CORVAIA, Giuseppe Nicola
Nato a Calascibetta (Enna) il 12 febbr. 1785 da don Matteo Gesualdo primo barone di Buonriposo e da donna Carmela Romano (Calascibetta, Chiesa Madre, Registro dei battezzati, ad annum), aveva cominciato nel 1810 l'attività politica inserendosi in quel vasto movimento capeggiato dagli aristocratici siciliani che avrebbe portato alla costituzione del 1812. Nel gennaio del 1819 sposava Carmela Rivolone, da Castrogiovanni (oggi Enna), dalla quale ebbe nel 1820 e nel 1821 due figli, Fortunato e Irene. Nel 1820 si affiliò alla carboneria: nell'ottobre del 1821 partecipava ad una riunione della setta svoltasi in una grotta presso la montagna di S. Ciro. Coinvolto nella congiura ordita da Salvatore Meccio, fu processato da una corte marziale e condannato il 29 genn. 1822 a dieci anni di carcere (Labate, pp. 169-191). Rinchiuso nella quinta casa penale di Palermo (Arch. di Stato di Palermo, Segreteria di Stato, Dipartimento di Polizia, busta n. 19, f. 1128), ottenne il 29 nov. 1824 la grazia sovrana e si trasferì il mese successivo a Napoli ove si dedicò al commercio dei vini (La Bancocrazia..., II, Milano 1841, p. 249).
Nell'ottobre del 1832 promoveva la costituzione di una Compagnia enologica industriale per il miglioramento e la commercializzazione dei vini, approvata con real rescritto del 21 marzo 1833. Ma dopo appena due anni la società, a causa anche dei dissidi sorti tra i soci e il C. che ne era il direttore, entrò in crisi, e nell'agosto del 1835 ne venne deliberato lo scioglimento. Dopo vani tentativi di ritardarne il fallimento, il C., nell'aprile 1837, lasciò Napoli alla volta di Parigi ove riuscì a far stampare, nel giugno dello stesso anno, la sua prima opera Le nouveau monde, projet financier pour arriver à une compléte réforme sociale, in cui tracciava le grandi linee della sua teoria di riforma sociale. La notizia, riportata dal Caddeo (p. 342) di una collaborazione del C. al giornale L'Italiano, per certe discordanze di date lascia qualche dubbio. Ignorato dalla stampa e dai circoli finanziari parigini, cercò un impiego presso il giornale L'Europe industrielle, di cui divenne redattore. Nell'ottobre del 1837 diede vita a La Rossinienne, una società per azioni che aveva per scopo la diffusione della musica e del bel canto; per meglio lanciare la sua iniziativa non esitò perfino a fondare un omonimo giornale, che sosteneva anche i vantaggi dell'associazionismo, di cui uscirono, tra l'ottobre del '37 e il gennaio del 1838, cinque numeri.
Trasferitosi nel successivo mese di febbraio a Torino onde propagandarvi la società, il C. fu bene accolto dalla stampa locale, ma suscitò i sospetti del governo piemontese che ne dispose l'allontanamento. Si spostò allora a Milano dove iniziò, nel giugno dello stesso anno, un'attiva collaborazione agli Annali di statistica del Lampato. Dopo un primo periodo piuttosto difficile, riuscì a riscuotere la fiducia di un gruppo di proprietari terrieri lombardi insieme ai quali fondò una ditta commerciale sotto il nome di Ditta enologica lombarda. Nello stesso periodo di tempo il C. stringeva amicizia col prof. Michele Parma, figura di secondo piano della cultura milanese, che diventerà il suo apostolo. Col Parma, nel dicembre del 1838, lanciò dalle colonne degli Annali di statistica la proposta di realizzare un Dizionario tecnologico della lingua italiana e si adoperò attivamente per coinvolgere nell'iniziativa, senza peraltro riuscirvi, uomini come il Ricasoli e il Vieusseux.
