SOLARI, Giuseppe (Giuseppe Gregorio Maria)
– Secondo di tre figli, nacque il 12 marzo 1737 a Chiavari, da Giovan Agostino e da Maria Rosa Bianca Guarneri. Per volere dei genitori, che volevano che avesse cittadinanza genovese, fu battezzato nel capoluogo ligure all’età di sei anni, nella chiesa di San Donato.
A onta del volere del padre, che intendeva indirizzarlo allo studio del diritto, mostrò subito precoce interesse per le lettere classiche. Seguendo l’esempio del fratello maggiore Raffaele, in seguito divenuto scolopio, studiò presso le Scuole pie ed ebbe forse modo di accostarsi all’insegnamento di retorica del padre Clemente Fasce.
Il 24 ottobre 1756 entrò nel noviziato di Paverano, divenendo sacerdote nel 1761. Nello stesso anno ricevette l’incarico di maestro elementare a Milano, dove insegnò aritmetica e, dal 1762, grammatica. A Finale, dove ebbe il trasferimento nel 1764, insegnò retorica per due anni, venendo poi trasferito nuovamente a Chiavari. Il quinquennio successivo lo vide lettore di filosofia a Oneglia nel 1768-69, ad Albenga nel 1769-71, a Chiavari nel 1771-72 e infine a Milano nel 1772-73.
A Roma, dove fu chiamato proprio nel 1773 dal padre generale Gaetano Ramo, svolse l’incarico di segretario generale dell’Ordine degli scolopi per due anni. Fu dunque trasferito, sempre per volere di padre Ramo, presso il collegio Tolomei di Siena, da poco passato dai gesuiti agli scolopi, dove nel 1775 insegnò filosofia, matematica e fisica. La sua fama di erudito sia nelle lettere sia nelle scienze raggiunse ben presto Leopoldo di Toscana, che non mancò di elogiarlo pubblicamente.
Nel 1780 morì suo fratello Raffaele, anch’egli sacerdote, che aveva insegnato materie letterarie e scientifiche in diversi collegi.
Fu nel quindicennio senese che Solari diede inizio alla sua attività di traduttore dalla letteratura latina e greca. Il contatto diretto con la lingua toscana si rivelò fondamentale per il rinvenimento delle espressioni e dei modi più acconci alla resa delle sue versioni. A Siena ebbe fra gli allievi i discendenti delle famiglie Ruspoli e Chigi i quali, al termine del loro percorso di studi, impetrarono al nuovo padre generale Stefano Quadri, già rettore del collegio Tolomei, che Solari fosse trasferito a Roma; cosa che accadde nel 1790. Prima di recarvisi, Solari fece un viaggio a Chiavari, dove, assieme al marchese Stefano Rivarola e ad altri nobili, patrocinò la nascita della locale Società economica, animata da propositi filantropici.
Trasferitosi a Roma il 27 marzo 1791, vi rimase sette anni in qualità di professore di filosofia nel collegio Calasanzio. La Società economica, nel frattempo fondata a Chiavari, lo annoverò fra i soci onorari corrispondenti. Per incarico di papa Pio VI divenne esaminatore del clero per il suo Ordine.
Alla proclamazione della Repubblica Romana nel 1798, se ne fece inaspettatamente sostenitore, anche in virtù della recente amicizia con Ennio Quirino Visconti, pur non abbandonando mai l’abito religioso. Partecipò in maniera attiva al governo «come Municipalista e Commissario per la requisizione degli argenti per le chiese di Roma» (P.P. Scolopi di S. Pantaleo, 1940, p. 14).
Mai espulso dall’Ordine nonostante l’appoggio alla Repubblica Romana, fu però incarcerato due volte, nel 1798 e nel 1799, all’ingresso dell’esercito napoletano a Roma. Processato e accompagnato fuori dei territori romani da alcuni soldati, si recò a Livorno. Lì fu tratto in carcere dalla milizia imperiale e, riuscito a fuggire, s’imbarcò per Porto Maurizio, donde raggiunse la natia Chiavari. Fu probabilmente durante i giorni della prigionia livornese che prese a volgere in italiano i salmi biblici, che, in mancanza di fogli, trascriveva su piccoli pezzi di carta.
A Chiavari, dove era nel 1800, residente nel locale collegio scolopico, pronunciò un discorso per l’apertura dell’anno scolastico. Nel 1802 divenne presidente provvisorio della Società economica, che aveva contribuito a far rinascere nel 1798. Nel 1803 ottenne la cattedra di lingua e letteratura greca e latina a Genova, città in cui si trasferì, abitando presso la casa scolopica di S. Andrea. Venne nel contempo insignito da Napoleone dell’Ordine della Légion d’honneur.
Nella prolusione accademica pronunciata il 27 novembre 1803, per il suo primo accademico presso l’Ateneo genovese, sottolineò la responsabilità morale implicita nella pratica dell’insegnamento. Nel discorso inaugurale dal titolo Amor del vero. Norma de’ buoni studi, letto all’apertura dell’Università di Genova il 12 novembre 1804, passò invece in rassegna le discipline attraverso cui si esprimerebbe la verità, assegnando preminenza a quelle matematiche, seguite dalle morali e teologiche e da tutte le altre. L’invio di detta orazione a Vincenzo Monti, che ricambiò con una copia delle sue lettere filologiche Del cavallo alato d’Arsinoe, segnò l’inizio di una breve corrispondenza epistolare fra i due.
