BELMONTE, Giuseppe Ventimiglia e Cottone principe di
Nacque a Palermo nel 1766, primogenito di Vincenzo e di Anna Maria Cottone di Castelnuovo, la sorella del futuro capo dei "costituzionali". Ebbe un'educazione accurata presso il collegio Nazareno di Roma, ove gli fu maestro fra gli altri M. Monti, che doveva accettare più tardi per l'insistenza dell'allievo la cattedra di letteratura italiana nell'Accademia di Palermo. A diciotto anni lasciò Roma Per il grand tour: Italia Svizzera, Germania, Ungheria, Polonia; accompagnò Stanislao Poniatowski all'incontro con Caterina II, per seguire poi l'imperatrice fino a Kiev e a Kherson navigando lungo il Dnieper; dalla Crimea passò per la Moldavia e la Valacchia a Bucarest, traversò la Prussia e la Sassonia per concludere il tour in Francia e Inghilterra. A Parigi, lungo il viaggio di ritorno, conobbe Charlotte Ventimille, del ramo francese della sua famiglia, e la sposò prima di ritornare in patria, mentre in Francia la Rivoluzione veniva assumendo caratteri più drammatici. Dal tour egli doveva riportare perciò impressioni tenaci d'un mondo in crisi di trasformazione, e riceverne stimoli a studi di diritto, di economia e di politica che s'accompagnavano a men precisi e tradizionali interessi di antiquario e collezionista di larghi mezzi. Di bell'aspetto, orgoglioso con una punta d'arroganza, dotato d'un piglio autoritario, parlatore facondo e brillante uomo di società, egli fece ben presto di palazzo Belmonte, l'elegante dimora che nel 1784 V. Marvuglia aveva creato per il padre, un centro fastoso della vita culturale e mondana di Palermo.
Strettamente legato alla cerchia di intellettuali che lo zio Castelnuovo riuniva attorno a sé, il B. riprese o instaurò rapporti di familiarità culturale col p. Monti, coll'astronomo Giuseppe Piazzi, con Paolo Balsamo, con Ignazio Li Donni. A lui Balsamo doveva dedicare (1803) le sue Memorie economiche ed agrarie.
Il B. fu perciò assai vicino all'Accademia palermitana degli studi, sorta sulle rovine dell'insegnamento gesuitico, e in cui dominava uno spirito "liberale"; membro della Deputazione degli studi, si adoperò per la sopravvivenza dell'Accademia, quando Ferdinando IV la espulse (1805) dal Collegio Massimo restituito ai gesuiti, che le rifiutavano inoltre i fondi assegnati sulle rendite dell'ex Azienda gesuitica. Il B. ottenne che gli stipendi ai professori fossero pagati e che l'Accademia, trasferita presso i teatini, fosse elevata a università.
Le sue idee politiche, nettamente orientate verso una graduale assimilazione della tradizione politica siciliana di parte aristocratica alle forme e agli istituti costituzionali inglesi, costituirono, nella crisi apertasi nel 1806 tra la corte borbonica e gli Inglesi, un preciso punto di riferimento. Ancora nel marzo 1807 il ministro degli Esteri inglese lord Howick (il futuro lord Grey) indicava il B. come la persona più adatta ad avviare una intesa anglo-sicula, al fine di sconfiggere il "partito francese" capeggiato dalla regina Maria Carolina, e di costituire una "amministrazione siciliana". Il B. faceva allora (1806) parte, con i principi del Cassaro e di Trabia, d'una Giunta per la difesa della Sicilia con l'incarico di organizzare una forza siciliana di 30.000 uomini "per la conservazione della forma di governo esistente, della proprietà dei particolari, dei prívilegi dei diversi ordini"; ma non faceva mistero del suo favore per la tesi inglese, aspramente avversata a corte, d'un comando militare unificato. Il fallimento della spedizione napoletana del 1809, alla cui preparazione finanziaria il B. aveva concorso esortando il parlamento del 1808 a concessioni generose verso la monarchia, e poi lo scarso impegno politico-militare della corte nelle circostanze della tentata invasione di Murat, insieme col rinvio della prospettiva d'una amministrazione siciliana, spinsero il B. e la maggioranza dei baroni all'opposizione. In prima fila tra gli avversari di Luigi de' Medici e della sua politica, sarà il B. a presentare in parlamento, alla fine del gennaio 1810, il controprogetto che il Balsamo aveva preparato avverso la richiesta, formulata dal Medici e avanzata dal re nel discorso d'apertura, d'un donativo annuo straordinario di 360.000 onze: "e gli procurò in breve tempo tanti partigiani che persino gli aderenti della corte lo lodarono" (cfr. Balsamo).