Col Ricasoli il C. aveva del resto già iniziato un carteggio fin dal 1837 da Parigi nel tentativo di convincere il futuro "barone di ferro" ad accettare l'incarico di direttore di una istituenda succursale toscana di La Rossinienne, incarico che il Ricasoli rifiutò pur continuando a mantenere contatti epistolari, sia pur sempre più diradati col C. (Carteggi, I, pp. 115, 117, 120 ss., 154 s., 181 s., 251 ss., e IV, p. 153).
Più serrati furono i rapporti epistolari tra il C. e il Vieusseux il quale si adoperò, tra l'altro, sia pure con esito poco felice, affinché le teorie bancocratiche venissero discusse dal Congresso degli scienziati italiani di Firenze (Pitocco, pp. 223-234 e 239-242).
Profittando dei buoni rapporti esistenti tra il Parma e gli ambienti culturali ed editoriali milanesi, il C. riuscì, nell'estate del 1840, a coronare il sogno di vedere riunite in una sorta di "Bibbia" le sparse trame della sua teoria di riforma sociale, dando alle stampe, per i tipi dell'editore milanese Andrea Ubicini, il primo volume dell'opera La Bancocrazia o il Gran libro sociale, novello sistema finanziario che mira a basare i governi su tutti gl'interessi positivi dei governati. Il secondo volume del libro uscì l'anno dopo. L'opera fu bene accolta dalla stampa lombardo-veneta ed ebbe perfino l'onore di una traduzione in tedesco. Sull'onda del successo ottenuto il C. si illuse che la pratica applicazione degli ideali bancocratici fosse ormai a portata di mano e, coltivando questa illusione, si recò nell'agosto 1840 a Zara per fondarvi una Società enologica dalmata che, secondo i suoi disegni, "sarebbe stata una miniatura di un sistema bancocratico" (G. Corvaja, Lettera agli Italiani, Capolago 1841, p. 23). Ma i suoi sforzi non ebbero successo per la larvata opposizione del governo imperiale che avocò a sé ogni decisione liquidando in pratica l'iniziativa. Nel dicembre del 1840 faceva pertanto ritorno a Milano, trovandovi però un'atmosfera completamente diversa, se non ostile, certamente indifferente ai suoi progetti di riforma sociale. Di qui la decisione di ritentare l'avventura parigina.
Lasciò Milano nei primi di aprile del 1841. Il viaggio alla volta della capitale francese fu però intervallato da una sosta in Svizzera, dove il 10 aprile stipulava un contratto con il direttore della Tipografia elvetica di Capolago per la stampa di tredici opuscoletti di argomento bancocratico (Caddeo, pp. 397 s.), che uscirono infatti nel corso dello stesso anno. Arrivato a Parigi, iniziò una frenetica attività di propaganda bancocratica. Fu tutto un susseguirsi di lettere, di progetti, di contatti con esponenti del mondo della politica, della finanza e della diplomazia, che non fruttarono peraltro i risultati sperati. Scrisse infatti inutilmente a Federico Guglielmo IV di Prussia, al ministro delle Finanze francese J. Humann, al ministro delle Finanze del Regno delle Due Sicilie F. Ferri, al capo del gabinetto inglese Robert Peel, ecc. Deluso, si trasferì l'anno appresso (1842) a Marsiglia, dove tentò di diffondere il verbo bancocratico dalle colonne del giornale Le Crédit. Sulloscorcio del 1842, conscio del fallimento della sua avventura francese, meditò di tornare in patria e si rivolse a tal proposito a Ferdinando II, vantandosi di essere in grado di fare importanti rivelazioni. La notizia impressionò il re che ne dispose il rientro a spese della polizia (Arch. di Stato di Napoli, Gabinetto di Polizia, 545, II, in Cingari, pp. 108 s.).
Sbarcato a Napoli nell'aprile del 1843, il C. riprese la sua propaganda bancocratica appoggiandosi all'avv. Giacinto Galanti, sua vecchia conoscenza dei tempi dell'Enologica che, nelle more del suo arrivo, si era premurato di allestire un opuscolo Su la bancocrazia o Gran libro sociale. Ma alla stampa ed alla diffusione dell'operetta oppose un netto divieto il ministro di Polizia marchese F. S. Dei Carretto (Arch. di Stato di Napoli, Gabinetto di Polizia, 1586: in Cingari, p. 108). Anzi, nell'intento di troncare una propaganda che si considerava potenzialmente pericolosa, venne offerto al C., angustiato da persistenti ristrettezze economiche, un modesto sussidio mensile a patto che lasciasse Napoli. Questi accettò, ma tento in tutti i modi di rinviare la partenza; soltanto il 9 genn. 1845 si decise a lasciare Napoli alla volta di Malta, giungendovi il 12 (ibid., 545, II: in Cingari, p. 111).
