CIRILLO, Giuseppe Pasquale
Nacque nel 1709 a Grumo Nevano, un borgo a metà strada fra Napoli ed Aversa. Conterraneo di Nicola Capasso, trovò in quel dotto letterato non soltanto colui che seppe aiutarlo a, formarsi una solida preparazione umanistica, ma il protettore influente che lo inserì subito sia nella buona società napoletana sia nel Pubblico Studio. Vico, il suo secondo maestro, non era in grado di offrirgli altrettanta varietà ed efficacia di appoggi; ma ebbe su di lui un'influenza evidente, riconosciuta e duratura.
Che questi due insegnamenti abbiano potuto coesistere è già di per sé un dato da rilevare. Sfortunatamente quella convergenza si verificò sulle note basse, piuttosto che sulle alte, dell'ampia gamma di cui il magistero vichiano disponeva; riguardò, insomma, piuttosto gli atteggiamenti esteriori, della militanza culturale, che quelli interni, seri e difficili, delle scelte etiche e speculative. Infatti, Vico e Capasso da un lato rafforzarono nel loro giovane allievo la propensione verso gli studi classici, che rimase sempre un punto di forza della sua personalità di letterato; ma, dall'altro, gli suggerirono verso la società del suo tempo un atteggiamento - quanto meno - troppo passivo, di rispetto, di totale giustificazione e, inversamente, lo indussero verso la nascente cultura illuministica ad un'insofferenza tale, da costituire a sua volta un dato costante della sua posizione politica.
È da dire che, se al C. non mancarono valide protezioni, l'ingegno straordinariamente precoce di cui fu dotato offri buoni appigli a chi si mostrò disponibile ad esaltarne e premiarne le doti. A vent'anni si laureò in utroque iure e subito ottenne una cattedra di diritto canonico, la disciplina insegnata fino al 1717 dal suo maestro. E quando, nel 1730, questi si ammalò, il Collaterale preferì ad altri docenti, che chiedevano di sostituirlo sulla prestigiosa cattedra primaria di ius civile, il C., nonostante fosse giovanissimo e -come fu notato dal segretario del Regno - già lettore ordinario di altra materia (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale, Notam., vol. 144, c. 342). Ma già ai primi di novembre del 1732, quando di solito si apriva l'anno accademico, egli iniziava l'insegnamento di Istituzioni civili.
Nella prolusione ufficiale a questo corso - poi, nello stesso anno, edita a Napoli da F. C. Mosca - il IC. fece pubblica dichiarazione della sua posizione scientifica aderendo pienamente al metodo dei giuristi umanisti "culti": non solo egli postulava la necessità di una stretta "coniunctio" dello iuscivile "cum literis humanioribus", ma ribadiva che sarebbe stato inutile "ad Romanas leges accedere" senza di essa.
Una straordinaria, naturale eloquenza fu la dote che concordemente gli riconobbero i contemporanei, e fra di essi Genovesi, Galanti, Pilati, ossia critici non certo indulgenti. Quel dono il C. seppe porre a profitto durante tutta la sua vita, ancor prima di aver scoperto la sua vocazione forense; e certo, se fu precoce come docente, lo fu altrettanto come oratore di successo. Aveva poco più di vent'anni, nel 1730, dopo la morte di G. Argento, quando gli fu affidato un compito importante in una sede ambita: commemorare la personalità del defunto nell'accademia che si teneva in casa del letterato e duca Annibale Marchese. E anche quest'orazione fu pubblicata dal Mosca.
