SILVATI, Giuseppe
– Nacque a Napoli, secondo di due figli, nel 1791 da Gennaro e da Anna Maria Luisetti, in una modesta famiglia della piccola borghesia cittadina.
Come parte importante della sua generazione, si arruolò giovanissimo nell’esercito napoletano, quando iniziò l’intensa storia del Decennio francese. Nel 1808, Gioacchino Murat sostituì Giuseppe Bonaparte (destinato a Madrid) sul trono di Napoli. Il re infuse entusiasmo e orgoglio all’esercito. L’ufficialità si sentì parte di un’epopea, i napoletani furono su tutti i campi di battaglia d’Europa, oltre che contro i nemici interni, i briganti insorgenti mobilitati dai Borbone e dai loro alleati. Silvati era nel 1° reggimento di cacciatori a cavallo. Nel 1810, come maresciallo d’alloggio, seguì il suo squadrone in Spagna, dove restò fino al 1812. Trasferito nella cavalleria della Guardia, nel 1814 partecipò alla campagna in Italia centro-settentrionale e, l’anno dopo, agli ultimi sfortunati tentativi di Murat contro gli austriaci, ma senza esito. Il re, sconfitto e oramai isolato, accettò di lasciare il Regno (anche se tentò una disperata spedizione pochi mesi dopo, conclusa con la sua drammatica fucilazione a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815).
Silvati restò nell’esercito, come quasi tutti gli ufficiali del Decennio, per effetto del trattato di Casalanza. Gli accordi consentirono una transizione più o meno serena verso la Restaurazione borbonica, lasciando ruolo e grado agli ex ufficiali di Murat. La profonda politicizzazione della società meridionale, determinata da oltre vent’anni di guerre, rivoluzioni ed esperimenti istituzionali, non si poteva assorbire con un trattato. La carboneria diventò la principale forma di organizzazione dell’opposizione politica meridionale. Nell’esercito, Silvati era tra i molti ufficiali che confusero idee e progetti politici con la nostalgia dell’esaltante esperienza nelle campagne dell’Impero. A questo si aggiunse l’insofferenza verso i privilegi concessi ai soldati di provenienza borbonica, rispetto a quelli di origine murattiana.
La giovane età, anche in un uomo riservato e religioso come Silvati, rese ancora più cupa e vuota di possibilità la Restaurazione di Ferdinando I in quello che aveva preso il nome di Regno delle Due Sicilie. Trasferito a Nola, nel reggimento Borbone cavalleria, un reparto di nuova formazione, ma trascurato dal suo comandante, fece amicizia con il tenente Michele Morelli e altri giovani ufficiali. Iniziò a partecipare alle riunioni settarie della carboneria e dei militari filocostituzionali. Conobbe i dirigenti della setta salernitana, la più attiva del Regno. Diventò un riferimento di fiducia del principale dirigente carbonaro del Nolano, l’abate Luigi Menichini, che lo considerava l’uomo più affidabile tra gli ufficiali locali.
Alcuni tentativi di rivolta, tra il 1817 e il 1819, non ebbero esito, ma la carboneria aveva assunto dimensioni imponenti. Molti dei più famosi generali murattiani, come Guglielmo Pepe o Francesco Pignatelli Strongoli, avevano simpatie costituzionali. Nel 1820 la tensione si moltiplicò. La rivoluzione in Spagna entusiasmò i liberali in Europa e mise in crisi la Restaurazione in America Latina. Senza contare che ex militari, militanti politici e funzionari napoletani si trovavano in tutti i territori dell’impero borbonico e corrispondevano tra loro. Si convinsero che a Napoli era giunta l’ora della rivoluzione costituzionale. Negli ambienti della carboneria e dell’esercito iniziò un’intensa discussione. Per tutta la primavera si susseguirono piccoli tentativi senza risultato. Rivalità tra militari e carbonari, la stessa complessità delle organizzazioni clandestine rese difficile un accordo. Tra marzo e giugno tre mancate sollevazioni non portarono a nulla.
I due ufficiali finirono per scavalcare, almeno apparentemente, il generale Pepe e i dirigenti liberali, pur in contatto con la carboneria. Morelli e Silvati diventarono così protagonisti della rivoluzione costituzionale forzando la mano e decidendo l’ammutinamento del proprio reparto. La notte tra il 1° e il 2 luglio, dopo un confronto difficile, in cui Silvati cercò di fare da ponte con i carbonari, i due ufficiali avviarono la rivolta. La mattina, seguiti da quasi tutto lo squadrone, si misero in marcia per Avellino, accompagnati dai carbonari guidati dall’abate Menichini.