A Malta la sua posizione si rivelò subito difficile, osteggiato com'era sia dagli esuli liberali, che sospettavano in lui una spia del Borbone data la sua condizione di "regio sussidiato", sia dal console napoletano Giuseppe Ramirez che ne controllava ogni atto. In un primo momento la sua attività si limitò a una modesta collaborazione pubblicistica ai giornali locali. Ma non era pensabile che egli desistesse dalla propaganda bancocratica, ai cui fini, già nel successivo mese di marzo, predispose la pubblicazione di un vero e proprio "catechismo" dal titolo La Bancocrazia o il governo matematico delle cifre sostituito a quello monopolistico delle opinioni. Primo catechismo dedicato al popolo maltese (Malta 1845), cui seguì La Bancocrazia o il governo matematico economico morale per azioni. Catechismo dedicato a S.M.B. ed al popolo maltese (inserito negli Annali Universali della Bancocrazia Sovrana, pp. 27-41, Malta 1845).
Nel maggio del 1845 il C. si inseriva nel dibattito tra gesuiti e protestanti sulla opportunità di fondare un collegio gesuitico nell'isola, con un suo Progetto d'un convitto cosmopolita in Malta e, nel successivo mese di giugno, lanciò un nuovo giornale, Il Vero Gesuita, cui fece seguito, l'anno seguente, L'Anno di grazia 1846 (Cingari, pp. 126 ss.). Partecipe degli entusiasmi che aveva suscitato nel giugno 1846 l'elezione di Pio IX, stampava nel settembre successivo un nuovo giornale, La Lega cattolica, per mezzo del quale cercò di attirare su di sé e sulle sue teorie l'interesse degli ambienti cattolici e dello stesso pontefice. Nel gennaio del 1847 anzi, traendo spunto dal progetto di lega doganale italiana patrocinato dallo stesso pontefice, inviò a Pio IX un suo Manuale economico-politico-religioso per mettere in azione il Santo Vangelo per mezzo di una lega industriale italo-mondiale. L'opuscolo pare che venisse letto dal papa, il quale fece ringraziare l'autore dal governatore Gaspare Grassellini con lettera del 27 febbraio 1847 (Caracciolo, pp. 613 ss.). Tanto bastò per riaccendere le speranze del C. che, per meglio diffondere i suoi nuovi progetti, non esitò a lanciare un altro giornale dal titolo significativo Il Pensiero di Pio IX tradotto in azione. Grande fu dunque la sua delusione quando il governo pontificio, preoccupato dall'interpretazione palesemente errata attribuita dal C. ad un puro atto di cortesia, gli ritirò ogni appoggio dando anzi disposizioni alla censura affinché fosse impedita la pubblicazione del Manuale all'interno degli Stati pontifici (Caracciolo, p. 614).
Lo scoppio della rivoluzione siciliana del '48 offrì al C. l'occasione per lasciare Malta alla volta della Sicilia. Ma il tentativo, operato sullo scorcio del mese di febbraio 1848, di sbarcare prima a Siracusa e poi a Catania venne frustrato dagli esuli liberali, rientrati nel frattempo in patria, che lo consideravano una spia della polizia borbonica (Cingari, p. 137). Amareggiato per l'ingiusto trattamento subito, sulla base oltre tutto di un semplice sospetto destituito a quanto pare di ogni fondamento, decise di proseguire per Napoli. L'atmosfera di relativa libertà, conseguente alla costituzione giurata da Ferdinando II il 24 febbr. 1848, lo incoraggiò a ricominciare la propaganda in favore di una Lega doganale mondiale, nonché a riprendere la pubblicazione del giornale Il Pensiero di Pio IX tradotto in azione, di cui poté far uscire altri sette numeri tra il marzo e l'aprile dello stesso anno. La sua intensa attività propagandistica culminò nella pubblicazione di un manifesto di associazione al suo Manuale economico-politico-religioso, che fece affiggere il 5 maggio in vari punti di Napoli; l'iniziativa però non riscosse alcun successo, anche per l'opposizione dei gruppi liberali che guardavano con sospetto ad ogni mossa del C. (Caracciolo, p. 613; Cingari, p. 137).