Nel 1733 il C. fu accolto nell'Accademia degli Oziosi, e subito vi tenne due dissertazioni, la prima di argomento storico-giuridico (sul divieto di nozze fra fratelli), la seconda su di un tema storico-letterario (l'uso delle maschere negli spettacoli del mondo antico). Già un anno dopo, divenuto segretario e magna pars del sodalizio, pubblicava su di esso e dedicava a P. M. Doria un Brieve ragguaglio (Napoli 1734), in cui inseriva una lettera che il 30 ag. 1733 Vico gli aveva scritto per comunicargli. alcuni rispettosissimi rilievi e varie acute precisazioni sull'uso delle maschere nell'antichità. È da notare da un lato che il C. dimostrava verso la personalità del filosofo un'ammirazione tutt'altro che universalmente condivisa nella sua cittàdall'altro che l'autore dei Principî di una scienza nuova interveniva nei lavori dell'Accademia da erudito, tutt'al più da storico: la mente teoretica del gruppo era P. M. Doria, o quanto meno era lui a segnarne l'indirizzo, grazie ai suoi interventi duramente polemici e alla sua duplice veste di letterato di spicco e di nobil signore. Prevalentemente in casa sua, come scrisse il C., gli Oziosi si riunivano.
L'appartenenza all'Accademia degli Oziosi quafifica, l'esperienza culturale del Cirillo. Già nell'aggettivo che, fin dal 1611, lo indicava, il sodalizio si poneva in posizione diametralmente opposta all'Accademia delle scienze che nel 1732Celestino Galiani aveva fondato a Napoli, con la collaborazione di B. Intieri e di Nicola Cirillo. Attivissima e tutta proiettata verso la prassi, quest'ultima intendeva promuovere gli studi di storia naturale., più che di storia umana, le conoscenze uti li per la, vita, più che le opinioni degli uomini d'altri tempi, come allora si disse, riecheggiando proposizioni già illuministiche. E tanto i seguaci di Galiani erano impegnati a recepire gli orientamenti della cultura transalpina, quanto gli Oziosi ne diffidavano.
Di qual tipo fosse l'impegno filosofico dell'Accademia a cui il C. si era iscritto è rivelato da una sua Lettera filosofica ad incerto autore, ma diretta senza dubbio a P. M. Doria, che fu pubblicata solo nel 1823. insieme con altri suoi Opuscula varii argumenti (Neapoli). L'analisi tagliente, diretta a scomporre le forme stesse della conoscenza, l'assioma che "del niente non possiamo avere idea" (p. 183)rivelano un'ispirazione sostanzialmente cartesia'na; ma la tensione critica cresceva . ormai su se stessa, si risolveva in una elaborazione puramente logica, via via sempre più rarefatta, e distaccata da ogni verifica. Nella lettera del C., così come nei Discorsi critici filosofici del Doria, è presente il Cartesio della Méditation troisième, in cui è la logica che prova l'esistenza di Dio, e la speculazione si soddisfa e placa nel postulare l'origine divina delle idee. Anche il pensiero di Vico era partito di lì, com'è testimoniato dalla sua prima orazione inaugurale. Ma giustamente (e da tempo) Vico, poi (e di recente) lo stesso Doria avevano compreso essere, ormai, un errore definire come "cartesiano" quel modo di far filosofia. Sviluppando coerentemente altre premesse poste dal filosofo di La Haye, si erano formate in vari centr della cultura europea ed erano anche a Napoli particolarmente agguerrite alcune correnti scientifiche che rifiutavano drasticamente di impegnarsi nella soluzione dei problemi primi, postulavano una conoscenza soltanto fenomenica, e la volevano aperta ad ogni tipo di sperimentazione, e perciò problematica e provvisoria. Cartesio appariva ancora, fra i "moderni filosofanti", il patriarca: ma, in quegli anni, specialmente a Newton e a Locke s'ispiravano coloro che assegnavano al pensiero il compito di elaborare una valida metodologia delle scienze al servizio della prassi.Certo, per altro verso, pratiche e non speculative erano le propensioni del Cirillo. Si può aggiungere che il tipo di teoresi coltivata