “Ghiongrat”, 2011), e ancora nel 1609, questa volta da solo (Roma, Archivio storico del Vicariato, ASVR, S. Lorenzo in Lucina, Status animarum, 1609, c. 56r; Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 34, nota 132). Nel 1611 Vermiglio, nuovamente insieme a Martegani, fece a pugni con il collega e affittuario Silvio Olivieri (ASR, Tribunale del governatore, Miscellanea artisti, b. 2, f. 107, c. 9v [9b]; Bertolotti, 1884, p. 168, che legge il cognome di Giovan Paolo come «Martignani»; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 131), un nome cui al momento non è possibile agganciare alcuna opera, ma membro dell’Accademia di S. Luca (Archivio dell’Accademia di S. Luca, Libro del camerlengo, 1593-1628, vol. 42, c. 24; Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 35, nota 135; ASR, Trenta notai capitolini, uff. 11, 1605, pt. 2, vol. 65, c. 369v; The history of Accademia di S. Luca, CASVA, Washington, https://www. nga.gov/accademia, 16 aprile 2020) e residente in S. Lorenzo in Lucina (Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 35, nota 135; Alla ricerca di “Ghiongrat”, 2011, p. 501, n. 2032). All’epoca del processo, Vermiglio sembra avesse acquistato una certa fama poiché di lì a poco eseguì la sua prima opera pubblica, l’Incredulità di s. Tommaso per la chiesa di S. Tommaso ai Cenci, firmata e datata 1612. Nota fin dalle prime ricognizioni caravaggesche di Roberto Longhi (1920-1921, 1995, pp. 178, 180, fig. 65), la tela è stata a lungo considerata l’unica testimonianza figurativa del Vermiglio romano, perfettamente a giorno delle novità caravaggesche nel gesto imperioso con cui Gesù guida alla ferita del suo costato la mano dell’incredulo Tommaso, ma anche, nelle teste, in particolare di s. Pietro, non ignaro della pittura capitolina di Annibale Carracci (Morandotti, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, pp. 80-83) e a mio avviso soprattutto di Guido Reni. Dall’iscrizione vergata sul dipinto apprendiamo che il committente era il parroco Onorato Rebaudi, originario di Pigna, un piccolo borgo della Liguria occidentale dove sono emerse tele dello stesso Vermiglio, che misteriosamente rimase in contatto con questo ambiente anche una volta lasciata Roma (Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, pp. 46 e 47 nota 212; Ead., in Giuseppe Vermiglio..., 2000, pp. 21, 23 s.). Nell’ottobre del 1624, infatti, il pittore Pellegrino Rebaudi di Pigna vide suo malgrado sostituire una tela voluta da un suo avo per il santuario di Passoscio con un’altra (oggi perduta) eseguita da Vermiglio (Ciliento, 1995), che lo stesso anno firmò la pala d’altare della chiesa di S. Antonio a Dolceacqua, a dire il vero un po’ stanca e convenzionale (ibid., p. 113). Pigna torna nuovamente nelle carte vermigliesche in quanto terra di origine di Giovan Battista Grillo, un garzone ventenne nel 1633, quando risultava abitare a Milano insieme a Giuseppe e alla consorte, e a un altro garzone di quattordici anni, Carlo Visconti (Milano, Archivio storico diocesano, Visite pastorali, S. Eufemia [Parrocchia di S. Pietro in Campo Lodigiano], cc. n.n.; Besta, 1933, p. 459; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 133), e che fu procuratore del maestro l’anno successivo (Asti, Archivio storico, Insinuazione, notaio Ascanio De Magistris, vol. 139, c. 505rv [9 agosto 1634]; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 133).
Il già rilevato nesso con la maniera di Caravaggio è ancora più evidente nelle numerose derivazioni e interpretazioni di originali di Merisi, che si scalano non senza qualche incertezza tra gli anni trascorsi a Roma, dove Vermiglio è attestato fino al 1619, quando ancora abitava nella parrocchia di S. Lorenzo in Lucina insieme a un non meglio noto «Hierolamo pitore» (ASVR, S. Lorenzo in Lucina, Status animarum, 1619, c. 30r; Longhi, 1943, p. 30; Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 25, nota 59), e il principio del rientro al Nord, avvenuto certamente entro la primavera del 1621 quando il pittore a Milano sposò Violante Zerbi, giovane figlia del notaio Castorio (Terzaghi, 2000).