Preso di mira dai liberali che lo ricordavano soprattutto come il "regio sussidiato" ed avversato dagli stessi borbonici, il C. si trovò ingiustamente (e a suo dire paradossalmente) coinvolto nei moti scoppiati il 15 maggio 1848 nel corso dei quali fu arrestato "come uno de' barricatori" (Arch. di Stato di Napoli, Carte di polizia, 118: Paladino, p. 551). Riottenuta la libertà, decise di rientrare definitivamente in Sicilia. Raggiunta Palermo nella estate del '48, riprese l'attività giornalistica stampando, a partire dal 14 settembre, il periodico La Carta moneta, che andò avanti stentatamente per sette numeri per cessare definitivamente le pubblicazioni il 22 ott. 1848. Contemporaneamente si introduceva negli ambienti del locale Circolo popolare, collaborando tra l'altro al giornale del sodalizio che annoverava tra i redattori gli esponenti di maggior spicco delle correnti democratiche (Berti, pp. 319 s.). Uscito dal Circolo popolare nel febbraio del 1849 per insanabili divergenze con i democratici più accesi, il C. pubblicò, dall'aprile al giugno, ventitrè numeri de La Legge, un nuovo foglio con cui tentò di operare un cauto riavvicinamento nei confronti del governo borbonico e soprattutto del generale Filangieri principe di Satriano, che occupando il 15 maggio Palermo aveva posto fine al governo costituzionale. Risale al luglio 1849 la compilazione di un nuovo opuscolo, La ricognizione del debito pubblico e la costituzione del credito pubblico, con cui cercò di attirare su di sé l'attenzione del Filangieri. Nell'intento anzi di meglio accreditarsi agli occhi del governo borbonico come esperto finanziere, fece uscire, nel secondo semestre 1849, La Sicilia industriale, un ennesimo giornale che, almeno in un primo tempo, fu visto con occhio benevolo dalle autorità (Cantimori, p. 205). Ma, giunto all'ottava dispensa, il giornale venne soppresso con sovrano rescritto, forse perché la polizia si rese conto che le idee propagandate dal C. potevano, sia pure indirettamente, suscitare discussioni e dibattiti in qualche modo pericolosi (G. Corvaia, La Bancocrazia o il Gran Libro Sociale dell'umanità, primo catechismo popolare ad uso dei millennari, Torino 1853, p. 27).
Il 1851 ed il 1852 furono per il C. anni oscuri, anche se non cessò mai di illudersi circa l'imminente trionfo delle sue idee. Il suo maggiore impegno in questo periodo consistette nella messa a punto di un altro Manuale (un aggiornamento, a quanto pare peraltro, del vecchio testo preparato a Malta nel 1847 per Pio IX e mai pubblicato) dedicato questa volta a Napoleone III (lettera del C. al fratello Pietro Paolo del 15 genn. 1852, inedita). Verso la metà del 1851, ossessionato ormai dall'idea di dare alle stampe il suo Manuale mentre le autorità borboniche si ostinavano a vietarne la pubblicazione, concepì l'idea di trasferirsi a Torino dove la libertà di stampa, vigente negli Stati sardi, gli avrebbe potuto consentire di realizzare i suoi progetti. Partito da Palermo assieme alla figlia Irene sul finire di giugno, sbarcò a Genova il 3 luglio, e proseguì per Torino lo stesso giorno. Quivi si affrettò a far stampare La Lega industriale-universale ossia la panacea generale, Torino 1853, una sorta di pamphlet, già preparato a Palermo, che doveva servire da testo illustrativo del suo ormai famoso Manuale, il quale fu dato finalmente alle stampe nell'agosto 1853.