Tratti salienti del piano Balsamo erano una sensibile riduzione del donativo e soprattutto un rivoluzionario sistema di ripartizione: una imposta fondiaria basata su un catasto (da prepararsi) e un'imposta indiretta aggiunta a un eventuale gettito insufficiente. Guidato dal B. e da Castelnuovo, il braccio baronale votò il progetto Balsamo che il braccio demaniale dominato dalla corte aveva però rigettato. La notte del 15 febbraio però il B., "accompagnato dal conte di S. Marco e da diversi baroni, andò nella camera degli ecclesiastici, e con efficacia e facondia aringò l'arcivescovo di Palermo e gli altri prelati", convincendoli (cfr. Balsamo). Non poté ottenere tuttavia che il donativo fosse votato per un solo anno allo scopo di imporre, come voleva soprattutto Castelnuovo, l'annuale convocazione del parlamento.
Il B. fu comunque al centro delle trattative fra i baroni e la corte che occuparono i mesi tra il marzo e l'agosto 1810, quando si riaprì il Parlamento: con l'appoggio di Luigi Filippo d'Orléans, il genero del re, egli poté chiedere alla regina l'allontanamento dei ministri napoletani (Medici soprattutto), un'amministrazione siciliana con Cassaro e lui stesso, l'esercito siciliano affidato all'Orléans. Alla prima mossa della corte, che poneva Medici fuori del ministero e chiamava Cassaro nel consiglio privato e due nullità siciliane al governo, il B. votò con i baroni, nell'agosto, donativi accresciuti.
Alla chiusura del Parlamento tuttavia, di fronte alla congiunta resistenza della regina e del duca d'Ascoli impegnati a dividere il fronte baronale, il B. sentì di essere stato giocato; si rivolse allora a lord Amherst, l'inviato inglese, sollecitandone l'appoggio efficace alle tesi politiche del baronaggio e accettandone la condizione di concessioni in senso apertamente costituzionale. L'incertezza di Amherst, che non si sentiva sufficientemente appoggiato a Londra, lo portò presto a rompere con la regina nel tentativo d'una pressione politica autonoma. Si trattava di ottenere dalla monarchia stabili garanzie per la libertà siciliana, di rendere l'influenza del baronaggio isolano determinante a corte e nel governo, di promuovere quelle riforme politiche ed economiche che sottraessero la parte più illuminata dei politici siciliani al fascino delle idee francesi. Balsamo, con Montesquieu in una mano e Blackstone nell'altra, divenne l'ispiratore intellettuale di questi dibattiti appassionati nella grande casa di via Toledo. Strumento di queste riforme restava sempre il Parlamento, che soprattutto nel suo braccio militare poteva presumere di essere un interlocutore adeguato della monarchia. Sicché quando, con gli editti finanziari del 14 febbr. 1811, il ministero scavalcò il Parlamento adducendo lo stato di necessità, il B. e Castelnuovo promossero la rimostranza dei 43 baroni contro l'arbitrio "anticostituzionale". Furono però arrestati la notte dal 19 al 20 luglio, insieme con tre baroni oppositori e chiusi nel castello di S. Giacomo a Favignana.
