PEZZA ROSSA, Giuseppe.
– Nacque a Formigosa, nei pressi di Mantova, il 10 luglio 1811 da Angelo e Maria Pedretti.
Dopo aver seguito la sua vocazione religiosa ed essere stato ordinato sacerdote, il 4 aprile 1835 divenne coadiutore nella chiesa mantovana di S. Maria della Carità. Socio corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere, ebbe cariche di primo piano nel seminario cittadino: dal 1° novembre 1835 al 1° giugno 1843 – anno in cui gli fu assegnata la parrocchia di Cittadella di Porto – fu professore di retorica e dal 1° novembre 1843 ricoprì per due anni, con un incarico temporaneo, la cattedra di eloquenza. Questo primo periodo di insegnamento fu, per Pezza Rossa, particolarmente fecondo sul piano della produzione storico-filosofica. Tra il 1837 ed il 1840 furono pubblicate, sulla Biblioteca italiana, alcune sue recensioni, nelle quali iniziava a delinearsi con chiarezza il suo itinerario filosofico.
Nel 1837 scrisse Sopra la sola confutazione possibile dello scetticismo esposta dall’Abate Antonio Rosmini Serbati (ibid., vol. 85, pp. 345-355), testo in cui criticò il tentativo rosminiano di dedurre un sistema dall’idea apriori di essere, tentativo al quale erano contrapposti un realismo empirista e un modello di ricerca filosofica quale costruzione in fieri, non dogmaticamente chiusa entro limiti prefissati, ma modellantesi sui processi conoscitivi. Nel 1838 dedicò una recensione all’opera di Baldassarre Poli, Elementi di filosofia teoretica e morale, edita a Padova l’anno precedente, in cui venivano attaccate le posizioni, di matrice tedesca, che concedevano troppo spazio al sovrasensibile, facendo leva su una gnoseologia empirista secondo cui vi era una sostanziale continuità fra sfera sensibile e intellettuale, e la conoscenza vera derivava dal dinamico apporto di entrambe (ibid., vol. 90, pp. 49-67). Nel 1839 e nel 1840 apparvero, infine, altre due recensioni, rispettivamente alla Filosofia della morale (ibid., vol. 96, pp. 292-315) e alla Filosofia della politica di Rosmini (ibid., vol. 100, pp. 337-375) nelle quali, ai precedenti attacchi in ambito gnoseologico, si affiancò la disapprovazione per la costante commistione tra fede e ragione e per l’eccessivo individualismo in campo socio-politico, considerato distruttivo del tessuto sociale e dimentico del reale senso dello Stato.
L’analisi serrata delle opere di filosofi a lui contemporanei condusse Pezza Rossa, progressivamente, all’elaborazione di un pensiero proprio: nel 1842 diede alle stampe la sua opera più nota e originale, dal titolo Lo spirito della filosofia italiana. Ragionamento. Pubblicato a Mantova senza imprimatur, questo testo conteneva posizioni radicali e racchiudeva gli esiti più originali della speculazione pezzarossana.
Obiettivo dello scritto era quello di mettere in luce come, nell’arco dei secoli, non vi fosse stato conflitto fra la Chiesa e il pensiero ‘moderno’, identificato dall’autore con quello scientifico-positivo; per dimostrare la validità di questa asserzione, Pezza Rossa ripercorse l’intera storia della filosofia, cercando di mostrare come la Chiesa avesse svolto una funzione positiva nel corso dello sviluppo del pensiero occidentale, anche attraverso le iniziative di pontefici particolarmente ‘illuminati’, quali papa Urbano VIII, che favorì la scarcerazione di Tommaso Campanella. Nella ricostruzione del lungo tragitto che dalla Grecia antica aveva condotto all’epoca a lui contemporanea emersero le tesi di fondo che animavano il Ragionamento: secondo Pezza Rossa era la metodologia scientifica, fondata sulla continua interazione di esperienza sensibile ed elaborazione intellettuale, ad assumere, nel corso della storia della filosofia, un ruolo centrale; al contrario, dovevano essere evitati i due estremi dell’apriorismo e del materialismo. A queste considerazioni, che costituivano l’intelaiatura teorica dell’opera, si affiancò la nazionalistica rivendicazione dell’‘italianità’ degli aspetti più validi emersi nel corso della storia del pensiero: ne derivava un quadro in cui il primato nell’articolazione del metodo scientifico-positivo veniva negato a filosofi come Bacone o Cartesio, mentre era fatto addirittura risalire alle scuole pitagoriche della Magna Grecia. Perfino per quanto concerneva il ruolo svolto dal dubbio nella fondazione metodologica, tradizionalmente legato alla figura di Cartesio, Pezza Rossa trovò un antecedente italiano, nella filosofia di Giordano Bruno, disapprovato per il suo radicalismo, ma ritenuto un perfetto rappresentante della filosofia ‘italiana’. L’insistenza sul valore dell’esperienza, nucleo centrale dello scritto, conduceva poi l’autore a una totale svalutazione del ruolo svolto dalla Scolastica, condannata per il suo dogmatismo e per quell’esiziale commistione di filosofia e teologia, che era stato merito di un mantovano, Pietro Pomponazzi, aver posto definitivamente in discussione. Malgrado l’appiattimento concettuale cui erano sottoposte le categorie del pensiero ‘moderno’ nel tentativo di ricercarne le radici fin nell’antichità, derivante soprattutto dallo scarso apprezzamento da parte di Pezza Rossa per il valore dell’esperimento e dell’importanza dell’introduzione del sapere matematico nello studio della natura, non mancavano nell’opera osservazioni a proposito di un’effettiva discontinuità introdotta dalla modernità, dovuta alla maggiore diffusione di una visione del mondo fondata sull’esperienza: mentre nell’età moderna vi era infatti, secondo l’autore, una larga adesione al metodo positivo, esso nell’antichità era stato una dottrina fortemente elitaria.