La vasta modulazione di Vermiglio sul repertorio caravaggesco è testimoniata innanzitutto dalla serie del Sacrificio di Isacco, prototipo redatto da Caravaggio per Maffeo Barberini e certamente noto a Vermiglio, che lo ripropose in formato e stile diversi lungo tutto l’arco della carriera (per una disamina delle varie redazioni note, al momento otto, si veda Terzaghi, in Museo d’arte antica..., 1999, pp. 300-303; Ead., 2010, pp. 751, 762 nota 18). A essa si aggancia anche l’unica testimonianza di una produzione grafica a noi nota: uno studio per la Testa di Abramo accompagnato da un’iscrizione sul verso del foglio: «Del Cavalier Vermiglio maestro di Daniele Crespi» (Morandotti, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 253, tav. 65; Romano, ibid., 1999, p. 10). Altro dipinto palesemente desunto da Caravaggio è l’Incoronazione di spine di palazzo Altieri a Roma (Frangi, 1994, pp. 162 s., fig. 1), omaggio al capolavoro di Merisi oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, ma anticamente nella collezione del marchese Vincenzo Giustiniani. Per questo mecenate di origine genovese Vermiglio licenziò comunque, questa volta in totale autonomia, una Moltiplicazione dei pani e dei pesci poi pervenuta al Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino, distrutta alla fine della seconda guerra mondiale e oggi nota tramite una fotografia (Pulini, 1996). La stessa cosa possiamo dire della Negazione di Pietro, di cui conosciamo due versioni autografe di Vermiglio (Romano, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 11; Terzaghi, 2000, pp. 47 s.; L. Damiani Cabrini, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, pp. 86 s.), mentre l’originale di Merisi, redatto a Napoli (oggi New York, Metropolitan Museum of Art), transitò nel 1613 a Roma per le mani dei pittori Luca Ciamberlano e Guido Reni (M. Nicolaci - R. Gandolfi, Il Caravaggio di Guido Reni: la Negazione di Pietro tra relazioni artistiche e operazioni finanziarie, in Storia dell’arte, 2011, n. 130, pp. 41-64). Vermiglio conobbe bene anche il S. Giovanni Battista, eseguito da Merisi a Napoli e giunto a Roma nella collezione Borghese nel 1612, riproponendolo più volte quando si trovava ormai a Milano (Cavalieri, 1997; Pavesi, 2010; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, pp. 122 s.). In collezione Borghese egli dovette rimanere impressionato anche dal David con la testa di Golia, di cui si conoscono almeno cinque redazioni (tre in collezione privata, una di ubicazione ignota: Papi, 2000, pp. 32 s., fig. 23; e una quarta, forse redatta con la collaborazione della bottega, alla Pinacoteca Ambrosiana: Terzaghi, 2006, pp. 262-264). Egli vide e registrò certamente anche la Cattura di Cristo in collezione Mattei (oggi Dublino, National Gallery of Ireland), come documenta il bellissimo dipinto di analogo soggetto, noto solo attraverso una riproduzione fotografica (Papi, 2000, p. 33, fig. 24). Ma il vertice dell’immedesimazione con i temi caravaggeschi fu toccato da Vermiglio nella bellissima Giuditta decapita Oloferne, il cui formato e la cui raffigurazione costituiscono un vivace e personale omaggio al capolavoro eseguito da Caravaggio per il banchiere Ottavio Costa e oggi a Palazzo Barberini (Papi, 2015, pp. 117-127). La sorprendente facilità di accesso a un così alto numero di collezioni in cui erano custoditi i capolavori di Merisi non può essere riscontrata nel catalogo di nessun altro seguace di Caravaggio e impone una riflessione sul ruolo di primissimo piano che dovette ricoprire il pittore nell’ambito del mercato delle copie del maestro sviluppatosi dopo la sua morte. Non è un caso, infatti, che nella collezione Altemps fosse custodita una serie di Teste di uomini illustri di Vermiglio (Spezzaferro, 2002, p. 47; Terzaghi, 2010, pp. 754-756), un genere, assieme a quello delle Sibille, che egli doveva aver praticato nella bottega di Monteleone, e al quale si dedicavano volentieri proprio i copisti (Terzaghi, 2010, p. 754). Lungo il terzo decennio del Seicento Vermiglio consolidò la sua posizione di divulgatore del caravaggismo a Roma e raggiunse probabilmente un certo statuto professionale, come prova la partecipazione, documentata il 26 novembre 1617, all’Accademia di S. Luca (ASR, Trenta notai capitolini, uff. 15, 1617, pt. 4, vol. 74, c. 642v; The history of Accademia di S. Luca, CASVA, Washington, https://www. nga.gov/accademia, 16 aprile 2020). Meno di un mese dopo l’artista fu pagato per aver eseguito: «quattro Santi nella facciata della casa in piazza di Sciarra» per la confraternita dei Bergamaschi (Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 22), oggi perduti. L’attività per la confraternita patrocinata dai Borghese era stata già stabilita per via stilistica sulla base del riconoscimento di alcuni Santi ancora oggi nella sala capitolare (Frangi, comunicazione orale a Terzaghi, in Percorsi caravaggeschi..., 1999, p. 25). Non va trascurata nemmeno l’attività mercantile di Vermiglio, testimoniata al termine della sua parabola dai servigi offerti nel 1618 a Piero Guicciardini, ambasciatore del Granduca di Toscana, per il quale fece da intermediario nell’acquisto di due Paesaggi di Filippo Napoletano (Corti, 1989, p. 130).
