SELLA, Giuseppe Venanzio
SELLA, Giuseppe Venanzio. – Nacque alla Sella di Mosso (oggi in provincia di Biella) il 10 luglio 1823.
Sestogenito dei venti figli di Bartolomeo Maurizio e di Rosa Sella (tra loro cugini), dopo aver frequentato il ginnasio era stato iscritto al corso di filosofia del Collegio reale di Biella (che allora fungeva da liceo) e poi avviato, fin dai primi mesi del 1840, al tirocinio di fabbrica nel lanificio di famiglia. Si trattava di uno stabilimento, situato sulla riva sinistra del torrente Cervo, di cui il padre era divenuto nel 1838 unico titolare, dopo che tre anni prima aveva acquistato da Giovanni Agostino Crolle metà della proprietà del filatoio di seta e di un annesso lanificio appartenente in passato alla Congregazione del santuario di Oropa. In quella fabbrica, dove lavoravano già i suoi due fratelli maggiori, Francesco (nato nel 1819) e Gaudenzio (nato un anno dopo), aveva cominciato a occuparsi di alcune pratiche amministrative e commerciali che sbrigava a Torino, ospite in casa dello zio Giacomo Antonio Rey, presso il negozio di vendita che la ditta Rey teneva in città. Intanto, aveva iniziato a frequentare la scuola di commercio e un corso di chimica. Per questo motivo, il 21 dicembre 1841, aveva comunicato al padre (che ne sollecitava il ritorno a casa) di volerlo portare a compimento per non vanificare la sua permanenza a Torino. Cercava di cavarsela con i soldi che la famiglia gli centellinava, usati anche per acquistare, nel dicembre del 1842, un trattato di tintura, estratto dall’Enciclopedia francese Roret, che aveva trovato migliore di quello ancorché classico di Claude Louis Berthollet.
Dopo tre anni di soggiorno nella capitale subalpina era stato immesso in fabbrica dal padre. Ciò comportava, tutti i giorni, tranne la domenica, una levataccia al far dell’alba, per lavorare sino all’imbrunire. Aveva conservato comunque la passione per gli studi classici, nata sui banchi di scuola, e aveva continuato ad arricchire le sue cognizioni di chimica e meccanica: non solo in vista dei compiti a cui avrebbe dovuto attendere nell’opificio di famiglia, ma perché portato a coniugare l’analisi e la riflessione all’attività pratica. Altre nozioni che gli sarebbero poi servite a orientarsi nella vita pubblica le aveva apprese frequentando la biblioteca di un suo zio materno, Gregorio Sella, uno degli imprenditori tessili piemontesi più in vista, brillante scrittore di cose economiche e deputato al Parlamento subalpino dal 1849. Aveva così avuto modo di compulsare – oltre ai trattati di economia politica di Antonio Scialoja e di Francesco Ferrara e ai saggi di François-Pierre-Guillaume Guizot e di altri storici – le raccolte del Moniteur scientifique e soprattutto le opere dei grandi chimici del Settecento, di Lavoisier, Priestly, Cavendish, Scheele, nonché i manuali di Miller, Brand, Gay-Lussac, Schultzenberger.
Questo interesse per la chimica era scaturito dalla sua prima esperienza di apprendista del reparto di tintoria che lo aveva convinto di come occorresse affrancarsi dai vecchi metodi di colorazione dei tessuti: tanto più dopo che suo padre aveva dotato lo stabilimento di Biella di nuove macchine per la filatura in grosso e in fino e di una ruota idraulica per la produzione di energia motrice dal Cervo. Per tenere testa alla concorrenza delle fabbriche d’Oltralpe bisognava modificare da cima a fondo i procedimenti tintori e per questo era indispensabile conoscere le leggi della fisica e della chimica e condurre adeguate sperimentazioni. Si era perciò impegnato innanzitutto ad apprendere i principi fondamentali della chimica per registrarne poi le applicazioni più interessanti. Per far questo, oltre a perfezionarsi nel francese che già padroneggiava, iniziò ad acquisire la conoscenza dell’inglese e del tedesco. Studiava indefessamente nelle ore lasciategli libere dall’apprendistato in fabbrica, spinto non solo dal desiderio di rendersi utile al più presto alla propria famiglia, ma da una ferma volontà di autorealizzazione personale. Suo fratello Quintino (v. la voce in questo Dizionario), più giovane di quattro anni, che nel 1843 frequentava a Torino il primo anno dell’università, era ammirato dalla ferrea disciplina di Giuseppe Venanzio nell’ordinare le sue giornate, alzandosi il mattino alle cinque per dedicare qualche ora allo studio prima di andare al lavoro, riprenderlo poi la sera e dedicargli per intero i dì festivi.