nell'Accademia degli oziosi e condivisa dal giovane suo segretario non era tale da porgli particolari problenú nei confronti della società del suo tempo, ne da contrastare la vocazione fortissima ch'egli aveva sempre manifestato d'inserirsi pienamente e subito negli ambienti più autorevoli ed esclusivi della.capitale. Nella primavera del 1734, al momento della crisi dinastica, quando l'esercito, borbonico non era entrato ancora nella città di Napoli, già il C. aveva individuato in Bernardo Tanucci l'uomo di cultura umanistica, il letterato della corte che avrebbe potuto apprezzare il suo talento e sulla cui protezione sarebbe stato opportuno puntare. È lo stesso C. a dichiararlo nella sua dedica al segretario di Giustizia (premessa Ad lib. III Institutionum civilium commentarius, Neapoli 1737) quando accenna al primo incontro che ebbe con Tanucci ad Aversa, in occasione di una, delle sue innumerevoli allocuzioni solenni. Ed infatti, in seguito, anche gli altri tre Commentarii furono dedicati allo stesso autorevole personaggio, per cui il C. poté scrivere di essersi a lui del tutto "addictus", e di esser stato "in fideni receptus" (dedica Ad lib. I, ibid. 1740). Nel 1735 un "avviso" inedito indica il C. come l'oratore ufficiale per I' "apertura dei Regi Studi". Lo stesso incarico ebbe nel 1737, mentre nell'agosto del 1738 la sua facondia fu chiamata a celebrare le nozze del re Carlo di Borbone con Maria Amalia di Sassonia.
Intanto non mancavano frutti pieno appariscenti, ma più sostanziosi, anche se non originalissimi, della sua attività di letterato e di docente: i quattro tomi del Commentarius perpetuus alle Istituzioni di Giustiniano, pubblicati a Napoli, in quest'ordine: al terzo libro nel' 1737, al quarto l'anno seguente, al primo nel 1740 e al secondo nel 1742. Nella prima, in ordine di tempo, delle dediche a Tanucci il C. dà, atto a monsignor Celestino Galiani, il cappellano maggiore del Regno, di averlo incoraggiato alla redazione e pubblicazione dell'opera; e nelle note alla Brevis Romani iuris historia, a tutto il Commentarius premessa, indica Vico come "praeceptor meus" (nota A) e poi come "acutissimus" (nota K) e cita il De uno ed i Principîdiuna scienza nuova rispettivamente come "divinum" ed "immortale opus".
In appendice ai Commentarii del 1737 e del 1738 compaiono già delle brevi aggiunte riguardanti lo Ius Regni Neopolitani, primo segno del suo interesse verso un campo di studi che era dei tutto trascurato dai giuristi colti e che divenne in seguito, e meritevolmente, fra i suoi preferiti. Quando, .nel luglio del 1732, Galiani aveva proposto l'istituzione di un insegnamento di diritto patrio nell'università, gli fu risposto da parte del Collaterale che "difficilmente" si sarebbe potuto "riempire con soddisfazione la cattedra di jus regni, affatto ignorato da tali professori, e saputo solamente da que' che versano nel foro" (Brindisi, Bibl. De Leo, ms. B-48: N. Fraggianni, Notam. del Collat., t. XVI, f. 41). A conferma di tale connessione, nel C. l'interesse verso il diritto patrio preluse alla svolta che si verificò nella sua vita alla metà del secolo, quando - come scrisse Galanti - "dalla cattedra passò al foro". Intanto essendo Galiani riuscito, nel 1735, a far istituire Flinsegnamento nell'uniVersità di Napoli, tre anni dopo esso fu affidato al Cirillo. La sua carriera accademica, tuttavia, subi una brusca battuta d'arresto nel 1739, quando partecipò al concorso per la cattedra di Pandette - che godeva di un più sostanzioso stipendio - e lo perse (nonostante l'appoggio dell'arcivescovo Spinelli) ignominiosamente, ottenendo un solo voto su venti. Di ciò egli si lagnò in una lettera al cappellano maggiore, piena di amarezza e di accuse verso l'università, a suo dire ormai chiusa ai, veri e puri cultori degli studi umanistici ed antiquari (Napoli, Soc. nap. di storia patria, ms. XXX.C.6, 19 sett. 1739, f. 353).