Contemporaneamente si adoperò per gettare le basi della Società dei millennari, una istituzione scientifico-industriale sotto forma di società per azioni, la quale avrebbe dovuto avere lo scopo di divulgare e realizzare le teorie del C., viste ora però in una diversa prospettiva, caratterizzata da forti tinteggiature religiose e non priva di suggestioni apocalittiche. Per il lancio della Società il C. scrisse un apposito "catechismo" (La Bancocrazia sovrana o il gran libro sociale dell'umanità. Primo Catechismo ad uso dei millennari, Torino 1853, vedi sopra) e ne accompagnò i primi passi con una pubblicazione periodica, gli Annali della Società dei millennari. Ma Torino decisamente non portava fortuna al C. che si trovò inspiegabilmente coinvolto nella dimostrazione anticavourriana del 18 ott. 1853. Arrestato il giorno successivo ed espulso immediatamente dal Piemonte, essendogli stato interdetto dal governo napoletano il ritorno in patria, scelse Malta come sua residenza d'esilio. Venne quindi accompagnato a Genova dove rimase fino al 20 novembre quando poté imbarcarsi assieme alla figlia sulla nave di linea diretta in Oriente (Cingari, pp. 142 s.).
Giunto a Malta cercò di procurarsi appoggi e consensi negli ambienti degli esuli siciliani che aveva già in gran parte conosciuto e frequentato a Palermo. Avvicinò così l'ex presidente Ruggiero Settimo, che ne riferiva in una lettera diretta al duchino della Verdura sottolineando come il barone continuasse ad annoiarlo con le sue idee di riforma sociale più di quanto non fosse già solito fare a Palermo, e conobbe pure il giovane Crispi, anch'egli espulso dal Piemonte ed emigrato in Malta fin dal marzo 1853 (De Maria). Nel maggio del 1854 licenziò alle stampe la sua ultima fatica, La Pace ossia l'impero delle cifre sostituito all'impero degli uomini, Catechismo popolare dedicato al popolo Inglese, Malta 1854, un cui esemplare inviò in omaggio anche al Crispi che l'accolse bene, ed anzi volle ospitare qualche articolo del C. sul giornale La Staffetta, da lui diretto (De Maria).
I due si ritrovarono a Londra nei primi mesi del 1855. Il C. spinse la sua generosità nei confronti del Crispi, che versava in disagiatissime condizioni economiche, fino a condividere con lui l'appartamento sito in Alfred Street, Bedford Square n. 14, e ad offrirgli il posto di suo segretario particolare con un compenso di 100 franchi al mese (Arch. centrale dello Stato, Carte Crispi, fasc. 14, sottofasc. I, doc. n. 1). A quanto ci riferisce lo stesso Crispi negli appunti di quel periodo, il C. si era recato a Londra nella speranza di potervi fondare un secondo "Millennio" dopo il fallimento dell'analoga iniziativa piemontese. A tal fine anzi cercò disperatamente di coinvolgere nell'operazione l'altro ben più famoso "millennario", l'inglese Robert Owen, il quale aveva già fondato in America ed in Scozia alcune colonie ispirate a principi socialisti, e in Londra presiedeva un'associazione a sfondo socialistico con la quale il C. sperava di avviare uno stretto rapporto di collaborazione nella speranza di potersene servire per il rilancio delle sue idee (De Maria). Crispi ci documenta ampiamente i rapporti tra i due "millennari": dal mancato incontro del 31 maggio 1855 al gelido colloquio del successivo 21 giugno, in cui Owen, con garbata freddezza, dichiarò apertamente al C. che i loro due "millenni" non avevano alcun punto in comune (Arch. centrale dello Stato, Carte Crispi, fasc. 14, sottofasc. II, doc. n. 1). In un primo tempo il C. si illuse ancora di poter riguadagnare ai suoi progetti il suo illustre collega inglese, ma già nel mese di settembre ogni residua speranza doveva essere svanita se riteneva opportuno tornare a rivolgersi, tramite un'ignota eccellenza, a Ferdinando II pregandolo "di richiamarlo ai piedi del suo trono" (ibid., fasc. 14, sottofasc. III, doc. n. 1).