A ventun anni, con il raggiungimento della maggiore età, erano cresciute anche le sue responsabilità in materia amministrativa, sebbene fosse Gaudenzio, il secondogenito della famiglia, a occuparsene in misura preminente come disposto dal loro padre. Tuttavia non aveva smesso di lavorare a un trattato sull’arte tintoria, frutto della sua esperienza. Pubblicato nell’aprile del 1851 con il titolo Polimetria chimica e presentato all’Accademia delle scienze di Torino, fu il più interessante contributo comparso in quel periodo in Italia per il perfezionamento della lavorazione tessile nella fase finale in cui si trattava di confezionare un prodotto che avesse un colore ben impresso e non sbiadisse. Il suo metodo per il miglioramento dei procedimenti tintori venne adottato anche da alcune fabbriche inglesi e belghe quando ancora non erano comparsi i coloranti sintetici.
Un mese dopo, il 22 maggio 1851, si unì in matrimonio con Clementina Mosca Riatel, più giovane di lui di dodici anni, educata nel collegio di S. Caterina a Biella, detto delle Dame inglesi. Venne così stabilendosi un importante rapporto di parentela: i genitori di Clementina appartenevano infatti a due importanti famiglie biellesi, i Rosazza e i Mosca Riatel, a capo dei principali settori economici locali, rispettivamente quello tessile e quello edile-immobiliare. Londra sarà non solo la meta del viaggio di nozze, ma la città scelta da Giuseppe Venanzio in quanto sede, in quei giorni, della prima Esposizione universale; al Crystal Palace prese nota di alcuni nuovi macchinari per filare e per tessere, senza mancare di rilevare come l’Italia fosse poco rappresentata. Da allora decise di dedicare parte della sua attività a una ricognizione sistematica delle principali novità in campo tecnico e organizzativo che era dato riscontrare all’estero.
Intanto, accanto all’interesse per la chimica, ne aveva maturato un altro in un campo affine, quello della fotografia, occupandosi di dagherrotipia. Ogni volta che capitava a Parigi aveva perciò preso a frequentare i laboratori dei fotografi più in vista e la sua biblioteca si andò arricchendo di manuali e opuscoli riguardanti teorie, sperimentazioni e riproduzioni fotografiche, oltre che dei fascicoli della rivista La Lumière. Dopo essersi cimentato personalmente con la ‘camera oscura’, nel giugno del 1856 decise di dare alle stampe a Torino, presso la casa editrice Paravia, un trattato di ben 415 pagine, il primo firmato da un italiano, con il titolo Plico del fotografo. Ovvero l’arte pratica e teorica di disegnare uomini e cose sopra vetro, carta metallo ecc., col mezzo dell’azione della luce. Dedicato al suo amico veneziano Federico Martens (addetto al gabinetto fotografico di Napoleone III e cavaliere della Legion d’onore), questo suo lavoro era un’opera complessa, in cui alle informazioni e alle riflessioni s’intrecciavano calcoli, esempi e una vasta documentazione.
In quello stesso periodo, in seguito alla partecipazione del Regno di Sardegna alla spedizione in Crimea, anche la ditta Maurizio Sella era stata chiamata a fornire panni e coperte militari all’amministrazione statale e Giuseppe Venanzio aveva gestito le relative commesse, i cui proventi, al netto dei costi, sarebbero poi stati investiti per lo più in buoni del Tesoro e il resto destinato all’ingrandimento del lanificio, nonché alla costruzione di un canale idraulico sotterraneo per accrescere la forza motrice tramite turbine ordinate alla ditta di Xavier Flurh di Mulhouse.
Dopo l’improvvisa scomparsa di Gaudenzio nel dicembre del 1860 (a soli quarant’anni), Giuseppe Venanzio si era trovato in pratica a dirigere da solo lo stabilimento della famiglia, senza tuttavia rinunciare alla sua passione per gli studi e continuando a percorrere mezza Europa sia per affari sia per apprendistato. Su di lui, quale commissario e giurato speciale del Comitato italiano per l’Esposizione di Londra del 1862, era caduta perciò la scelta del governo affinché affiancasse i più autorevoli rappresentanti dell’industria laniera europea. Senonché si dovette occupare ben presto non solo di come migliorare l’assetto dell’industria laniera nazionale, ma pure dei primi scioperi proclamati dai tessitori nelle proprie contrade e altrove. Nel Biellese, in particolare, erano andati sorgendo dal 1860 dei ‘circoli vinicoli’ che avevano dato modo agli operai di sperimentare le prime forme autonome di organizzazione, con uno Statuto e un’assemblea dei soci. Quintino aveva stigmatizzato la comparsa di questi sodalizi non solo come luoghi di riunione politica e sindacale ma in quanto da lui giudicati addirittura «disonorevoli» per l’operaio biellese. E ciò perché essi, conosciuti con l’appellativo scherzoso e popolare di ‘cappelle’, inducevano coloro che li frequentavano all’ubriachezza ed erano quindi una delle cause dell’assenteismo il lunedì, alla ripresa del lavoro in fabbrica. Sta di fatto che i rapporti tra fabbricanti e operai si erano andati inasprendo sia a causa dei nuovi regolamenti di fabbrica contestati dai lavoranti, in quanto ritenuti oppressivi, sia per l’introduzione di un maggior numero di telai meccanici che riduceva l’impiego del personale e il lavoro a domicilio. Le agitazioni avevano così finito per investire nell’aprile del 1864 anche la ditta Maurizio Sella, malgrado Giuseppe Venanzio avesse creduto, dopo l’accordo raggiunto quattro mesi prima con i suoi operai, di aver scongiurato qualsiasi loro ulteriore rimostranza. Anzi, proprio dal suo lanificio aveva preso avvio il primo sciopero generale degli operai tessili del Biellese, che ancora a luglio non era cessato pur procedendo a singhiozzo.
