REGALDI, Giuseppe
Poeta estemporaneo e letterato, nato a Varallo l'8 novembre 1809, morto a Bologna il 14 febbraio 1883. Fino da giovane si mise a improvvisare pubblicamente e ottenne bei successi per la prestanza della persona, la voce possente e armoniosa, e forse per il modo enfatico, quale allora si usava, del porgere e declamare; ma anche per le veramente rarissime sue facoltà d'ingegno e di vena. Viaggiò, sempre fra entusiasmi repentini e fugaci, in gran parte dell'Europa e in Asia e in Egitto; ebbe tra i suoi ammiratori anche uomini come il Lamartine. Tal suo viaggiare non era senza una segreta relazione con la propaganda politica italiana e liberale; così non gli mancarono arresti e sfratti. Pensionato da Vittorio Emanuele II, ottenne cattedre nelle scuole medie e poi nelle università di Cagliari e di Bologna; non tanto apprezzato per le lezioni, quanto stimato ed amato per la fama, l'ingegno, la bontà, secondo che appare dalle pagine che su lui scrisse con affetto il suo collega G. Carducci.
Si può dire che nulla resti vivo delle molte sue poesie, sebbene egli da ultimo vi lavorasse attorno, con zelo e industria di lima, lungamente. Avrebbe voluto, come era stato il bardo della patria, diventare il poeta della scienza; e si ostinò, inneggiando, profetando, a cantare invenzioni e scoperte moderne con un'aspirazione alta ma confusa, sincera ma superficiale, verso la redenzione umana e la religione dell'avvenire. Scenarî coreografici, e non figurazioni fantastiche; parlate d'una sonante facondia e non accenti profondi; sono versi, sono strofe, che possono anche, lì per lì, far meravigliare con l'incalzante melodia, con la variopinta prospettiva; ma in fondo non c'è che una monotona e retorica glorificazione della scienza in ogni ordine della vita. Il R., che fu detto l'ultimo degli improvvisatori, ci apparisce come un frutto maturo, colorito e saporoso, del vecchio tronco di un'arte se non gloriosa per la bellezza vera, attraente per le sue contingenze sociali. Tutti i metri erano trattati dal R. con una agevolezza straordinaria; per qualsiasi argomento egli aveva in pronto reminiscenze, concetti, vocaboli. E si deve aggiungere che la castigatezza del dire si riscontra in lui come un pregio pressoché costante.
Dalla cattedra, volle dimostrare a sé e agli altri ch'era capace di lavorare pacatamente; e produsse libri in prosa, in alcuno dei quali si può notare la derivazione. dalla consimile letteratura francese allora in voga, perché sono un misto di descrizioni, riflessioni, erudizioni, curiosità, per illustrare geograficamente e storicamente terre da lui percorse e studiate. La Dora (2ª ed., Torino 1867) ebbe l'onore di un articolo del Carducci, che ne mise in vista tutto il buono, e certamente ve n'è; L'Egitto antico e moderno (Firenze 1882) ebbe un onore anche più alto dall'ode che vi prepose il Carducci stesso. Tra i suoi versi sono da rammentare, come un osservabile documento della cronistoria poetica, Il Traforo delle Alpi (1871), L'Occhio (1871), e L'Acqua, polimetro letto nell'università di Torino in tre giornate del 1878.
Poesie, ediz. postuma a cura di E. Camerini (Firenze 1894, voll. 2).
Bibl.: G. Bustico, Saggio di una bibl. di G. R., Novara 1922; id., Fra accademie e amori regaldiani, in Riv. d'Italia, 15 agosto 1928; G. Mazzoni, L'Ottocento, 2ª ed., Milano 1934.