Motivo ufficiale dell'arresto fu la corrispondenza tenuta dal B. col principe reggente d'Inghilterra, cui fin dal maggio 1810 il barone siciliano aveva chiesto di "ascoltare la voce di un popolo, che vuol concorrere a sostenere la pugna europea e la dinastia che lo governa, ingannata da un pugno di emigrati sempre cospiranti contro il proprio re"; e dal quale nel dicembre aveva sollecitato un attivo intervento inglese nel senso auspicato dai baroni, ad evitare quel ricorso alla forza da parte aristocratica che "avrebbe potuto cagionare una sanguinosa rivoluzione e mettere in iscompiglio la nazione... quando facendo impegnare il gabinetto inglese si evitava l'ingerenza popolare sempre pericolosa" (Raddusa). Il B. stesso non avrebbe negato più tardi (al Bentinck, 30 giugno 1812) di aver voluto allora, dopo la sconfitta politica, spostare la lotta dalla Sicilia in Inghilterra attraverso giornali e pamphlets; ed avrebbe affermato che "i suoi sforzi erano stati coronati da successo". Tanto da fargli credere, "riscaldato per isperanze di protezione e di aiuti britannici, che gli si davano da diverse persone e specialmente da lord Valentia", di essere già "in possesso dell'habeas corpus, il gran palladio della civile libertà di tutti i sudditi inglesi" (Balsamo; il Raddusa, pp. 47 s., accenna addirittura alla richiesta avanzata da Andrew Douglas, segretario della legazione inglese, "che la partenza della corvetta avesse l'ammiraglio impedito e sulla nave di S. M. britannica i prigionieri avesse preso, finch'egli i suoi reclami avesse fatto valere chiamando l'armata da Messina. Mostrava Douglas le istruzioni del regente lasciate da lord Amersted [Amherst] alla legazione, in cui era ordinato che qualunque procedimento contro il principe di Belmonte fosse oppugnato, e dove le insinuazioni diplomatiche non fossero riuscite a persuadere, l'armata di mare e di terra del re si fosse adoprata").
Nonostante lo stato di salute assai precario, il B. doveva restar segregato nel castello di S. Giacomo fino al 20 genn. 1812 - quando egli e Castelnuovo e Aci e Angiò furono liberati per l'intervento di Bentinck. Anche in prigione il B. aveva mantenuto rapporti col duca d'Orléans, il quale, amico e consigliere del Bentinck, molto contribuì all'intesa tra i baroni ed il nuovo ministro inglese e a fare del B., vanesio ma intelligente, il portavoce più autorevole della politica siciliana. Fu soprattutto attraverso l'Orléans che il B. - "une âme de fer avec le coeur d'un Spartiate dans le milieu des esclaves", come egli stesso si definiva - poté ottenere dal Bentinck l'appoggio per una politica decisa che portasse al successo i baroni, e tra i baroni il suo "partito".
Il nuovo ministero e il consiglio privato furono costituiti da "costituzionali" e ne furono esclusi napoletani e baroni traditori; contro l'opinione di Bentinck e di Castelnuovo, Aci fu ammesso nel ministero. "Non amandosi... da una parte di disgustare e perdersi per il governo il principe di Belmonte, e dall'altra temendosi contro il voto universale di ammettere nel ministero il principe di Aci, trascorsero circa due mesi prima che si fossero creati i quattro nuovi segretari di stato; ed egli fu a' 28 di marzo, che dopo mille brighe e dicerie fu eletto Belmonte consigliere e ministro degli affari esteri, Cassaro ministro di grazia e giustizia, Castelnuovo delle finanze, e Aci della guerra e della marina" (Balsamo).