Gli ultimi anni di vita del C. sono poco conosciuti. C'è da dubitare che si sia recato a Berlino "dove quel buon sovrano si mostra favorevole alla fondazione pratica del Millennio promessoci da Gesù Cristo", come egli accenna nella chiusa della lettera diretta alla personalità napoletana che avrebbe dovuto fargli da tramite con Ferdinando II. Sappiamo invece che nei primi d'agosto del 1857, da Londra egli si trasferì in Belgio da dove continuò a bersagliare Crispi con nuovi progetti per la creazione di una banca "mutua" (De Maria).
Espulso anche dal Belgio, nel febbraio del 1859 tornò per una terza volta a Malta dove diede alla luce il suo ultimo giornale L'Archimede napoleonico subito scomunicato dalle autorità religiose dell'isola.
Amnistiato dal governo borbonico nel settembre dello stesso anno, salpò il giorno 24 alla volta di Palermo dove poté assistere ai grandiosi rivolgimenti conseguenti alla spedizione garibaldina, in cui svolse una parte centrale il suo vecchio amico Crispi.
Ma il C. era ormai vecchio e stanco e non resse al peso di tante fatiche, all'amarezza di tante delusioni e forse anche alla emozione di così importanti avvenimenti che segnavano la fine del mondo in cui egli era vissuto. Si spense il 12 dic. 1860, all'età di 76 anni, in una modesta casa del quartiere della Albergheria, solo e da tutti dimenticato. Le spoglie, dopo le modeste esequie ricevute nella chiesa mandamentale di S. Nicolò dei Tartari (Registro dei morti, ad annum), vennero inumate nella Chiesa del convento di S. Maria del Gesù.
Il C. va collocato in quel quadro culturale della fine '700 e della prima metà '800 nel quale prendono maggior corpo in Italia le correnti di minoranza, genericamente definite "utopistiche", sostenitrici delle istanze di riforma sociale già sviluppate nel secolo XVIII, la cui caratteristica comune un po' a tutte sta nella critica dell'ordinamento economico basato sulla proprietà privata, e nella costruzione intellettualistica, tra il fantasioso e il razionale, di una società nuova della quale vengono proposti modelli diversi. Dalla Francia, che ne fu la culla principale, queste dottrine scesero pure in Italia, ove assunsero anche una fisionomia mistica e si strutturarono in senso religioso, intendendo la religione come religione naturale e non rivelata, e come servizio e missione la propagazione dell'utopia, cioè della "verità autentica", nella certezza che la conoscenza di essa avrebbe indotto le genti ad accettarla e a realizzare le attese millenaristiche di un "buono stato" di giustizia e di affrancamento dalla servitù risalenti all'alto Medioevo. Con queste dottrine e con questa milizia, di cui alla fine del '700 furono protagonisti uomini come l'abate Tocci, Enrico Michele L'Aurora, Vincenzio Russo, Filippo Buonarroti e tanti altri, il C. sta però in un rapporto ambiguo, dato che nel suo pensiero e nella sua azione non è facile tracciare un confine preciso tra la sincerità delle convinzioni, la dedizione alla "causa", e la strumentalizzazione di queste alla praticità del proprio interesse individuale per il raggiungimento di fini che con l'utopia sociale ben poco avevano da vedere. Dalla lettura delle sue opere e da quanto si sa del suo comportamento politico, la sua figura risulta quantomeno atipica, né è possibile catalogarla con certezza. Persiste in lui la fedeltà all'antico regime. Le sue idee d'avanguardia sono soltanto un atteggiamento per distinguersi all'interno di un sistema senza alcuna volontà di contestarlo, oppure lo si può giudicare sincero sostenitore di una trasformazione socio-economica in favore dei non abbienti e degli oppressi? La scelta è difficile. Certo il "progetto" del C. si presenta al lettore come un caleidoscopio di intuizioni geniali, di anticipazioni futurologiche e di magniloquenti assurdità. Dietro di esse c'è una personalità che ha denunciato con coraggio l'egoismo della società privilegiata ed oligarchica, o c'è addirittura un provocatore che, sotto lo schermo del "discorso contro", ha aperto proprio in favore della società di cui si dichiara avversario? Allo stato attuale delle informazioni che abbiamo su di lui, non è possibile prendere partito per l'una o per l'altra valutazione, ma dal contesto di esse il C. sembra schierato più dalla parte dei riformatori che degli occulti difensori del passato; anche se la sua personalità bislacca, aperta agli interessi più contrastanti, ai desideri, alla cupidigia, a volte gli faceva prendere sconcertanti sbandate. Il progetto del C. consiste nella distinzione innanzi tutto del potere politico, che egli considera ancora valido - le sue opere sono dedicate al re di Napoli e al pontefice Pio IX -, dal potere economico, che egli considera il vero potere da negare e da sostituire con una proposta alternativa di organizzazione economico-finanziaria che definisce "bancocrazia".