A quest’opera seguì, nel 1845, un altro scritto di grande rilievo nella produzione pezzarossana, elaborato forse per tentare di ‘limare’ alcune posizioni troppo ardite contenute nel precedente: Saggi di filosofia cristiana sulle tracce dei SS. Padri e Dottori della Chiesa, anch’esso pubblicato a Mantova.
Il pensiero dei Padri e dei dottori della Chisea veniva inquadrato nelle medesime griglie concettuali operanti nello Spirito della filosofia italiana: a essere considerati esempio di una filosofia autenticamente cristiana erano coloro che avevano anteposto la praxis alla vita contemplativa, sostenendo la necessità della filosofia e della scienza per lo sviluppo dell’umanità e non un vuoto primato della teologia e promuovendo un pensiero fondamentalmente ‘eclettico’, basato su una gnoseologia che conferisse il giusto rilievo all’apporto offerto dalla sensibilità.
Questi saggi, lungi dal porre Pezza Rossa in una luce più favorevole, furono mandati in esame alla congregazione dell’Indice, della quale in quel momento era prefetto il cardinale Angelo Mai. Spinto anche dal fatto che il ricavato della vendita dell’opera sarebbe stato devoluto in beneficienza agli Asili infantili di Mantova, don Enrico Tazzoli, segretario della direzione degli Asili e intimo amico di Pezza Rossa, decise di intervenire in sua difesa, indirizzando due lunghe lettere all’abate Pietro Matranga, segretario del cardinale Mai, e presentando un esposto in cui venivano demolite le accuse che erano state rivolte ad alcuni punti precisi del testo. L’intervento di Tazzoli non ebbe però l’esito sperato e alla condanna dell'opera da parte della S. Sede seguì la decisione di sospendere dall’insegnamento Pezza Rossa, che nel biennio 1845-1847 svolse la mansione di bibliotecario del seminario. Solo dopo aver sconfessato le tesi precedentemente sostenute, dunque, egli poté tornare a dedicarsi all’insegnamento, ottenendo le cattedre di eloquenza sacra e archeologia. Forse proprio a causa del duro scontro con la congregazione dell’Indice a proposito delle sue posizioni filosofiche, risoltosi in modo a lui sfavorevole, in quel periodo Pezza Rossa si dedicò a due testi di carattere schiettamente storico: il saggio Se i Romani vinti dai Longobardi conservassero la propria legge, ispirato al manzoniano Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia del 1822, che apparve nel 1846 con una dedica a Tazzoli (Giornale dell'I.R. Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti e Bibllioteca italiana compilata da varj dotti nazionali e stranieri, vol. 13, parte II, pp. 328-346) e la Storia cronologica dei vescovi mantovani, pubblicata l’anno successivo a Mantova per i tipi dei fratelli Negretti.
Affiorava, in particolare dal saggio, come la ricostruzione storica costituisse per Pezza Rossa un punto di osservazione privilegiato dal quale guardare al presente: l’oppressione longobarda richiamava in filigrana quella austriaca e veniva sottolineato a più riprese come, nonostante nel corso della sua storia avesse dovuto subire il susseguirsi di dominazioni differenti, l’Italia avesse sempre mantenuto una propria identità culturale, superiore a quella degli oppressori.
