ROVANI, Giuseppe
Romanziere, nato il 12 gennaio 1818 a Milano, morto ivi il 26 gennaio 1874. Fu discepolo del pariniano Giuseppe Pozzone, e anche da lui poté fino dai primi studî apprendere particolari notizie sul Settecento lombardo. Si guadagnò alcun tempo la vita come istitutore di nobili giovanetti, il che valse a introdurlo nell'alta società lombarda e veneta.
Volontario nella guerra del 1848, e poi esule, compilò un volume sul Manin per i Documenti della guerra santa in Italia editi a Lugano; nondimeno il governo imperiale lo riammise al modesto ufficio che innanzi egli aveva occupato nella Biblioteca di Brera, con tenue stipendio ch'egli arrotondava scrivendo su periodici letterarî articoli critici, che piuttosto che ponderati giudizî sono improvvisazioni, più tardi aspramente rimproverategli da G. Carducci. Il R. attese anche alla pubblicazione di opere divulgative, dove alla materia altrui seppe talvolta aggiungere assai, con varia cultura e con valentia: la Continuazione degli ultimi trent'anni (1824-1854) alla Storia della rigenerazione della Grecia di F.-L. Pouqueville (Milano 1854), Le arti e le scienze in Italia, ecc. Capace di far più e meglio, si diede a scrivere romanzi storici, ch'era il genere allora in voga: Lamberto Malatesta (Milano 1843), Manfredo Pallavicino (ivi 1845), Valenzia Candiano (Napoli 1846), La Libia d'oro (Milano 1868), Cento anni (ivi 1869; varie ristampe: 1885;1934), Giulio Cesare (ivi 1876), e altri scritti minori. Lavorò altresì per il teatro (Bianca Cappello, Simone Rigoni) senza felici successi. La sua riammissione in servizio governativo e l'aver egli accettato di farsi storiografo del viaggio dell'imperatore in Lombardia, nel 1857, lo resero sospetto ai liberali e perfino inviso ai più accesi. Oltre di che, sofferse dolori familiari e si trovò oppresso dai debiti; e sciaguratamente si diede all'assenzio. Morì in una casa di salute, dove s'era ricoverato nel Natale del 1873.
Non è da credere che proprio si meritasse l'acre severità di molti che non avevano, come lui, combattuto per l'Italia; ed è da compiangere per le sciagure che negli ultimi anni lo torturarono; nondimeno l'uomo non apparisce, quale lo vorremmo, in una vita tutta dignitosa; e così vorremmo che le innegabili sue facoltà artistiche, specialmente di narratore, si manifestassero chiare e costanti anche fuori dell'opera migliore, Cento anni, nella quale emergono cospicue di franchezza e d'ingegnosità non meccanica soltanto. I suoi doni innati appariscono già in Lamberto Malatesta, di cui l'argomento è il vivere della Toscana alla fine del Cinquecento; e in Valenzia Candiano (tema riguardante Venezia nel Cinquecento, ch'era suggerito al R. dal Pozzone); appariscono anche in Manfredo Pallavicino (su Milano e Roma nel Cinquecento); e si ritrovano, dopo il romanzo Cento anni, ma diminuite, nelle "scene romane", La giovinezza di Giulio Cesare, e in La Libia d'oro, "scene storico-politiche" che si possono considerare come un seguito ai Cento anni, perché vi hanno parte principalissima due personaggi già quivi rappresentati (la materia concerne il Congresso di Vienna e le società segrete).
Ai Cento anni non mancarono censure; ma neppure gli difettarono lodi autorevoli e ragionate, perché la composizione n'è di molto valore, la curiosità vi abbonda, lo stile vi si gusta più sobrio e più semplice mentre conserva scioltezza e vivezza. Il raffronto con Le Confessioni di un italiano del Nievo, pubblicate prima dei Cento anni, s'impone per la palese derivazione di una parte almeno del concetto generale; ma il romanzo del R. ha pregi suoi proprî, che lo rendono uno dei racconti moderni italiani, di gran mole, degni di lettura e di critica benevola. Comprende un secolo, dalla metà del Settecento alla metà dell'Ottocento; il filo principale si annoda intorno alla figura di un mozzo di stalla, Andrea Suardi detto il Galantino, che nella Lombardia settecentesca riesce a salire di grado in grado a ricco banchiere; e intorno alla figura di un ufficiale della Repubblica Cisalpina e poi del Regno Italico, Geremia Baroggi, con accanto la donna innamorata di lui, che lo segue in guerra travestita da dragone; e poi intorno ai discendenti loro, nei casi del Risorgimento. Le avventure, desunte da tradizioni orali e parzialmente da manoscritti (anche degli archivî), hanno più della cronistoria che del romanzo, nel raggruppare con abilità molte persone e molti aneddoti dentro una serie di scene che di volta in volta piacciono, pur non appagando chi desideri uno stile davvero artistico; e, purtroppo, saziando presto chi cerchi meglio che un immediato e superficiale piacere. Brava è l'esecuzione di alcuni ritratti d'uomini illustri o caratteristici; acuta talvolta l'intuizione psicologica. Il Tommaseo notava frasi potenti accanto a metafore barocche, e raccomandava al R. uno stile più parco, un linguaggio più corretto. Tuttavia la complessa rappresentazione di un trapasso importante nella vita nazionale, tra il sec. XVIII e il XIX, è conseguita come era nelle intenzioni dell'artista; e rimane non solo dilettevole e insieme utile in sé, ma anche significativo documento delle coscienze e dei gusti del tempo.
Bibl.: B. Croce, La letteratura della nuova Italia, 3ª ed., Bari 1929, I, p. 111 segg.; L. Russo, I narratori, Roma 1923, p. 57 segg.; P. Nardi, La scapigliatura, Bologna 1924, p. 17 segg.; G. Mazzoni, L'Ottocento, 2ª edizione, Milano 1934.