Peraltro, non era questa l’unica questione che allarmava Giuseppe Venanzio e suo fratello Quintino, di cui dal marzo del 1861 egli sosteneva la causa politica nella circoscrizione biellese. Alcuni notabili clericali fomentavano infatti l’opposizione contro Quintino, additato come l’autore (durante il suo mandato al dicastero delle Finanze) di tanti guai: dall’incameramento dei beni ecclesiastici, che bollavano come una ignominiosa usurpazione, all’aumento delle imposte, che stigmatizzavano come un fardello a danno soprattutto della povera gente; inoltre, egli era inviso ai ‘municipalisti’ per aver approvato nel settembre del 1864 il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Ciò nonostante, anche per le elezioni del novembre del 1865, Giuseppe Venanzio riuscì a trovare consensi e appoggi autorevoli alla riconferma di Quintino. Nei giorni successivi, dato che si accingeva a recarsi a Pest, per acquistare della lana, e poi a Vienna, per informarsi di alcuni macchinari, Quintino gli aveva raccomandato di dire in tutti i suoi incontri con banchieri e uomini di affari che il governo italiano continuava a osservare un atteggiamento conciliante nei riguardi dell’Austria in attesa che si decidesse al riconoscimento del Regno d’Italia e negoziasse la rinuncia a Mantova e alle fortezze del Quadrilatero dietro adeguati compensi economici. Naturalmente il presidente del Consiglio, Alfonso Lamarmora, era al corrente di questa sorta di missione esplorativa, che Giuseppe Venanzio compì riscuotendo peraltro udienza solo in Ungheria (dove erano forti le istanze autonomiste), ma non nella capitale asburgica, malgrado ritenesse che il governo di Vienna avrebbe abbandonato le questioni di principio per perseguire i propri interessi. A ogni modo, le impressioni da lui riportate e trasmesse a Lamarmora tramite Quintino erano risultate utili alla vigilia della guerra, combattuta in alleanza con la Prussia, che l’anno dopo si concluse con l’annessione del Veneto malgrado i rovesci subiti a Custoza e a Lissa.
Tornato alla sua consueta attività, Giuseppe Venanzio elesse l’istruzione tecnica a chiave di volta per un salto di qualità del sistema industriale: ragion per cui si era impegnato, innanzitutto presso i suoi colleghi, affinché si facessero carico di elevare l’istruzione professionale dei propri dipendenti. Il suo progetto per l’istituzione di una scuola professionale andò infine in porto con il regio decreto del 27 ottobre 1869. La scuola di Biella fu una delle prime del genere aperta in Italia e Quintino ne assunse volentieri la presidenza confidando nella collaborazione del fratello per la scelta delle materie e l’impostazione dei corsi. Non a caso alla direzione della scuola professionale, attivata nell’autunno del 1870, venne designato il professor Luigi Angelo Gabba, che univa all’attività didattica l’esperienza nell’applicazione della chimica alla produzione industriale. D’altronde egli voleva farne anche un laboratorio di sperimentazione per l’applicazione dei coloranti di anilina e derivati del carbon fossile, inizialmente ritenuti da alcuni fabbricanti poco solidi finché la scoperta dell’indulina (per tingere in blu solido) e dell’alzerina (per tingere in rosso) fecero rimpiazzare alle nuove materie coloranti, in taluni casi, anche la robbia e la garanza.
Contemporaneamente, stava a cuore a Giuseppe Venanzio (così come a Quintino) anche la creazione di un istituto di credito che recepisse al meglio le esigenze finanziarie delle aziende tessili locali. Fu questo lo scopo preminente della Banca biellese, che vide la luce nel settembre del 1869 (costituita con un capitale di un milione di lire e ospitata in una palazzina del centro cittadino concessa gratuitamente per tre anni dall’amministrazione civica), di cui egli assunse la presidenza.