Per via della tensione esistente tra la corte e Bentinck, per la delicata situazione istituzionale definita dai rapporti peculiari che intercorrevano tra il vicario e i sovrani, per l'urgenza della riforma costituzionale che in una con la convocazione del parlamento poteva realizzarsi solo con l'appoggio inglese, non v'ha dubbio che fosse toccato al B. l'incarico più delicato e politicamente rilevante. Ma il suo atteggiamento rispettivamente verso la corte e verso Bentinck doveva chiarire il senso e il limite di una politica, che si svolgeva tutta al livello dell'intrigo cortigiano e della pressione politico-militare: il B. passava lunghe ore con Bentinck, insieme scrivevano le note diplomatiche del governo siciliano al ministro inglese e le risposte. Ma c'è di più: in caso di dissenso con Aci o Cassaro, il B. soleva ricorrere all'appoggio di Bentinck, che fulminava note diplomatiche indirizzate al principe o allo stesso B., intese a contrastare la politica dei due ministri. I rapporti del B. col vicario erano per contro tali da ridurre i ministri a segretari del principe: il B., nonostante le rinnovate proteste sue e di Bentinck, non poté mai ottenere di leggere i dispacci dei rappresentanti napoletani alle corti estere. Il B. e il vicario agivano così indipendentemente l'uno dall'altro e si incontravano per occasionali confronti di opinioni in consiglio.
Frattanto, sin dal febbraio, il B. aveva discusso con Balsamo e Castelnuovo il piano della nuova costituzione, "e d'accordo risolsero di occuparsene con praticare le minori possibili innovazioni nell'attuale forma di governo con adottare per guida nelle correzioni da farvisi la costituzione d'Inghilterra" (Balsamo). Dall'aprile Bentinck, cui il B. aveva sottoposto in due volte l'abbozzo, poté partecipare alla discussione, consigliare ed emendare; ma lo stesso vicario non fu mai tenuto al corrente del corso dei lavori, e fu contro l'espressa opinione dei B., "che si era messo in capo di tenere profondamente occulto il... progetto della nuova costituzione" (Balsamo), che il principe di Castelnuovo lo fece circolare fra i più autorevoli membri dei tre bracci alla vigilia dell'apertura del Parlamento.
La posizione del B. sulla costituzione è però in questo periodo tutt'altro che chiara: una costituzione habillée à l'anglaise certo, non una costituzione democratica ("uno del suo stato - egli stesso dirà al vicario - non poteva certo abbassarsi ad esser l'uguale dei proprio cameriere"); ma non una costituzione octroyée, sibbene una costituzione elaborata e discussa dal Parlamento. Questa tesi, oppugnata all'inizio da Castelnuovo e da Bentinck, prevalse infine quando lo stesso Bentirick risolse di farla propria, contando sulle assicurazioni del B. quanto alla propria influenza nel futuro Parlamento. Le ragioni della scelta del B. restano tuttavia oscure: solo il timore d'una operazione della corte intesa a diminuire la portata innovatrice della costituzione, specie nelle limitazioni da porre al potere regio, poteva giustificare l'appello al Parlamento come assemblea costituente. Eppure diversi elementi relativi a questi mesi e ai mesi successivi indicano che il B. possedeva una concezione in definitiva "cortigiana" della politica e temeva, non meno di Castelnuovo, i rischi d'un appello al "popolo": strumento di coazione sulla corte riluttante restava in definitiva Bentinck, non già il gabinetto intimamente diviso e nel quale le parti in conflitto solevano ormai costantemente ricorrere al Bentinck come a mediatore o arbitro.
Quando il 20 luglio 1812 il Parlamento iniziò i propri lavori, il B. assunse la funzione di moderatore nel braccio militare tra il gruppo conservatore capeggiato da Cassaro e i "costituzionalisti" di Castelnuovo. L'eloquenza, l'autorità del contegno ne accrebbero presto l'influenza: poté convincere i baroni a sostenere la richiesta del braccio demaniale per un parlamento annuale: e si indusse efficacemente a persuadere questi ultimi a non respingere l'emendamento Cassaro agli artt. 12 e 13 della Costituzione, che prevedeva un compenso per taluni dei pesi feudali aboliti, e contro il quale aveva votato egli stesso. Fu un suo trionfo di leader parlamentare, ma doveva restare il solo: la salute rovinata dai mesi di prigione si fece in questo periodo sempre più precaria, la contraddizione di cui non parve rendersi conto tra la sua condizione di ministro e l'impegno parlamentare esasperava la già grave tensione psicologica, mentre la scarsa capacità di applicazione e la sufficienza altera dei contegno dissolvevano ogni sua influenza sui "belmontisti" del braccio demaniale. Così il B. "s'indusse ad abbandonare un'assemblea nella quale più brillare e prevaler non poteva; e nel mandare tal risoluzione ad effetto abbandonò scioperatamente, tutte le carte della nuova costituzione al marchese di Raddusa, e ad altri; e d'indi in poi se ne diede poco pensiero, e solamente la sera nella sua compagnia se ne occupava, quando discuteva da cattedratico le diverse materie parlamentarie" (Balsamo). La più significativa delle sue operazioni politiche doveva restare l'appoggio incondizionato a Bentinck nell'imporre (12 sett. 1812) alla corte il nuovo trattato anglosiciliano: per esso il vicario s'impegnava a costituire una forza siciliana, che gli Inglesi avrebbero potuto impiegare anche fuori dell'isola, a dare maggiori poteri al capitano generale di questa forza, e a sostituire con Siciliani i Napoletani della guardia reale.