Intanto, fra la fine del 1739 e la metà del 1740. gli ambienti giuridici ed editoriali napoletani furono pervasi da un improvviso interesse per il riordinamento della legislazione, fino a configurare vari progetti, diretti non solo alla consolidadazione delle regie prammatiche - ossia ad una ristampa unitaria e sistematicamente ordinata - ma alla realizzazione di un.vero e proprio codice. Lo straordinario fervore d'iniziative si spiega perfettamente: uno statista colto, abile, intraprendente, attivissimo, J. J. de Montealegre, aveva saldamente in pugno il governo ed era al culmine del suo potere; il segretario di Giustizia, B. Tanucci. cercava di non esser da meno. Grazie ai due ministri, la cultura napoletana riuscì in quegli anni a svolgere un attivo ruolo di governo, condizione per essa rarissima, e che si rivelò di breve durata.
Sarebbe stato assurdo che il titolare della cattedra di iusRegni siconsiderasse estraneo all'inipresa di riordinare il materiale legislativo su cui si fondavano quella disciplina e quell'insegnamento. Inoltre il clima di ottimismo, e di rinnovamento contagiò il giovane ziocente, anche se le sue idee più intime non erano inclini a nessuna forma di radicalismo. Certo il suo nome compare in tutte le iniziative, anche in quelle prese dal supremo magistrato del Commercio, ossia negli ambienti - che non gli erano affatto congeniali - dei giuristi economisti e giurisdizionali, orientati verso la cultura francese ed inglese.
M. Schipa ritenne fosse stato un grave errore da parte di Tanucci aver affidato al C. il compito di redigere il nuovo codice. Ma un documento successivamente rinvenuto dimostra che fu proprio del cattedratico la prima idea, e che perciò il segretario di Giustizia dette a lui "l'incombenza di formar il proggettato nuovo Codice, con la sovrintendenza di una Giunta", come scrisse G. Borgia (Aiello, Arcana iuris, p. 99). Un documento inedito conferma ora quell'attribuzione di merito: in una lettera a B. Corsini del 15 luglio 1741, N. Fraggianni indica nel C. colui che formò "il piano... dì un corpo di leggi che deve fare publica auttorità" (Roma, Bibl. Corsiniana, Cors. 2492 bis, fasc. 2). Del resto, A. Genovesi, in un Dialogo sulle Decrètali pubblicato da G. M. Monti nel 1926fa porre al C. il seguente interrogativo: come mai voi "ancorché Guelfa, siete il segretario della Giunta del Codice?". La risposta chiarisce i motivi della scelta: "Ma chi v'era che il potesse essere? O io, o nessuno".
Le perplessità dello Schipa - e, prima che sue, dello Sclopis - erano, d'altra parte, fondate. Il C. rivelò subito come potesse essere, ai fini della codificazione, dannosa la sua passione antiquaria: incominciò a stendere in latino il testo del codice, e solo a partire dall'inizio del libro sesto, quando la giunta glielo impose, si decise ad aggiungervi la traduzione italiana. Sarebbe, tuttavia, dei tutto ingiusto far derivare il fallimento dell'iniziativa dall'errata scelta di colui che, come segretario della giunta, ne fu il maggior responsabile e, di fatto, promotore ed autore. La volontà politica che avrebbe dovuto sorreggere il tentativo si spense subito dopo il primo impulso. In una lettera ad Elisabelta Farnese, datata 3 ott: 1741, Carlo di Borbone, per difendersi dall'accusa di voler "supprimer les loix anciennes du Royaume", dichiarò di non voler far altro che porre "en bon ordre" le prammatiche, così come più volte era avvenuto in passato. Chiusosi, con la guerra di successione austriaca e con la peste di Messina (1743)' il momento favorevole alle riforme, l'obiettivo della codificazione apparve ancora più lontano. In seguito lo stesso Tanucci espresse più volte la sua profonda sfiducia nella possibilità di realizzare un nuovo codice. Ciò nonostante la giunta chegli aveva fatto nominare a questo scopo, e che più volte aveva rinnovato, pose, a stampa, dopo circa un ventennio, in poche copie per suo uso interno, una prima redazione del codice (Napoli, Bibl. naz., S. Q. XXIV, G.7) e poi proseguì stancamente per vari decenni i suoi lavori, giustificati da una assai vaga speranza di utilizzazione futura.