Il comando fu assunto da Morelli, d’intesa con Silvati. I due, giunti a Monteforte, poco prima di Avellino, dove erano gli uomini del generale Pepe a controllare i militari, si accamparono. Il colonnello Lorenzo de Concilj, braccio destro di Pepe, li convinse ad aspettare un accordo generale tra i militari e la carboneria. Il giorno dopo lo squadrone e i rivoltosi entrarono in Avellino, accolti dalla folla festeggiante, dalle istituzioni locali e dai numerosi carbonari irpini. De Concilj, che operava su mandato di Pepe, assunse il comando dei reparti, Silvati e Morelli si misero ai suoi ordini e parteciparono ai piccoli scontri nella Valle dell’Irno con i militari fedeli a Ferdinando I.
La rivoluzione dilagò nelle province napoletane. Il 6 luglio Pepe arrivò ad Avellino e assunse il comando dell’armata, ormai definita costituzionale. Il reparto di Morelli e Silvati fu rinominato lo «squadrone sacro». Il re comprese che la partita era persa e promise la costituzione (anche se era del tutto contrario). Il 9 luglio l’esercito e migliaia di carbonari entrarono trionfalmente nella capitale addobbata a festa. La sfilata era aperta dallo squadrone di Morelli e Silvati. A questo punto il re adottò definitivamente la costituzione, mentre i due ufficiali diventarono eroi della rivoluzione, celebrati in articoli, stampe, oltre che dal Parlamento eletto nel corso dell’estate, finendo per calamitare così l’odio di borbonici e assolutisti.
I due ufficiali, come buona parte dell’esercito, non vollero seguire l’ala più radicale della carboneria (che, non fidandosi del re, voleva accentuare la spinta rivoluzionaria) e si opposero a chi voleva un colpo di mano. La rivolta autonomista siciliana fu invece una grave crepa per il governo costituzionale. Silvati era nell’esercito inviato a reprimerla. Partecipò alle operazioni intorno a Palermo, rientrando alla fine dell’anno (promosso capitano), quando iniziò la crisi della breve stagione liberale. Il principe Klemens von Metternich aveva riunito le potenze della Santa Alleanza a Troppau, programmando un intervento a Napoli, convinto del consenso di Ferdinando I, con il quale comunicava tramite il principe Alvaro Ruffo. Il re a dicembre lasciò il Regno, promettendo di difendere le ragioni della scelta costituzionale al congresso delle potenze della Restaurazione, nonostante l’opposizione di una parte del Parlamento, convinto che il re avrebbe tradito.
A Lubiana Ferdinando I si unì alla Santa Alleanza e sostenne l’invasione del suo Regno, contro il suo esercito e la sua costituzione. A Napoli si decise di resistere. Il Parlamento tentò una mobilitazione generale e Silvati, con Morelli, tornò al comando di uno squadrone, proprio quando fu annunciato che l’esercito austriaco stava per invadere il Regno. In realtà, il tradimento di Ferdinando I sconquassò la politica dei liberali napoletani, che si trovarono a combattere una guerra contro un re che dicevano comunque di difendere (e con il figlio apparentemente al loro fianco). Inoltre, le divisioni tra correnti e gruppi settari moltiplicarono la confusione e la fragilità politica del movimento liberale, mettendo rapidamente in crisi il dispositivo difensivo.
Il 7 marzo 1821 l’esercito napoletano fu battuto dagli austriaci ad Antrodoco. Si tentò di organizzare una qualche resistenza, ma senza esito. Morelli e Silvati giunsero a Mirabella in Irpinia e, insieme a un attivo dirigente carbonaro, l’abate Giuseppe Saverio Cappuccio, diedero vita a un gruppo di guerriglieri abbastanza numeroso, ma si resero anche conto dello sfascio generale. Nel frattempo, i borbonici avevano ripreso, insieme agli austriaci, il controllo della capitale. Il re voleva dare un esempio ai rivoltosi, ma i suoi alleati non gli diedero completa mano libera. Il 30 maggio 1821 Ferdinando I emise un editto con il quale concesse l’amnistia a coloro che avevano partecipato alla rivoluzione, escludendo però gli ufficiali che si erano ribellati dal 1° al 6 luglio 1820: tra questi Pepe, De Concilj e i protagonisti della marcia su Napoli.