Nell'ottobre però si apriva, appunto intorno alla richiesta del braccio demaniale relativa alla soppressione del fide commesso, la grave frattura entro il partito costituzionale che vide Castelnuovo contro il Belmonte. Ad essa s'accompagnò il contrasto intorno ai consigli civici e alle nuove magistrature: il B. e i "belmontisti" si batterono, congiuntamente alla fazione conservatrice, per tenere in vita il fidecommesso, e dal contrasto furono portati ad accogliere le tesi dell'opposizione relative al mantenimento dello statu quo nella questione dei tribunali. La politica del B. contribuì così a liquidare quel che restava (ed era assai poco) di coesione entro il ministero: Cassaro era passato nel gennaio 1813 dalla parte della corte, Castelnuovo veniva accostandosi sempre più agli elementi "radicali" del braccio demaniale, il B. era rimasto il capo della fazione baronale-siciliana. Dopo la chiusura del parlamento (4 nov. 1812) e ancor più durante la crisi del febbraio-marzo 1813, egli venne però avvertendo la debolezza della propria base politica e si appoggiò pertanto sempre più pesantemente a Bentinck (il 15 marzo s'era rifiutato di firmare la replica del re all'ultimatum inglese) e si riavvicinò a Castelnuovo (per es. sulla questione della libertà di stampa). Insieme si dimisero nel marzo, insieme tornarono al governo; epperò nell'estate 1813, in Consiglio, il conflitto sui fidecommessi tra lui e Castelnuovo esplose più violento di prima - fors'anche per il sospetto, insinuatosi nel B., che lo zio ne volesse l'abolizione per diseredarlo. Invano Bentinck cercò di riconciliarli: e l'uno e l'altro apparivano rigidamente condizionati non solo dalle loro opinioni, ma più da quelle dei loro "amici". E Castelnuovo appoggiò, nelle elezioni per il nuovo Parlamento, i democratici; il B. invece fece causa comune con gli aristocratici non apertamente compromessi con la corte. Ma il Parlamento del '13, posto di fronte ad un ministero diviso e ad una assoluta mancanza di leadership, lontano Bentinck, si rivelò ingovernabile; e il controllo che i democratici venivano prendendo nella Camera bassa doveva spingere il B. a riconciliarsi nuovamente con lo zio, ma la sua influenza era ormai svanita ed egli non poté evitare le dimissioni del suo ministero (28 luglio 1813).
Quando nell'ottobre Bentinck tornò in Sicilia, il suo giudizio sulla politica del B. fu durissimo; e il nuovo ministero, di cui facevano parte due "belmontisti" e due "villermosisti", non incluse il B., che invano l'Orléans aveva cercato di persuadere della necessità di immettere elementi borghesi nel governo. Epperò, una volta ripartito Bentinck, nell'inverno, il contrasto tra le fazioni costituzionali e tra i loro capi si fece più vasto e profondo, decisamente insanabile. La violenta campagna anticronica trovò i "cronici" divisi e li colpì duramente. Nessun ravvicinamento stavolta, in vista dell'aspro attacco: l'incertezza, lo scoraggiamento, il dubbio sulla giustezza delle scelte fatte e da farsi invasero il B. come Castelnuovo, via via che all'impotenza del governo si aggiungeva la loro diffidenza verso soluzioni costituzionali più audaci. Lo zio si ritirò, il nipote s'impegnò ancora in una attività intermittente e incoerente.