L'idea della bancocrazia deriva dall'esperienza del C. in materia finanziaria e dalle riflessioni su di essa compiute insieme con Michele Parma (l'autore di un volume Del sansimonismo, pubblicato nel 1835 a Milano, in cui si faceva sostenitore delle idee del pensatore francese), dalle quali derivò i due volumi su La Bancocrazia. Il C. si pone il problema del passaggio dal monopolismo privato del capitale finanziario al monopolismo dello Stato. La soluzione, a suo parere, è data dall'istituzione di una "Gran Banca nazionale", il cui capitale avrebbe dovuto essere sottoscritto da ogni cittadino sia con il deposito di "beni economici", sia con la messa a disposizione della propria attitudine al lavoro e del proprio ingegno. Su entrambi questi tipi di deposito sarebbero stati corrisposti interessi, analogamente a quanto avviene tra banca e correntisti. Quest'istituto avrebbe avuto il diritto di battere moneta, ma solo per conto dello Stato. Il fine della "Gran Banca nazionale" sarebbe stato quello d'impedire il concentramento in mano di pochi della ricchezza e di attuarne la distribuzione tra un numero sempre maggiore di cittadini e la conseguente progressiva eliminazione con mezzi pacifici dell'usura e della miseria. Sarebbe stato di conseguenza abolito il diritto di vivere di rendita e la proprietà: pur rimanendo "sacra e inviolabile", quest'ultima si sarebbe praticamente dissolta nella "Comunanza della banca nazionale". Ciò avrebbe portato al "non senso" del liberalismo puro e, nello stesso tempo, - ecco il risvolto conservatore - l'avvento della bancocrazia avrebbe eliminato "gli attentati contro il sovrano": ogni cittadino, infatti, in quanto azionista della banca nazionale, sarebbe diventato conservatore.
Mentre nel sistema finanziario allora in atto le imposte versate allo Stato dai cittadini contribuivano alla formazione del credito, del quale però usufruiva soltanto il capitalismo bancario, divenuto uno Stato nello Stato, nel sistema bancocratico il credito sarebbe stato esteso a tutti. Questa grande riforma finanziaria sarebbe stata contemporaneamente una riforma politica in quanto gli azionisti della banca nazionale sarebbero divenuti elettori nel quadro di una struttura mista finanziaria ed istituzionale. Di qui lo "Stato bancocratico", militarmente imbattibile "perché solidale in tutte le sue parti e gestore diretto dell'educazione dei propri cittadini-azionisti, che avrebbe dato impulso ad un mondo nuovo, nel quale l'ingegno avrebbe avuto il primo posto, seguito dalle braccia, mentre il denaro sarebbe stato collocato in coda. Secondo il C. esso è esemplificabile nella pacifica società anglo-americana "la cui forza politica non deriva dalla democrazia, ma dalla associazione dei capitali". Dalla bancocratica fusione degli "interessi materiali e morali dei governanti con quelli dei governati" e dalla coscienza di ogni cittadino "che l'ordine pubblico è il primo elemento delle ricchezze individuali e della vita", deriverà la "pace perpetua" di estrazione illuministica e fourieriana. Altra realizzazione della bancocrazia - e qui il C. si inserisce nel filone nell'utopismo classico - sarebbe stato il ripristino della forma originaria della società, quella naturale, a struttura pastorale, successivamente disgregata dal commercio, dallo strumento di questo, la moneta, e dall'evoluzione-involuzione del commercio concorrenziale