Essa venne nel 1789, quando Elia Serrao pubblicò a Napoli, col titolo Codicis legum Neppolitanarwn, in due volumi e come opera privata il codice, che era stato rinvenuto fra le carte del C., e vi aggiunse anche un'ampia Praefatio, le note di aggiornamento e di commento, e la traduzione che mancava nella prima parte. La compilazione, modellata su quella di Giustiniano e sulle costituzioni piemontesi, è divisa in dodici libri e si presenta parzialmente aggiornata rispetto alla nuova legislazione almeno fino al 1750, sia pure con molte lacune. Il materiale normativo è tratto dalle fonti più varie - innanzi tutto le costituzioni sveve, le prammatiche, i dispacci e le regie lettere, poi le consuetudini, i capitoli angioini, le grazie e privilegi, i riti, la prassi forense -, è esposto in buon ordine e in forma sintetica, rivela un lavoro intenso da parte del C. e della giunta, e dà un quadro del diritto napoletano, se non certo completo, utile e di notevole ampiezza, con rinvii alla disciplina romanistica, esplicitamente per alcuni istituti (ad esempio, per la successione testamentaria: II, p. 96), implicitamente e cumulativamente per altri (I, p. 27).
Nel 1743 il C. pubblicava a Napoli Osservazioni... sul trattato "Dei difetti della giurisprudenza" di L, A. Muratori, uno scritto polemico che precedeva di un anno e nella stessa direzione la ben più succosa Difesa della giurisprudenza di F. Rapolla. Nell'invito muratoriano a riordinare e quindi a formulare ex novo la legislazione, il C. vedeva il riflesso di una presunzione intellettuale, la pretesa di voler costruire razionalmente dal nulla Pordinaniento' giuridico, la negazione del rapporto organico fra passato e presente, in definitiva il discredito della storia quale fonte primaria della conoscenza. In una concezione della società in cui le strutture fondamentali apparivano sostanzialmente immutabili, sottoposte a cicli che non ne alteravano l'intima sostanza, la storia diveniva uno strumento maieutico indispensabile a chi volesse far emergere quegli eterni contenuti.
È stato osservato che "quella critica, da sola, designava il suo autore men che tutti capace all'opera del nuovo Codice" (Schipa, Il Muratori, p. 64). Ma gli altri giuristi napoletani - ed anche G. A. Di Gennaro, indicato come colui che avrebbe saputo far meglio, e che del resto avrebbe potuto, essendo nella giunta del codice - condivideyano pienamente quelle idee e di certo non si sarebbero comportati in modo diverso. La conservazione delle antiche leggi e la necessità d'interpretarle molto liberamente significavano per i giuristi la possibilità concreta di mediare i contrasti politici, comportavano il possesso di una posizione forte nello scontro fra i ceti ed i centri del potere: nobiltà, clero, monarchia, popolo. L'assolutismo illuminato - a cui guardava Muratori -, per poter esser tale, presupponeva una luce che nel 1743, a Napoli, subiva una lunga eclissi, dopo la fiammata iniziale. Il riemergere delle forze sociali più legate alla tradizione era ormai reso inevitabile dalla crisi finanziaria, dalla bigotteria invadente della regina, dalla debolezza del re, dalla fragilità del partito riformatore.