Per entrambi fu questo un periodo di eccezionale fervore e gratificazione anche sul versante politico. Già dalla fine degli anni Quaranta, Giuseppe Venanzio aveva cominciato a guardare con molto interesse al mondo germanico che, a confronto di quello francese, gli sembrava assai più solido e denso di risultati sul piano tecnico-scientifico. La sua attenzione nei riguardi della Prussia era poi cresciuta quando Berlino aveva tenuto a battesimo un modello di politica economica, sorretto da un incipiente protezionismo doganale e da vari incentivi pubblici, alternativo a quello liberista britannico. Che era quanto auspicava Giuseppe Venanzio, convinto che altrimenti la nostra nascente industria non sarebbe riuscita a sopravvivere né, tanto meno, a consolidarsi. Inoltre, egli era un ammiratore del sistema educativo prussiano, caratterizzato da un forte patriottismo e senso civico, di cui aveva voluto spiegare le connotazioni in un saggio dato alle stampe quasi in concomitanza con l’esordio dell’Impero tedesco proclamato da Guglielmo I: Burschenschaft, ossia la vita degli studenti in Germania (Biella 1870).
Il 7 aprile 1873, in seguito a una delibera del ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, Stefano Castagnola, fu designato tra i commissari italiani all’Esposizione universale che si tenne in giugno a Vienna. In una sua Relazione espose le condizioni dell’industria laniera nei diversi Paesi, rilevando sia quanto si era realizzato fino ad allora sia quanto restava da fare. A quest’ultimo riguardo era ormai evidente che soprattutto sulla spinta della Germania, nell’Europa continentale stava prevalendo un orientamento in senso protezionistico per arginare la concorrenza, altrimenti ancora schiacciante, dei produttori inglesi. Giuseppe Venanzio mise comunque in luce, di concerto con Alessandro Rossi, i progressi realizzati in Italia nel settore della lana pettinata.
Se da un lato aveva perorato con successo a Biella l’istituzione di una scuola professionale, dall’altro aveva seguitato ad auspicare la creazione di un liceo civico: sia al fine di sviluppare la conoscenza della letteratura classica, sia per dare una formazione scientifica adeguata ai tempi e completare così un’adeguata educazione dei giovani.
Educato sia agli ideali risorgimentali e laici sia a un profondo rispetto delle istituzioni, Giuseppe Venanzio non aveva mai ostentato le prerogative del suo rango: com’era costume della sua famiglia aveva continuato ad agire in ottemperanza a regole di vita improntate a uno stile severo e misurato. Ciò a cui teneva erano la sua reputazione professionale e quella pubblica.
Proprio in ragione di queste sue qualità, oltre che per il cognome che portava, aveva cominciato a circolare l’ipotesi di una sua nomina a senatore. D’altronde era stato insignito di un’onorificenza riservata fino ad allora a poche personalità, come quella di ufficiale dell’Ordine mauriziano, per le benemerenze acquisite in importanti incarichi pubblici. Nel gennaio del 1876 si era nuovamente ventilata l’ipotesi di una sua nomina a senatore, fermamente da lui declinata per poter continuare al meglio la propria attività. E questo suo convincimento aveva comunicato al ministro di Agricoltura, Industria e Commercio Gaspare Finali, che intendeva appunto proporlo per la nomina a senatore. In pratica, finché si trattava di un posto in Consiglio comunale, Giuseppe Venanzio aveva accettato per contribuire alla buona amministrazione della sua città, ma non credeva di avere la stoffa dell’uomo politico: si sarebbe sentito a disagio in Parlamento alle prese con questioni lontane dalla sua esperienza pratica e di studio.
Pochi mesi dopo la sua rinuncia a un seggio in Senato, spirò il 31 maggio 1876 a soli cinquantatré anni, dopo un’esistenza interamente spesa non solo per lo sviluppo dell’impresa di famiglia e il sostegno all’opera di Quintino, ma anche a beneficio della propria comunità: fra le sue ultime volontà figurava la decisione di donare la propria biblioteca, consistente in oltre 12.000 volumi, a condizione che venissero messi a disposizione dei cittadini e in particolare dei giovani.
Fonti e Bibl.: V. Castronovo, L’industria laniera in Piemonte nel secolo XIX, Torino 1964, passim; Epistolario di Quintino Sella, a cura di G. Quazza - M. Quazza, I-IX, Roma 1980-2011; G. Quazza, L’utopia di Quintino Sella. La politica della scienza, Torino 1992, passim; V. Castronovo, G. V. S. imprenditore e uomo di studi, Bologna 2016.