PUCCIANTI, Giuseppe
– Nacque a Pisa il 13 giugno 1830. La sua vita si svolse per lo più nella città natale e all’insegna degli studi letterari, cui si dedicò con una devozione che lo accompagnò sino alle soglie della morte.
Conseguì la laurea in Filologia e Filosofia presso l’università di Pisa; divenne quindi insegnante e poi preside del Liceo classico Galileo Galilei. Pur non entrando mai a far parte del circolo degli ‘amici pedanti’, conobbe personalmente Carducci, mostrando interesse per la sua poetica e componendo egli stesso versi di intonazione classicistica.
Dopo la Commemorazione del professore Adamo Bisset nelle esequie a lui fatte dagli amici e il patriottico Ricordo di Giovanni Boldrini, morto gloriosamente a Palestro il XXXI maggio MDCCCLIX, entrambi del 1859, il 4 dicembre dello stesso anno pronunciò il discorso Della necessità di volgere lo studio delle lettere a oggetto civile. Le idee quivi esposte, che prendevano le mosse da quelle di alcuni predecessori citati (soprattutto il Foscolo delle Lezioni di letteratura), individuavano nella letteratura la duplice fonte del diletto e della ‘civile utilità’.
Raccolse le sue lezioni scolastiche nella Introduzione allo studio della letteratura, che vide la luce per i tipi fiorentini di Cellini nel 1862.
Si occupò di Galileo, che celebrò come «campione della ragione» in un’ode apparsa su un opuscolo celebrativo del trecentesimo anniversario della nascita, uscito per i tipi pisani di Nistri nel 1864 e inclusivo di un breve scritto di Enrico Giuliani. Di quattro anni successivo è Della filosofia galileiana e del positivismo odierno, che esaltava il pensiero dello scienziato contro quello dei suoi successori su Nuova Antologia, VII, 1868.
Nell’edizione delle Lettere di Annibal Caro, che videro la luce nel 1869 per i tipi milanesi di Amalia Bettoni, Puccianti palesò le proprie idee in fatto di stilistica, dichiarando nello scritto introduttivo la superiorità di quegli autori cinquecenteschi che, pur memori della lezione dei latini, non ‘latinizzarono’ in italiano (per parafrasare una sua espressione), preferendo adattare nella loro prosa il linguaggio di uso quotidiano.
Abbandonati gli accenti classicisti e avvicinatosi alla poetica del romanticismo d’oltralpe e a quella di Giovanni Prati, nel 1871 diede alle stampe un opuscolo di poesie, Liriche, di sole venti pagine che uscì presso Nistri. Presentato come un saggio dei suoi intendimenti in fatto di poesia, il libretto riaffermava l’idea pratiana della preminenza del cuore sulla ragione, citando «uccelletti», «farfallette» e alcune delle immagini naturalistiche rinomate presso il romanticismo nostrano. Fra tracce di leopardismo esteriore (mescolato ad accenti barocchi nella riflessione sull’esistenza dell’individuo, come in La vita umana) e vaghi echi tommaseiani (L’immortalità), la plaquette trovava anche modo di esaltare l’etica del lavoro, tipica della letteratura campagnola (La canzone dell’artigiano), proponendo inoltre due imitazioni da Werner e Schiller e concludendo con due sonetti Alla Musa, in cui si intravedevano alcune citazioni poetiche. Un’edizione riveduta e di molto ampliata sarebbe apparsa due anni dopo, con il titolo Versi presso l’editore Le Monnier. Privilegiando ancora il sermo brevis per le poesie descrittive di affetti, e guardando sempre a esempi poetici pregressi (ma senza cadere nelle panie dell’imitazione pedissequa, come chiariva nell’introduzione), Puccianti offrì ancora prova delle sue inclinazioni romantiche, dando inoltre respiro al suo verseggiare con le ottave del poema Il minatore, dedicato alla moglie Arianna.
