ROVANI, Giuseppe
ROVANI, Giuseppe. – Nacque a Milano il 12 gennaio 1818 e venne battezzato con i nomi di Vittorio Giuseppe. Il padre, Gaetano, aveva una bottega di orefice, la madre Felicita Eberle, di origini tirolesi, faceva la cucitrice.
A Milano frequentò l’imperial regio ginnasio di S. Alessandro, istituto che tra gli ex allievi annoverava Giovanni Berchet e Carlo Cattaneo e in precedenza, retto dai barnabiti, Giuseppe Parini e Pietro Verri. Ebbe a maestri Silvio Dogna, professore di grammatica, in onore del quale diede il nome di Silvio al suo unico figlio, e per le belle lettere l’abate Giuseppe Pozzone, poeta pariniano, che gli trasmise l’ideale illuministico di una letteratura impegnata. In un articolo pubblicato nell’Italia musicale del 19 e 26 novembre 1853, poi più volte ristampato, lo ricordò, certo con un eccesso di gratitudine, come uno di quegli ingegni degni «di stare tra Parini e Manzoni» ma che l’indole modesta e la sorte avversa «avevano mantenuti nell’oscurità, a dispetto del merito incontrastabile». Precoce la vocazione letteraria, stando a una testimonianza autobiografica. In un ironico ritratto di sé pubblicato nell’Italia musicale del 12 gennaio 1853, nella rubrica Profili letterarii e artistici dell’Italia contemporanea, e vergato con lo scopo che il dir male di se stesso gli avrebbe garantito «il diritto di dir male anche un po’ degli altri», dichiarò che a sedici anni aveva già scritto «una tragedia e due drammi che furono letti e meritatamente respinti da due Compagnie drammatiche le quali per un’insolita bizzarria ebbero questa volta il privilegio di sfoggiare buon senso».
Esordì ufficialmente, poco più che ventenne, con una «tragedia lirica» che resta una delle rarissime prove in versi e la testimonianza prima della passione per il melodramma, in seguito esercitata in sede critica e massicciamente trasferita nella scrittura narrativa: il Don Garzia, tratto dall’omonima tragedia alfieriana e musicato da Antonio Costamagna (Genova, teatro Carlo Felice, Carnevale 1839). Quello stesso anno, riprendendo un argomento molto frequentato in area romantica, diede alle stampe Bianca Cappello (Milano), dramma storico in cinque giornate che mette in scena la prima parte della vita della protagonista, dalla fuga da Venezia per sposare, lei di nobile casato, il fiorentino Piero Bonaventuri, all’assassinio del giovane marito commissionato da Francesco I granduca di Firenze. Nella premessa Al lettore ne annunciò la continuazione «in altro apposito dramma» (p. XII): progetto realizzato non come drammaturgo, ma nel primo romanzo, Lamberto Malatesta (Milano 1843).
Nel 1847 uscì nella collana Florilegio drammatico di Borroni e Scotti l’ultimo lavoro per il teatro: Simone Rigoni, ambientato nella Milano di Ludovico il Moro, vicenda di una nobile anima che a ogni altro sentimento antepone l’indipendenza della patria. Scritto alla vigilia del Quarantotto, il dramma non trovò rappresentazione, probabilmente a causa delle allusioni risorgimentali. Andò in scena postumo per cura di Cletto Arrighi il 22 dicembre 1875 al teatro Manzoni di Milano.
Del 1841 è la prima esperienza narrativa, che ricorre al consueto espediente del manoscritto ritrovato: Eleonora da Toledo o Una vendetta medicea: cronaca fiorentina trovata nei manoscritti di M.A. Buonaccorsi. La novella uscì anonima a Milano per i tipi di Bonfanti, venne poi ristampata in appendice alla seconda edizione del romanzo Valenzia Candiano edita da Ferrario nel 1860.