Erano pagine che vibravano di desiderio di riscatto e lasciavano trasparire l’ardente amor patrio di Pezza Rossa, destinato a confluire nel suo coinvolgimento in prima persona nei moti risorgimentali mantovani, nell’ambito dei quali svolse un ruolo di spicco, testimoniato da un episodio di notevole importanza: quando, il 2 novembre 1850, i patrioti si riunirono nello studio dell’ingegner Attilio Mori in via Chiassi 6, la presidenza del comitato d’insurrezione, poi assunta da Tazzoli, fu in un primo momento proposta proprio a Pezza Rossa. Animato da un cattolicesimo liberale e progressista, che univa alla volontà di rendere l’Italia indipendente dal dominio austriaco dopo secoli di oppressione da parte di potenze straniere, il desiderio di migliorare, moralmente e materialmente, le condizioni dei ceti poveri, Pezza Rossa partecipò nel 1850 alla congiura di Belfiore, dopo il fallimento della quale fu processato dalle autorità austriache per alto tradimento e condannato, nel 1852, a nove mesi di carcerazione, terminati i quali gli fu negata la possibilità di tornare a insegnare, e fu relegato dapprima come prevosto a Cizzolo e poi, dal 1867, in qualità di parroco a Casalmoro. Ciononostante, Pezza Rossa, pervaso da un profondo spirito pedagogico e amante dell’insegnamento, riuscì a continuare a frequentare il seminario, grazie all’interessamento del vescovo Giovanni Corti, che gli dette l’opportunità, dal 1859, di istruire privatamente alcuni giovani studenti.
Nel periodo immediatamente postunitario, Pezza Rossa svolse un ruolo di rilievo nella costruzione della memoria risorgimentale e in particolare nella celebrazione del tentativo cospirativo-insurrezionale progettato dai patrioti mantovani nei primi anni Cinquanta. Nel 1862 parlò in ricordo del principale evento della seconda guerra di indipendenza (Nel terzo anniversario della battaglia di Solferino. Parole dette del proposto G. P. R. lette a Solferino il 24 giugno 1862, Guastalla 1862); nel 1867 tenne la commemorazione, nel duomo di Mantova, dei ‘martiri di Belfiore’, tra i quali spiccava il fraterno amico Tazzoli, e il 20 dicembre 1868 pronunciò a Casalmoro l’elogio funebre del vescovo Corti, sottolineando la fondamentale attività di mediazione da lui svolta durante i processi contro i congiurati. La cerimonia commemorativa del 1867 fu organizzata dal vescovo Luigi Martini e da Roberto Ardigò, a quel tempo canonico della cattedrale, a testimonianza del legame di quest’ultimo con Pezza Rossa, destinato a dare i suoi frutti più fecondi, a livello di elaborazione teorica, nel Discorso su Pietro Pomponazzi pronunciato da Ardigò nel 1869, nel quale, rielaborato in forme originali, affiorò l’insegnamento del più anziano professore mantovano.
Giuseppe Pezza Rossa morì a Casalmoro il 31 luglio 1875, all’età di sessantaquattro anni.
Il suo magistero non fu dimenticato e svolse un ruolo centrale nel lungo percorso che ha condotto dall’empirismo settecentesco al positivismo ottocentesco e, parallelamente, alla formazione di un immaginario politico e culturale nazionale.
Fonti e Bibl.: Mantova, Archivio storico comunale, Fondo Anagrafe antica, Rubriche ruolo di popolazione, anno 1811; Ibid., Archivio storico diocesano, Fondo Curia vescovile, Registro del clero, a. 1868 e sgg., vol. II, c. 138; Ibid., Archivio di Stato, Legato Luzio, b. 16, f. 28. Inoltre: A. Agazzi, Enrico Tazzoli e il clero cattolico del Lombardo-Veneto, in Bergomum, XLVIII (1954), 1, pp. 25-47; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 77-82; G. Landucci, La formazione di Roberto Ardigò, in Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria, XXXVII (1972), pp. 70-79; Id., La crisi del clero mantovano e la conversione di Roberto Ardigò, in Rivista di storia e letteratura religiosa, XX (1980), 1, pp. 20-62; A.G. Pecorari, Radici culturali ed orientamenti teologico-ecclesiali nel clero mantovano nel secolo XIX, in Mons. Luigi Martini e il suo tempo (1803-1877). Convegno di studi nel centenario della morte, a cura di L. Bosio - G. Manzoli, Mantova 1980, pp. 57-115; A. Jori, Scienza e metodo sperimentale tra antico e moderno. Pitagora, Pomponazzi e Cartesio nelle valutazioni di G. P. R. e di R. Ardigò, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore, a cura di C. Montepaone, III, Napoli 1991, pp. 149-207; Id., Un critico ‘simpatetico’ di Antonio Rosmini. G. P. R. e la filosofia dell’esperienza, in Atti dell’Accademia roveretana degli Agiati, s. 7, 1995, vol. 5, pp. 167-211; M. Bertolotti, Le complicazioni della vita. Storie del Risorgimento, Milano 1998, pp. 108, 126-129, 132, 135, 165, 219, 222 s.; G. Ciaramelli - C. Guerra, Tipografi, editori e librai mantovani dell'Ottocento, Milano 2005, pp.103 s., 135, 155, 184; Nell'officina della «Biblioteca Italiana». Materiali per la storia della cultura nell'età della Restaurazione, a cura di F. Della Peruta, Milano 2006, pp. 140, 144 s., 157 s., 162, 174, 176, 214 s., 218-220.