in monopolio. Con l'abolizione di esso si sarebbe ritornati certamente alla primitiva struttura solidale della società, che ora si sarebbe organizzata istituzionalmente in una monarchia illuminata, scevra di contrasti tra sovrano e popolo, tra ricco e povero, e socialmente in una "accomandita rothschildiana", caratterizzata dal superamento della proprietà fondiaria e dall'accumulazione capitalistica in un nuovo tipo di proprietà in cui sarebbero confluite le componenti dell'ingegno, del denaro e del lavoro. Conseguenza politica di questo nuovo assetto socio-economico sarebbe stata la "confederazione europea", nell'ambito della quale il governo bancocratico di ciascuno Stato confederato avrebbe garantito l'"ordine" e la "proprietà": si sarebbe ripresa così la strada battuta dal congresso di Vienna, "pietra fondamentale della vera riforma sociale", che aveva associato tra di essi i capitali contro le agitazioni rivoluzionarie, ma aveva commesso l'errore di escludere le classi popolari dalla proprietà; quest'errore aveva causato le agitazioni rivoluzionarie che si erano succedute dal 1815 in poi.
Queste le linee maestre de La Bancocrazia. Se ne può agevolmente dedurre l'eclettismo dell'autore che recepiva spunti sansimoniani e fourieriani, i secondi in misura maggiore dei primi. Dal Fourier, per esempio, è mutuato lo stile geometrizzante dell'opera principale del C., nel cui frontespizio è impressa la "piramide sociale bancocratica" che dal vertice unitario deriva misticamente una serie di quaranta numeri allineati su nove file sino a quaranta. Nel 1854, nell'opuscolo La paceossia l'impero... pone nella fila sottostante l'unità l'ordine dei ministri; seguono quello dei geni, degli artisti, degli scienziati, dei commercianti, dei manifattori, degli agricoltori. Nell'ultima fila è inscritto il motto "Quod est Populi, Populo" e la legenda "Risparmio - Lavoro [rappresentato da un contadino che guida un aratro] - Moralità". Il tutto è chiuso da tre collane concentriche e sormontato da una corona reale. Secondo il Cantimori però in lui mancava lo spirito missionario degli utopisti veri e prevaleva la "passione combinatoria", il gusto di fare progetti, di fondare istituzioni e società. In fondo nel C. non c'era il rivoluzionario, bensì il riformatore nel quadro della tradizione da adattare ai tempi.
M. Ganci
Fonti e Bibl.: Carteggi di B. Ricasoli, a cura di M. Nobili-S. Camerani, Bologna 1939, 1, pp. 115 ss., 120 ss., 154 s., 181 s., 251 ss.; IV, p. 153; V. Labate, Un decennio di carboneria in Sicilia (1821-1831), Roma-Milano 1904, pp. 169-191; G. Paladino, Il quindici maggio del 1848 in Napoli, Milano 1929, p. 551; R. Caddeo, Le edizioni di Capolago, Milano 1934, pp. 342, 397 s.; U. De Maria, Un siciliano che voleva redimere il mondo, in Il Giornale di Sicilia, 26 marzo 1942; D. Cantimori, Utopisti e riformatori ital., Firenze 1943, p. 205; A. Caracciolo, Il barone C. ed un suo progetto di "Manuale economico-politico-religioso", in Movimento operaio, V (1953), 4, pp. 613 ss.; G. Berti, Idemocratici e l'iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962, pp. 319 s.; G. Cingari, Problemi del Risorgimento meridionale, Messina-Firenze 1965, pp. 108 s., 111, 126 ss., 137, 142 s.; F. Pitocco, Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento. Il Sansimonismo nella cultura toscana, Bari 1972, pp. 223-34, 239-42.
M. Borghese-M. Ganci