A testimonianza della vocazione ciclica che segna la scrittura rovaniana fin dagli esordi, il racconto riprende la saga medicea già praticata in sede teatrale nel libretto del Don Garzia e nel dramma Bianca Cappello. Ambientato negli anni Settanta del Cinquecento nella Firenze di Francesco I, narra la sfortunata vicenda di Eleonora da Toledo, giovane donna per sua natura virtuosa ma guastata dal mal operare di altri: sedotta dallo zio Cosimo I, venne da lui data in sposa al figlio Piero e da questi uccisa a causa dell’amore per un giovane fiorentino.
Con un ritmo di scrittura serrato, cifra costante della biografia rovaniana, nella prima metà degli anni Quaranta pubblicò anche i tre romanzi storici giovanili: per i tipi di Ferrario Lamberto Malatesta (Milano 1843), storia del masnadiere omonimo e della Firenze medicea di Francesco I; sempre presso Ferrario Valenzia Candiano (Milano 1844), romanzo del Trecento veneziano; per Borroni e Scotti in quattro volumi Manfredo Palavicino o I Francesi e gli Sforzeschi (Milano 1845-1846), ambientato alla caduta del Ducato di Milano sotto il dominio francese.
Ascrivibili al genere storico, i romanzi ne attuano una corrosione dall’interno, soprattutto per le frequenti immissioni di un realismo di marca contemporanea. Testimoniano una visione laica della storia e delle umane vicende, lontana dal magistero del pur sempre venerato Alessandro Manzoni. A muovere la storia non sono interventi provvidenziali, ma fortuite e straordinarie coincidenze: utili a far progredire le trame intricate, che contraggono più di un debito con la narrativa d’appendice e con il melodramma, restituiscono anche una visione del mondo affidata al caso o a un fato talvolta beffardo. Il modello manzoniano agisce, talora per rovesciamento, nell’impostazione di singoli episodi, e fornisce un repertorio di citazioni, calchi, rifacimenti. Già nel Lamberto Malatesta, ma ancor più nel Manfredo Palavicino, traspare una filigrana di allusioni politico-patriottiche, secondo il canone del romanzo storico risorgimentale. Nel chiudere il Manfredo Palavicino il narratore dichiara che nel ritrarre i tempi in cui visse il suo protagonista ha «avuto l’animo ad altri fini che non diremo qui» perché è inutile affannarsi nell’ultima pagina «a mostrar la ragione» «delle cose sparse in tutto uno scritto» (IV, p. 252): starà al lettore coglierla da sé.
Secondo la documentazione fornita da Carlo Dossi nella Rovaniana – fonte preziosa ma rimasta incompiuta, in parte allo stato di abbozzo e pubblicata postuma –, nel 1845 Rovani aveva trovato impiego presso la Biblioteca Braidense come scrivano avventizio, addetto alla compilazione dei cataloghi. Sarebbe rimasto in servizio, con qualche periodo di interruzione e scarsi miglioramenti economici e professionali, fino al pensionamento nel 1864. Dalla fine del 1847 prese avvio la collaborazione, destinata a una lunga durata, con L’Italia musicale, fondata quello stesso anno da Francesco Lucca, in aperta concorrenza con la Gazzetta musicale di Milano di Ricordi. Sempre alla fine del 1847 lasciò Milano. Nel dicembre era a Torino, come testimonia la corrispondenza inviata a L’Italia musicale (Notizie teatrali: Torino, 22 dicembre 1847), e poi a Venezia, dove aveva accettato un incarico di precettore privato. Il soggiorno veneziano si protrasse per quasi due anni, inframmezzato da qualche spostamento. Era nella città lagunare nei mesi della rivoluzione e della Repubblica: frequentava gli ambienti liberali, assistette e partecipò a quegli avvenimenti storici, difficile dire in quale misura. Dossi (1946) lo definì «attento spettatore» (I, p. 71), immagine che coincide con il profilo che Rovani stesso ritagliò di sé negli scarsi cenni autobiografici presenti nella memoria storica Di Daniele Manin presidente e dittatore della Repubblica di Venezia (Capolago 1850) e nelle pagine finali dei Cento anni. Altri gli attribuirono una parte più attiva: Niccolò Tommaseo (1867), per esempio, lo