Il governo mise una taglia, tra gli altri, sulla testa di Morelli e Silvati, e dichiarò i generali Giuseppe Rosaroll e Pepe colpevoli di alto tradimento. I due giovani ufficiali fuggirono in Puglia, aiutati dai carbonari locali, e poi nei Balcani, ma furono fermati a Ragusa e rispediti in Italia. Si divisero a Porto Fermo, ma entrambi furono presi. Silvati, catturato in Abruzzo, fu consegnato al governo borbonico. Anche Morelli fu poi arrestato. In estate erano in carcere a Napoli, degradati per ordine del re. Il giudizio, prima in carico alla Corte criminale, fu poi affidato alla Gran Corte speciale, che lo trasformò nel principale processo politico per le vicende della rivoluzione. Il procuratore generale, Luigi Calenda, che aveva probabilmente posizioni di garanzia formale, fu sostituito dal fedelissimo borbonico Gaetano Brundesini.
Il processo si celebrò nell’edificio della Vicaria, dove erano imprigionati gli accusati. Nell’autunno del 1821 furono interrogati e cercarono in qualche modo di salvarsi la vita, con dichiarazioni che attenuassero le loro responsabilità. All’inizio del processo, il 10 maggio 1822, Morelli e Silvati avevano solo un difensore d’ufficio. Inoltre, non fu consentita l’applicazione dell’indulto, che lo stesso re aveva proclamato il 20 agosto 1820, per coloro che avevano partecipato alla rivoluzione. L’assise, che prese il nome di ‘Causa di Monteforte’, entrò nella storia del Regno. Il 21 giugno 1822 i militari coinvolti nell’ammutinamento furono espulsi dall’esercito. La sentenza era già scritta, nonostante le divisioni che spaccarono il collegio giudicante, proprio rispetto alle misure concesse precedentemente. Infatti, il dibattimento si trascinò per lo scontro tra i giudici fedelissimi del re e i magistrati che ritenevano ingiusta la linea decisa. La mancata applicazione dell’amnistia del 30 maggio 1821 fu considerata uno scandalo, ma Ferdinando I voleva una misura esemplare.
Il 20 agosto 1822 il pubblico ministero Brundesini accusò Silvati e Morelli, divenuti un simbolo della rivoluzione, di aver voluto cospirare contro lo Stato. Il 9 settembre la Gran Corte speciale condannò a morte trenta ufficiali. Due giorni dopo le condanne furono in parte modificate in ergastoli e lavori forzati. Questo non valse per Silvati e per Morelli, esclusi nettamente dal provvedimento. Silvati, a differenza dell’amico e collega, accettò i conforti religiosi. Il re volle l’esecuzione immediata della pena.
Il giorno dopo (12 settembre 1822) in piazza San Francesco, a Napoli, scortati da un forte distaccamento austriaco, Silvati e Morelli furono portati al patibolo per essere ghigliottinati.
La condanna e l’esecuzione trasformarono per sempre sia Silvati sia Morelli in eroi del martirologio meridionale, liberale, poi nazional-patriottico e infine unitario.
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca della Società napoletana di storia patria, Processi politici del 1820-1821, b. XXIX. Inoltre: B. Gamboa, Storia della Rivoluzione di Napoli entrante il luglio del 1820, Napoli s.d. [ma 1820], passim; G. Brundesini, Conclusioni del pubblico ministero sulla causa vertente innanzi la Gran Corte Speciale di Napoli [...] degli ex-militari accusati di cospirazione eseguita nei primi giorni di luglio 1820, Napoli 1822; G. Pepe, Memorie, II, Lugano 1847, passim; M. D’Ayala, I primi quattro martiri della libertà italiana nell’anno 1821, Napoli 1861, passim; O. Dito, Massoneria, carboneria ed altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano, Torino-Roma 1905, ad ind.; C. De Nicola, Diario napoletano dal 1798 al 1825, III, Napoli 1906, ad ind.; P. Colletta, Storia del reame di Napoli, a cura di N. Cortese, III, Napoli 1957, ad ind.; A. Morelli, Michele Morelli e la rivoluzione napoletana del 1820-1821, 2ª ed. ampliata, Bologna 1969, ad ind.; L. Minichini, Luglio 1820. Cronaca di una rivoluzione, a cura di M. Themelly, Roma 1979, ad ind.; R. Scalamandrè, Michele Morelli e la rivoluzione napoletana del 1820-1821. Dalle bandiere di Murat al sogno della costituzione, Roma 1993, ad ind.; A. Stassano, Cronaca. Memorie storiche del Regno di Napoli dal 1798 al 1821, a cura di R. Marino - M. Themelly, Napoli 1996, ad ind.; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, V, Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), Torino 2006, ad ind.; R. De Lorenzo, Murat, Roma 2011, ad ind.; J.A. Davis, Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale e le rivoluzioni europee (1780-1860), Soveria Mannelli 2014, ad indicem.