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Verdi, Giuseppe

di Massimo Mila - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Verdi, Giuseppe

Massimo Mila

Le affinità del carattere tra V. e D. sono tanto evidenti che non occorre spender parole per sottolinearle: la fierezza sdegnosa fa dell'uno e dell'altro un esempio di italiano insolito e, per così dire, scomodo, agli antipodi di un certo modello folcloristico di uomo mediterraneo, spensierato e maestro nell'arte di godere la vita. Che V. fosse un lettore appassionato della Commedia viene riferito da numerosi testimoni e biografi, ma non risulta direttamente. Nelle migliaia di lettere che V. ha lasciato è raro che appaia una di quelle citazioni dantesche, magari in tono scherzoso, tanto familiari all'italiano di media cultura.

Nel 1865, turbato per la malattia del padre, aveva declinato l'invito a scrivere un pezzo di musica per il centenario dantesco. " Sono stato costretto anche ricusare di fare un pezzo pel centenario di Dante. È la sola circostanza per cui avrei derogato dalle mie abitudini, ma mi sarebbe stato impossibile fare qualche cosa che potesse essere tollerato ".

Non meno inderogabile abitudine di V. era quella di rispondere picche ai postulanti che sollecitavano contributi per celebrazioni, monumenti, lapidi, pergamene e via dicendo. Nel 1891 rispondeva seccamente a un signor Bramanti che l'aveva importunato per il monumento a D. in Ravenna. " Rimediare all'inconveniente... Ella dice? Ma quale? Inconveniente perché io non ho mandato il mio obolo pel monumento a Dante? Dante si è innalzato da se stesso monumento tale, e di tale altezza, cui nissuno arriva. Non abbassiamolo con manifestazioni che lo mettono a livello di tant'altri, anche i più mediocri. A quel nome io non oso alzare inni: abbasso il capo, e venero in silenzio ".

Un discorso dantesco del sen. Gaetano Negri, nel 1896, strappa a V. la dichiarazione più esplicita del suo entusiasmo: " Ah sì: Dante è proprio il più grande di tutti ! Omero, i Tragici greci, Shakespeare, i Biblici, grandi, sublimi spesso, non sono né così universali, né così completi ".

Solo molto tardi la poesia di D. fornì alimento alla musa di V., quando questi pareva incline ad allontanarsi dall'accesa arena del melodramma per sollevarsi alle altezze della musica sacra. Perciò solo la seconda e la terza cantica hanno fermato l'attenzione del compositore; mai la terrestre poesia dell'Inferno, che parrebbe così congeniale all'indole del drammaturgo. Non v'è infatti la minima prova ad appoggio della voce che in tardissima età, dopo il Falstaff, V. avesse vagheggiato non solo di riprendere il soggetto del Re Lear, ma anche un'opera sul Conte Ugolino ! Il fatto che al bibliotecario dell'istituto musicale di Firenze egli abbia chiesto informazioni sulla cantata di tal soggetto composta nel 1582 da Vincenzo Galilei, non prova altro che una comprensibile curiosità culturale verso le origini di quello stile monodico da cui ebbe a svilupparsi l'opera in musica.

Ma nella produzione verdiana su testi danteschi si è insinuato un falso: nel 1879 V. aveva musicato un Pater noster e un Ave Maria " volgarizzati da Dante ", che vennero eseguiti alla Scala sotto la direzione di Franco Faccio il 18 aprile 1880. Ne dava notizia al pittore Morelli aggiungendo: " E sono versi (giù il cappello) di Dante!! ". Inoltre, fin dal 31 luglio 1879, al musicista tedesco Ferdinand Hiller aveva scritto: " Mi decisi poi a fare il Pater noster a cinque voci tradotto da D. stesso, e che trovasi appunto nelle sue Opere Minori da cui voi traeste il vostro De Profundis ". Dell'Ave Maria, per soprano e orchestra d'archi, si dice comunemente che è un precedente e quasi uno studio per quella che sarà l'Ave Maria di Desdemona nell'Otello. Invece il Pater noster è una composizione " a cappella " per coro a 5 voci senza accompagnamento. Ora i testi musicati da V. non sono sicuramente di D., ma il compositore li trovò attribuiti a D. in una delle edizioni antiche o anche ottocentesche delle Rime, che li contenevano. La musicologia non ha mai rilevato questo particolare. Per l'Ave Maria alcuni biografi di V., come C. Gatti e G. Roncaglia, avanzano dubbi sulla legittimità dell'attribuzione. Ma per il Pater noster nessuno mette in dubbio la paternità dantesca del testo (del quale V. omise le ultime tre terzine riferentisi alla Vergine). Il Gatti, anzi, affermò che esso " è tratto dal canto X del Purgatorio ". Ora del Padre nostro dei superbi nel canto XI (e non X) non v'è, nel testo musicato da V., che il primo verso: O Padre nostro, che ne' cieli stai; in seguito le terzine procedono per conto loro, con altre rime e altri concetti, parafrasando la preghiera tradizionale.

Il vero incontro tra V. e D. doveva avvenire più tardi, dopo l'Otello, e precisamente con le Laudi alla Vergine Maria, dall'ultimo canto del Paradiso, incluse nei Quattro Pezzi sacri (1898). Sono per voci femminili senz'accompagnamento: la santa orazione di s. Bernardo vi è intonata con pura trasparenza sonora, secondo quella casta sobrietà della polifonia classica che l'ultimo V. additò come una meta alla musica italiana, insegnando con l'esempio come davvero si potesse " progredire " ritornando all'antico.

Bibl. - Le lettere di V. a proposito del centenario dantesco, del monumento a Ravenna e del discorso del sen. Negri, in I Copialettere di G. V., pubblicati e illustrati da G. Cesari e A. Luzio, Milano 1913, 372 e nota. L'accenno al Conte Ugolino è riferito, tra l'altro, da C. Gatti, Verdi, Milano 1931, II 461-462. Ivi è pure citata (pp. 329-330) la lettera di V. al Morelli circa l'Ave Maria e il Pater noster. A p. 439 nota, le inesatte precisazioni sul preteso testo dantesco di queste composizioni. La lettera a F. Hiller in A. Luzio, Carteggio verdiano, II 339. Cfr. inoltre G. Roncaglia, L'ascensione creatrice di G. V., Firenze 1940. Ovviamente ogni biografia verdiana tocca dei rapporti tra V. e D. a proposito dei Quattro Pezzi sacri, del Pater noster e dell'Ave Maria.

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