indicò come «contemplatore non inerte […] che tenne in mano prima che la penna, la spada» (col. 879). Certo è che nei primi giorni della Repubblica fece uscire, insieme al veneziano Vincenzo Maisner, libraio e patriota, La Parola: giornale di storia contemporanea, uno di quei fogli quarantotteschi, spesso destinati a una breve vita, fondati all’indomani della conquistata libertà di stampa. Del periodico uscirono il manifesto d’associazione in data 22 marzo 1848, il giorno stesso della proclamazione della Repubblica, e il primo numero, il 2 aprile: redatto quasi integralmente da Rovani, ne restituisce il credo democratico e federalista. Caduta Venezia nell’estate 1849, Rovani trovò rifugio, dopo qualche peregrinazione, a Capolago nel Canton Ticino, dove aveva sede la Tipografia Elvetica, centro di edizione e diffusione della stampa clandestina risorgimentale e luogo di raccolta di molti esuli quarantotteschi. Frequentò, tra gli altri, Francesco Dall’Ongaro e soprattutto Carlo Cattaneo, al cui magistero fu sempre debitore. Nel gennaio 1850, presso le edizioni di Capolago, pubblicò la citata memoria storica su Daniele Manin, compresa nella collana cattaneana Documenti della Guerra santa d’Italia: atto d’accusa contro Manin, colpevole di aver sacrificato la causa nazionale allo spirito di municipio.
Come testimoniano le recensioni all’Esposizione di belle arti di Brera comparse nell’Italia musicale, nell’ottobre del 1850 era nuovamente in Milano. Nell’estate 1851, costretto da esigenze economiche, riprese il modesto impiego presso la Biblioteca Braidense: lavoro poco retribuito e mal sopportato, oggetto di frequente ironia, ma anche occasione di letture e ricerche d’archivio proficue per la scrittura sia saggistica sia narrativa. Nel 1854 diede alle stampe per Ferrario la Storia della Grecia negli ultimi trent’anni (1824-1854) in continuazione a quella di Pouqueville. Con la mente e la scrittura rivolte alla situazione italiana, per quanto lo permetteva la censura austriaca, nel volume Rovani ripercorre il passato recente della Grecia, nazione sorella. In questi stessi anni attese alla compilazione della Storia delle lettere e delle arti in Italia (Milano 1855-1858), raccolta miscellanea in quattro volumi di biografie di italiani illustri dal Due all’Ottocento. Il tomo quarto comprende numerosi contributi di Rovani, perlopiù già editi in rivista, poi stampati separatamente con titolo Biografie dei più celebri italiani del secolo decimonono (Milano 1865) e destinati a confluire nel volume postumo Le tre arti considerate in alcuni illustri italiani contemporanei (Milano 1874) curato da Luigi Perelli.
Nel 1853 sposò la giovane Luigia Stabilini, allieva nel collegio femminile presso cui al ritorno dall’esilio svizzero aveva per breve tempo insegnato. Dal matrimonio nacque un unico figlio, morto nel 1862, a quattro anni.
Gli anni Cinquanta furono segnati da un’attività progressivamente intensa di pubblicista, esercitata soprattutto in due testate: L’Italia musicale e, dal 1851, la Gazzetta ufficiale di Milano, con una collaborazione che durò poi fino al 1871. Critico teatrale, letterario, musicale, d’arte, divenne una delle voci più ascoltate della Milano culturale. «Il giudizio di Rovani era la sentenza finale d’ogni questione», si legge nell’articolo in morte comparso nella Rivista europea nel marzo 1874 a firma Gaetano Sangiorgio. E il giovane Ippolito Nievo, in una lettera a Caterina Curti Melzi del 7 aprile 1858, annotò come per far fortuna fosse necessario «esser lodato dal signor Tenca nel Crepuscolo e dal Rovani nell’Appendice della Gazzetta di Milano» (Lettere, a cura di M. Gorra, Milano 1981, p. 482). Dopo un decennio di silenzio narrativo, alla fine del 1856 avviò nelle appendici della Gazzetta ufficiale di Milano la pubblicazione dei Cento anni, stampandone con il titolo Sinfonia del Romanzo la prefazione, che è anche una difesa del romanzo e del genere storico, colpito dalla sconfessione manzoniana.