Nel 1745 il C. concluse con le sue Institutiones canonicae (Neapoli) - un volume non privo di pregi dedicato anchesso a B. Tanucci - la serie delle sue pubblicazioni collegate all'insegnamento universitario. Esso tuttavia conseguì, dopo di allora, altri importanti progressi: nel 1747 il C. passò alla cattedra di Iuscivile, nel 1750 chiese ed ottenne di poter insegnare anche, gratuitamente e per la prima volta nell'università di Napoli, "ius pubblico, ossia diritto della natura e delle genti"; verso la metà degli anni Cinquanta ottenne la cattedra più ambita e più dotata del Pubblico Studio, la vespertina delle Pandette.
Ma intanto, dal 1752, si era verificata nell'attività del C. la svolta a cui si è accennato: egli aveva intrapreso l'attività forgnse che assorbì via via gran parte delle sue energie. Contemporaneamente, e per gli stessi motivi, la dedizione che aveva sempre dimostrato a B. Tanucci cominciò a subire forti scosse: certo questi ebbe seri motivi di porla in dubbio e ripetutamente nelle sue lettere, indirizzate, dopo, il 1759, a Carlo III, se ne lagnò. Divenuto avvocato della città, ossia, sostanzialmente, della nobiltà di "seggio", il C. si trovò nella necessità di scontrarsi con l'autorevole ministro di Carlo e poi di Ferdinando di Borbone. Gli ultimi decenni di vita del C. sono caratterizzati dal suo rapporto con la nobiltà e con il foro, palestra della sua celebrata eloquenza. Divenne così uno dei campioni più attivi, convinti, ma anche brillanti ed ascoltati della cultura guelfa, antiquaria, tradizionalistica, antilluministica. Ed appunto ad impersonare questa funzione Genovesi lo pose nel Dialoghi già ricordati e ne tratteggiò la fisionomia con notazioni assai felici, spesso ironiche e che ne danno una immagine viva, anche se non sempre lu, singhiera. Ma il filosofo fu ripagato con la stessa moneta: Galanti, che del C. fu amico, riferisce di quanto egli fosse ostile al Genovesi, e da parte sua conclude: "Era un grande uomo, ma senza filosofia, era gran giureconsulto, ma senza scienza politica".
Il C. morì a Napoli il 20 apr. 1776, un anno dopo aver compiuto un viaggio a Roma, dove riscosse gran credito e successo presso Pio VI ed in quella società letteraria.
Opere: All'elenco pubblicato da L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, I, Napoli 1787, pp. 257-259, sono da aggiungere gli Opuscula varii argumenti, poëmata item varia, pubbl. a cura di F. Leggio, Neapoli 1823 (dove sono raccolti numerosi scritti minori sia italiani che latini) e molti inediti: quattro codici su dote, adozione e successione possiede la Bibl. naz. di Napoli (ms. I. H. 56-59), oltre a una commedia, Gliimpostori (XV. F. 29) e un Discorso recitato nell'Accademia [di C. De Alteriis] a 27 marzo 1735 (XV. D. 24: notevoli i giudizi di ammirazione nei confronti di Doria e di Vico a c. 40). Altre opere giuridiche sono nella Bibl. De Leo di Brindisi: Institutiones canonicae (ms. H/10) e il trattato De iure fisci, non privo di pregi, riguardante il diritto giustinianeo, ma con notazioni sullo ius regni ms. H/15); e nella Bibl. della Società napoletana di storia patria (ms. XXX. D. 13, cc. 111-208).