Primo esito di una serie di studi sulla letteratura italiana, diede alle stampe l’articolo La poesia psicologica, lunga recensione ai Fiori lirici tedeschi recati in italiano da Giovanni Peruzzini (1870), su Nuova Antologia, XVI, 1871. Nello stesso anno pubblicò la corposa Antologia della prosa italiana moderna, intesa a fornire esempi di bello scrivere agli studenti delle scuole e ai lettori contemporanei. I testi inclusi, tutti ottocenteschi, erano divisi per generi (epistolografia, memorialistica, storia, narrativa, pedagogia, aforismi, filosofia estetica), ciascuno recando il commento del curatore. Alla crestomazia ne fece seguito un’altra, l’anno dopo, l’Antologia della poesia italiana moderna, che prendeva le mosse da quel Parini giudicato padre della moderna lirica civile. Il motivo, condotto nell’introduzione, del mestiere del grande poeta intento a leggere nel libro della natura (come lo scienziato galileiano) e in quello dell’animo umano proseguiva il discorso di La poesia psicologica.
Celebrò il genio letterario di Manzoni, la cui scelta linguistica aveva mostrato di appoggiare nel pamphlet dal titolo Dell’unità di lingua in Italia. Pensieri (1868), in uno «studio morale» su Nuova Antologia, XXIII, 1873. Perseguendo un ideale pedagogico e parenetico di letteratura, concluse lo scritto esortando i giovani a leggere I promessi sposi, che definiva libro di ammaestramenti civili e religiosi, ma anche di esempi di bello stile.
La preferenza per la letteratura di orientamento morale lo spinse a raccogliere passi da opere e massime aforistiche in Sentire e meditare. Pensieri e giudizi di moderni scrittori italiani, che vide la luce presso i tipi fiorentini di Paggi nel 1884. Riunendo estratti da Foscolo, Manzoni, Leopardi e Tommaseo, cui si aggiungevano gli outsiders Francesco Algarotti, Gasparo Gozzi e Giuseppe Parini (unici non ottocenteschi), la raccolta ribadiva gli interessi linguistico-letterari di Puccianti, che dedicava la terza e ultima sezione a passi riguardanti la necessità di una lingua unita, l’importanza dell’esempio dei grandi, l’esercizio della misura nello scrivere, etc.
Scrisse quattro commedie educative, che raccolse in Nuovo teatrino in versi martelliani ad uso dei giovinetti, con dedica al figlio Luigino, uscito presso Sansoni nel 1889.
Nella riflessione linguistica di questi anni trova ragione la composizione di quei versi in vernacolo toscano, segno di un interesse per la lingua del popolo, ora assurta a statuto di lingua poetica, che furono vergati con lo pseudonimo di Beppe di Banchi sul Ponte di Pisa, giornale locale che principiò le sue uscite nel 1893.
Una vena narrativa, già osservata nel poema Il minatore, percorre Le novelle in versi, in sestine, edite da Le Monnier nel 1894: l’arguzia di alcune, che proseguivano la tradizione quattro-cinquecentesca (un esempio è la beffa di Pasqualino il fornaio), faceva da trait d’union fra queste e gli epigrammi alla fine del volumetto, alcuni dei quali adattavano Catullo e Marziale.
Ritrovò la lingua di uso quotidiano nelle poesie di Giuseppe Giusti, di cui curò una ricca antologia che uscì nel 1902 per Le Monnier.
Il 25 giugno 1903 divenne socio dell’Accademia della Crusca.
Nel 1909 pubblicò un florilegio di passi evangelici ancora per Le Monnier. Il latino della Vulgata, su cui si fondava la traduzione dei brani scelti, era indicato come lingua degli umili: l’equivalente di quella d’uso quotidiano che aveva osservato, mutatis mutandis, in Machiavelli prima e in Manzoni e Giusti poi.
Raccolta di letture e scritti pronunciati ed editi nel tempo, i suoi Saggi danteschi uscirono nel 1911 per la casa tipografico-editrice Lapi di Città di Castello. Alcuni risalivano a molti anni prima, come La donna nella Vita Nuova di Dante e nel Canzoniere del Petrarca, originariamente letto presso il Circolo Filologico di Pisa il 15 marzo 1874. Il volume, che riproponeva Dell’unità della lingua in Italia, conteneva anche un saggio su Dante e le lingue semitiche, che discuteva l’opuscolo di Charles H. Schier, Ciel et enfer (1866).
Morì a Marina di Pisa il 1° ottobre 1913.
Fonti e bibl.: A. De Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, 1880, II, ad vocem; I. Carvaglio, In memoria di G.P., Marina di Massa 1913; G. Mazzoni, Rapporto alla R. Accademia della Crusca, Firenze 1914.