Il vasto, caleidoscopico romanzo storico contemporaneo, seguendo l’esile e intermittente filo conduttore della sottrazione di un testamento e affidandosi anche alle memorie del nonagenario Giocondo Bruni – il particolare non sfuggì a Nievo –, ricostruisce le vicende di quattro generazioni, dal 1750 al 1862. Ambientato tra Milano, Venezia, Roma e Parigi, intreccia avvenimenti pubblici e fatti privati, raccontando il passato, remoto o prossimo, con lo sguardo costantemente rivolto al presente. La pubblicazione a puntate in rivista si protrasse per sette anni, dal 31 dicembre 1856 al 31 dicembre 1863, con frequenza tanto irregolare da richiedere una fitta rete di interventi d’autore (poi espunti nelle edizioni in volume) volti a giustificare ai lettori ritardi e mutamenti di programma e a ironizzare sulle lungaggini di un romanzo che avrebbe potuto almeno vantare di essere «tra i pochissimi che rimasero veramente fedeli al loro titolo» (Gazzetta ufficiale di Milano, 26 novembre 1859). Oltre tre mesi separano la prefazione dalla prima puntata, che uscì solo l’11 aprile 1857. La pausa sarà probabilmente da imputare all’incarico di redigere per il giornale tra gennaio e marzo la cronaca del viaggio degli imperatori Francesco Giuseppe ed Elisabetta di Baviera nelle province lombarde: impegno cui Rovani non seppe sottrarsi e che sollevò aspre critiche in parte degli ambienti liberali milanesi. Nell’agosto 1858, quando era ormai uscita circa la metà del romanzo, Rovani interruppe la pubblicazione, riservandosi di continuarlo e portarlo a compimento in volume. I rivolgimenti storici del 1859, con la seconda guerra d’indipendenza e l’annessione della Lombardia al regno sabaudo, e le ripercussioni di quegli avvenimenti sul piano personale gli fecero mutare idea: a giugno, dopo la sconfitta austriaca di Magenta, rilevò in comproprietà la Gazzetta, impegnandosi anche come editorialista e commentatore politico, e a dicembre riprese la pubblicazione in appendice dei Cento anni, che si protrasse con alterne vicende fino al 1863.
Parallela alla pubblicazione in rivista è la prima edizione in volume, esito di una massiccia revisione: i primi tre volumi vennero stampati a spese dell’autore con data 1859 (ma il terzo uscì di fatto nel 1861), i restanti due nel 1864 presso Daelli, cui con sollievo Rovani aveva ceduto l’onerosa proprietà del romanzo. In seguito Rovani riprese in mano i Cento anni e tra il 1868 e il 1869 ne pubblicò presso lo Stabilimento Redaelli dei fratelli Rechiedei, con sottotitolo Romanzo ciclico, l’edizione definitiva in due volumi elegantemente illustrati.
Tra il gennaio e il dicembre 1865 aveva frattanto stampato, sempre nella Gazzetta, La Libia d’oro, poi raccolta in volume nel 1868 presso Chiusi e Rechiedei.
Consanguineo ai Cento anni, il romanzo ne sviluppa una vicenda laterale, recuperando due personaggi, Andrea Suardi e Mauro Bichinkommer, ora affiliati a una società segreta, la Libia d’oro appunto, volta in tempi di Restaurazione a sovvertire l’ordine di cose per preparare l’avvento di regimi liberali: impresa destinata a fallire, poiché la libertà si lascia conseguire non tramite la cospirazione di pochi ma solo attraverso l’azione popolare. Al di là di tale assunto, il romanzo, che denuncia anche qualche suggestione naturalistica, amplifica la cupa visione della «storia universale» quale «Babilonia di scellerati» (La Libia d’oro, Milano 1868, p. 10), affidata al caso o mossa da interessi privati sottovalutati o taciuti dalla storiografia ufficiale, concezione già presente nelle sezioni finali dei Cento anni.