Fonti E Bibl.: Le attestazioni sulla eloquenza dei C. sono in A. Genovesi, Vita di A. Genovesi, in P. Zambelli, La Prima autobiogr. di A. Genovesi, in Riv. stor. ital., LXXXIII (1971), pp. 657 s.; in G. M. Galantì, Della descriz. geogr. e polit. delle Sicilie, a cura di F. Assante-D. Demarco, Napoli 1969, p. 257; ed in C. A. Pilati, Voyages en differens pays de l'Europe, in Illuministi italiani, III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a cura di Venturi, Milano-Napoli 1958, p. 635. La notizia sulla prolus. univers. del 1735 è in Bibl. naz. di Napoli, ms. XVI.B.17, "avviso" in data 15 novembre. Sul codice carolino, R. Aiello, Legislazione e, crisi del diritto comune: il tentativo carolino, ora con nuovi documenti in Arcanaluris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976, pp. 27-108. I due Dialoghi di Genovesi sono in G. M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento: A. Genovese e G. M. Galanti, Firenze 1926, pp. 103-126 (le frasi citate sono a p. 111). Per le perplessità di M. Schipa. Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napolì 1904, pp. 601-606 e 772. Per quelle di F. Sclopis, Storia della legislazione ital., III, Torino 1863, p. 458. Entrambi, e quanti da essi derivano, son tratti in errore sulla data d'inizio del tentativo di codificazione da E. Serrao, Praefatio al Codex legum Neapolitanarum del C., Neapoli 1789- ibid., p. XXIV, e I, p. 2 e II, p. 71, le notizie sulla traduzione. Sulla polemica con Muratori, M. Schipa, Il Muratori e la coltura napol. del suo tempo, Napoli 1902, pp. 60-65; ma specie C. Pecorella, Studi sul Settecento giuridico, I, L. A. Muratori e i difetti della giurispr., Milano 1964, pp. 172 s., 182 s.; R. Aiello, cit., pp. 218 s. e passim;R. De Maio, Muratori e il Regno di Napoli. Amicizie, fortuna e polemiche, in Riv. stor. ital., LXXXV (1973), pp. 769-772. Sulla crisi del riformismo napoletano alla metà degli anni quaranta del Settecento, R. Aiello, La vita Polit. napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 642-702. Sulla richiesta d'insegnare il diritto naturale, oltre al documento citato da Ajello, Arcana luris, p. 48, vedi Arch. di Stato, di Napoli, Cappellania Maggiorei Diversi, 1155, dove sono anche altre notizie sulla carriera univers. del Cirillo. Per i suoi rapporti con Tanucci dopo il 1759, Lettere di B. Tanucci a Carlo III (1759-1776), regesti a cura di R. Mincuzzi, Roma 1969, ad Indicem. I giudizi del Galanti, dalle sue Memorie, in Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 951, 990 s. La biografia di gran lunga più utile è in L. Giustiniani, Memorie istor. d. scritt. legali d. Regno di. Napoli, I, Napoli 1787, pp. 253-260, che conobbe personalm. il Cirillo. Qualche altra notizia da parte di contemp. in G. B. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini, V, VII-VIII, Bari 1929, 1940-1941, ad Indicem;F. De Fortis, Governo polit. del giureconsulto, Napoli 1755, p. 16; G. C. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1754, II, pp. 271 s.; F. Galiani, Del dialetto napoletano, a cura di F. Nicolini, Napoli 1923, pp. 205 s.; G. M. Galanti, Testamento forense, Venezia 1806, I, pp. 19-21. Le biografie ottocentesche sono sostanzialmente modellate sul Giustiniani: così G. Terracina, Biogr. degli uomini illustri del Regno di Napoli, Napoli 1818, V, ad nomen;e D. Vaccolini, in E. De Tipaldo, Biogr. degli Italiani illustri, IV, Venezia 1832, p. 326. Delle opere più recenti, oltre alle già citate, contengono notazioni utili: F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969; R. De Maio. Società e vita relig. a Napoli nell'età moderna (1656-1799), Napoli 1971; P. Zambelli, La formazione filosofica di A. Genovesi, Napoli 1972, ai cui indici dei nomi si rinvia.