La situazione internazionale era frattanto mutata: il B. apprese che l'Inghilterra difficilmente avrebbe tenuto la Sicilia. D'altra parte Bentinck sembrava accedere alla richiesta di Castelnuovo dello scioglimento del nuovo Parlamento, la cui Camera dei Comuni era in maggioranza "belmontista", e della formazione di un ministero in cui avessero il maggior numero di posti gli "amici" di Castelnuovo. Il B. tentò allora, dopo aver rifiutato un compromesso offertogli dal Bentinck, la operazione più audace e rischiosa: in Consiglio propose egli stesso (giugno 1814) il ritorno del re al potere. I suoi nemici "profittarono di quella sua svista per ispargere delle calunnie a carico suo, che potean solo essere credute da coloro che non conoscono l'altezza d'animo di quell'uomo... Quel che è certo si è che ei fu spinto a quello sbaglio dalla sua naturale vivacità, e che la sua calda imaginazione non gli dié luogo a misurarne le fatali conseguenze... Era egli inoltre persuaso che il re, disgustato del governo per le amare passate vicende, non avrebbe acconsentito a ripigliare il personale esercizio della sovranità" (Palmieri). Sperava il B., ora che sull'Inghilterra non era possibile contare, di impegnare in tal modo il re ad una linea di condotta "costituzionale"? Contava su un accordo con Cassaro per formare contro Castelnuovo ed i suoi un compatto fronte "siciliano"?
Il ritorno di Ferdinando al potere apparve invece subito - e lo fu - una resa a discrezione del partito costituzionale. Il B. e i suoi furono allontanati dal potere; e, per quanto minato irrimediabilmente dalla tisi, il B. volle compiere un estremo tentativo di salvare la costituzione: l'appello personale all'interferenza francese o inglese. Lasciò nell'agosto, seguendo l'amico Orléans, Palermo per Parigi. Dopo una breve sosta a Marsiglia passò nella capitale francese, ma vi giunse quando Castlereagh l'aveva già lasciata. Fu ricevuto da Luigi XVIII e ne ebbe personali complimenti e riconoscimenti lusinghieri, ma nessuna assicurazione politica per la Sicilia e la sua costituzione.
Morì a Parigi nell'ottobre 1814.
Legò all'università palermitana la sua collezione di quadri e stampe. La figlia sposò poi il principe di San Giuseppe, primogenito del principe di Pandolfina; i discendenti portarono perciò il titolo di Belmonte e Pandolfina.
Fonti e Bibl.: Le notizie biogr. essenziali in B. R(omano), Notizie intorno a Giuseppe Ventimiglia Principe di Belmonte, ms. della Biblioteca Comunale di Palermo (4Qq D 81, ff. 76-91). La fonte più importante sulla sua attività politica è il Journal di lord William Bentinck (ora tra i Portland mss. nella Università di Nottingham), del quale ha dato ampi estratti J. Rosselli, Lord William Bentinck and the British occupation of Sicily, 1811-14, Cambridge 1956. Interessanti riferimenti sono nel Mémoire de Marie Caroline (ediz. R. M. Johnston, Cambridge, Mass., 1912) e nei Pensées et souvenirs historiques di M. Palmieri di Micciché (Paris 1830).
Un confronto interessante emerge dalle Memorie segrete di P. Balsamo (Palermo 1848) e dal Saggio storico-politico sulla Sicilia dal cominciamento del sec. XIX sino al 1830 (Catania 1848) del "belmontista" F. Paternò Castello marchese di Raddusa. Per una valutazione della sua opera nella lotta per la costituzione, si rinvia ai lavori più recenti sulle vicende di quegli anni: da Il Risorgimento in Sicilia di R. Romeo (Bari 1950), al libro cit. del Rosselli, a La Sicilia nel 1812 di F. Renda (Caltanissetta 1963).