Nel settembre 1866, agganciandosi all’attualità che vedeva, all’indomani della terza guerra d’indipendenza, le diplomazie intente a trattare la cessione del Veneto al Regno d’Italia, avviò sempre nelle appendici del quotidiano milanese la narrazione storica Venezia negli anni 1848-49, destinata a restare bruscamente interrotta alla terza puntata.
Il dolore per la morte del figlio, la progressiva abitudine all’assenzio, il dissesto economico resero difficile l’ultimo periodo della vita di Rovani. Dalla fine degli anni Sessanta l’attività giornalistica andò diradandosi e nel marzo 1871 cessò la ventennale collaborazione alla Gazzetta. Tra il 1868 e il 1870 aveva frattanto pubblicato il sesto e ultimo romanzo, La giovinezza di Giulio Cesare, con il significativo sottotitolo Tavole di ragguaglio tra gli antichi e i moderni scellerati.
La prefazione e la prima puntata erano già state anticipate, sempre nella Gazzetta, nel 1865, mentre era ancora in corso l’edizione in appendice della Libia d’oro: nelle settimane immediatamente precedenti Rovani aveva avuto modo di recensire l’Histoire de Jules César di Napoleone III, e il romanzo venne concepito in dichiarata polemica con tale biografia, giudicata falsamente idealizzante. Debitore anche alla moda del romanzo storico d’ambientazione antica, ricostruisce la vita di Giulio Cesare dall’82 a.C. al primo triumvirato, con l’intento di indagarne gli aspetti più riposti. Venne raccolto in volume per i tipi di Legros nel 1873 con il sottotitolo mutato in un più neutro Scene romane.
Degli ultimi anni è anche l’edizione in opuscolo di due studi monografici, già stampati più volte in sedi diverse, estremo omaggio ai due maestri da sempre oggetto di un’ammirazione senza riserve: La mente di Gioachino Rossini (Milano 1871) e La mente di Alessandro Manzoni (Milano 1873). Le febbri tifoidee e il fisico già debilitato lo costrinsero nel Natale del 1873 al ricovero presso la casa di salute di porta Nuova. Morì a Milano a cinquantasei anni, il 26 gennaio 1874.
Fu sepolto con funerali solenni, voluti dagli amici e non senza polemiche, nel famedio del cimitero Monumentale di Milano. La sua fama restò affidata ai giovani della generazione scapigliata che, fin dagli ultimi anni Cinquanta, nelle capacità affabulatorie, nell’ironia, nello spirito dissacratorio, nei modi di vita di Rovani avevano riconosciuto un indiscusso modello: ne curarono con venerazione la memoria, tendendo tuttavia a confonderne nell’aneddotica e nella figura di scapigliato ante litteram la reale fisionomia.
Opere. Edizioni recenti: La mente di Alessandro Manzoni, prefazione di G. Pontiggia, Milano 1984; Valenzia Candiano o la figlia dell’ammiraglio, a cura di M. Giachino, Milano 1993; Cento anni, a cura di S. Tamiozzo Goldmann, I-II, Milano 2001; con introduzione di F. Portinari, contributi di M. Giachino, Torino 2008 (dei Cento anni si segnala anche l’edizione annotata e illustrata a cura di B. Gutierrez, I-II, Milano 1934-1935); R. Tordi, Rovani contro Verdi: con la riproduzione del Don Garzia, Moncalieri 2013.
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia si rimanda a: V. Scrima, G. R. critico d’arte, Milano 2004, e alla citata edizione dei Cento anni, Torino 2008.
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