Incerto è il motivo per cui Vermiglio lasciò Roma. Probabilmente la sensazione che il gusto e le mode stessero mutando, e il desiderio di una maturità più stabile, gli suggerirono di fare rientro in patria, sorte comune a molti altri seguaci di Caravaggio della sua generazione. L’attività settentrionale di Vermiglio si svolse su due binari paralleli: le commissioni eseguite per i nuovi ordini religiosi e le congregazioni riformate sviluppatesi l’indomani del Concilio di Trento, e la produzione da cavalletto per il collezionismo privato. Già poco dopo il suo arrivo a Milano l’artista fu attivo per i canonici lateranensi, per i quali licenziò il ciclo di sette tele raffiguranti Storie di s. Innocenzo conservate oggi nella sagrestia del duomo di Tortona. Databili dopo l’agosto del 1621, furono probabilmente destinate all’altare di Ambrogio Opizzone eretto quello stesso anno nella chiesa di S. Stefano (Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, pp. 100 s.). Contemporaneamente il pittore eseguì per la sede novarese della stessa congregazione l’Adorazione dei pastori e l’Ultima cena, rispettivamente conservate alla Pinacoteca di Brera e al Museo diocesano di Milano, ed entrambe firmate e datate 1622. Ma il lavoro più impegnativo per i canonici fu quello realizzato per la sede milanese di S. Maria della Passione. Vermiglio fu infatti scelto a collaborare alla renovatio della rappresentazione figurativa lateranense fortemente voluta dal dotto abate Celso Dugnani, a capo della congregazione fino al 1624, e immortalato non a caso dall’artista in un notevole ritratto (Frangi, 1994, p. 166). Le tele attribuite a Vermiglio nella sede milanese vanno incluse tra i suoi esiti più felici (valgano ad esempio le Esequie di s. Tommaso Becket del 1625, o il già ricordato Daniele nella fossa dei leoni che impressionò Lanzi) e si scalano intorno al 1625-26, quando l’artista firmò la Samaritana al pozzo (Torino, Galleria Sabauda) per S. Maria di Castello, la sede alessandrina dei canonici.
Altrettanto significativa fu l’attività per i certosini, di cui resta traccia alla certosa di Pavia a partire dal 1627, data che si legge sul S. Bruno in estasi (Morandotti, in Giuseppe Vermiglio..., 1999, p. 266). Come nel caso dei canonici lateranensi, Vermiglio venne scelto dall’Ordine, che lo impiegò ripetutamente, e spesso con il concorso della bottega, per la grande sede pavese (Battaglia, 1992, p. 193; Giacomelli Vedovello, 1992, pp. 193-196, 200) e per quella di S. Colombano al Lambro (Battaglia, 1992, p. 194), oltre che per S. Croce a Mantova (Frangi, 1994, p. 164; Terzaghi, in Giuseppe Vermiglio..., 2000, p. 32).
La produzione per gli ordini fu sempre intrecciata in questi anni con quella di un altro grande protagonista della pittura milanese, Daniele Crespi. Con lui Vermiglio condivide il registro comunicativo chiaro e quasi didascalico, la pittura smaltata, i riferimenti alla tradizione della pittura cinquecentesca settentrionale, in particolare Gaudenzio Ferrari, in una sorta di ritorno all’ordine, alla chiarezza e alla semplicità, frutto della politica culturale di Federico Borromeo, che non a caso nel 1621 aprì con questi intenti l’Accademia Ambrosiana. Alle medesime scelte stilistiche fa riferimento anche la produzione da cavalletto che Vermiglio portò avanti divulgando le tematiche caravaggesche, e normalizzandole secondo una maniera meno drammatica, più pacata ed evocativa, così da divenire tramite della creazione di nuove fortunate invenzioni iconografiche (si pensi ai bellissimi Giaele e Sisara e Giuditta e Oloferne della Pinacoteca Ambrosiana o al S. Sebastiano delle Raccolte civiche del Castello Sforzesco).
Fino al 1633 l’artista risiedette a Milano, a parte una parentesi nel 1630, quando fu in quarantena per la peste ad Abbiategrasso (Comincini, 1996). Dal 1634 si spostò ad Asti (Terzaghi, 2000, p. 46), e quindi alla corte sabauda di Torino nel 1635, data del pagamento da parte dei Savoia per un Figliol prodigo oggi perduto (Baudi di Vesme, 1968).
È questa la più recente registrazione dell’artista, verosimilmente scomparso poco dopo.
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