Compose, inoltre, un’ode latina in versi alcaici per l’ingresso di Napoleone a Genova, poi stampata dall’editore Frugoni nel 1805. La poesia, che valse a Solari l’Ordine della Corona ferrea e in seguito la condecorazione del Toson d’oro, fu inviata ancora a Monti. Nel 1806 ideò il soggetto per un poema sacro dal titolo La fine del mondo ossia il trionfo e il Regno di Cristo, che tuttavia non portò a compimento. Nello stesso anno e per il successivo fu membro dell’Accademia imperiale delle scienze e belle arti, venendo inoltre eletto, grazie alle sue conoscenze scientifiche, segretario della Società medica d’emulazione.
Alla creazione dell’Università imperiale di Parigi, nel 1809, Solari fu escluso dall’insegnamento accademico. Incoraggiato quindi da amici e letterati (fra cui Giacomo de’ Mari, suo allievo ai tempi di Siena), curò la stampa delle traduzioni cui lavorava da un buon decennio. Nel 1810 uscirono così le Bucoliche e Georgiche di Publio Virgilio Marone recate in altrettanti versi italiani, in endecasillabi sciolti per i tipi genovesi di Giossi: si trattava di ‘traduzioni parallele’, condotte cioè rispettando l’esatto numero di versi dell’originale.
Nell’introduzione, Solari affermò di essere giunto a tale modalità di traduzione dopo alcuni esperimenti, il cui buon esito lo aveva spinto a tentare la resa in italiano di opere più vaste e impegnative. Nella versificazione si disse facilitato da alcune peculiarità proprie della lingua poetica italiana, usa a ricorrere a elisioni, troncamenti, ‘laconismi’, pronomi in posizione enclitica, che ben si adattavano alla sostanziale concisione della lingua latina. A parte ciò, nel suo lavoro si attenne a cinque principi di base, che elencò nel suddetto scritto introduttivo: eliminare gli epiteti superflui quando non connessi con l’argomento generale; scegliere fra i sensi possibili quello più efficace; cercare di riprodurre sempre l’‘aria originale’ del testo di partenza; cercare sempre una frase corrispondente toscana; valersi delle forme alterate dei nomi come soluzione per gli avverbi e gli epiteti presenti nel testo virgiliano.
Seguirono, nello stesso anno e sempre per Giossi, due tomi dell’Eneide in endecasillabi sciolti. Come le due precedenti, anche questa traduzione rispettava il numero di versi dell’originale, che veniva riportato a fronte. L’anno successivo uscirono le Poesie di Orazio Flacco recate in altrettanti versi italiani, in due tomi, presso i tipi genovesi di Bonaudo. Il metodo era lo stesso adottato per Virgilio, salvo nella scelta del metro, che ora variava di componimento in componimento. Ne spedì una copia a Visconti, che in una lettera da Parigi, dove era rifugiato politico, il 24 giugno 1810, si disse ammirato della fedeltà e dell’eleganza dello stile.
Sebbene rimanessero inediti numerosi altri volgarizzamenti dal latino (Persio, Giovenale, Lucrezio, Stazio) e dal greco (Omero, Callimaco, Pindaro), le versioni da Virgilio e Orazio furono più che bastanti per la diffusione della sua fama di traduttore, come testimoniano anche i riscontri ricevuti da letterati italiani che soggiornavano all’estero. Fra questi, oltre a Visconti, era Stefano Egidio Petroni, il quale scrisse da Parigi il 26 febbraio 1811 annunciando l’invio di copia della sua Napoleonide. Né tali riscontri rimasero circoscritti all’ambito letterario, come lascia supporre l’ammirazione mostratagli dallo scolopio Carlo Giuseppe Gismondi, docente di mineralogia presso l’Archiginnasio romano.
Già affetto da idropisia, vide nei due anni successivi l’aggravarsi del suo stato di salute.
Morì a Genova il 12 ottobre 1814.
La salma fu tumulata nella chiesa di S. Bartolomeo degli Armeni. Postume apparvero le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone recate in altrettanti versi italiani, in tre tomi e in endecasillabi, introdotte da un Elogio del traduttore a firma di Giovan Lorenzo Federico Gavotti. Fu quindi la volta di Alcuni salmi e cantici tradotti in vario metro, aperti da una dedica al vescovo di Albenga, monsignor Angelo Vincenzo Dania, che videro la luce per i tipi di Pomba (Torino 1816), cui Solari aveva affidato il manoscritto prima di morire. Una ristampa di tali versioni comparve presso l’editore Cassone alcuni anni più tardi (Torino 1831). La sua orazione L’amor del vero fu ripubblicata invece a distanza di anni dalla Tipografia dell’Ospizio apostolico (Roma 1854).
Fonti e Bibl.: I manoscritti, inizialmente conservati a Chiavari, sono stati in seguito trasferiti nel collegio scolopico di Cornigliano. Si vedano inoltre: B. Sanguineti, Elogio funebre..., Chiavari 1814; G. Spotorno, Della vita e delle opere del p. G. S., in Giornale ligustico di scienze, lettere ed arti, I (1827), gennaio, pp. 61-68; Dizionario biografico universale, a cura di F. Scifoni, V, Firenze 1840, p. 120; L. Grillo, Elogi di liguri illustri, III, Torino 1846, pp. 132-147; L. Picanyol, Gli scolopi nella Univesità di Genova, in Rassegna di storia e bibliografia scolopica, 1940, vol. 7, pp. 3-37; Id., Lettere al p. G. S., in Civiltà moderna, 1940, 2-3 (marzo-giugno), pp. 183-210; Id., La Biblioteca scolopica di S. Pantaleo di Roma, Roma 1952-1955, I, p. 195.