MEZZANOTTE, Giuseppe
– Nacque a Chieti il 29 luglio 1855 da Antonio, avvocato, e da Elisabetta Rotondi, in una famiglia borghese tra le più in vista della città, ma destinata ad assistere impotente a un’irreversibile decadenza e alla conseguente alienazione dell’intero patrimonio.
Conseguì il diploma al liceo ginnasio G. Vico di Chieti nel 1875. La sua formazione umanistica si svolse sotto la guida di P. De Virgiliis, scrittore e poeta (di cui sposerà la figlia, Flora) noto per le traduzioni di testi romantici contemporanei e per aver fondato nel 1836 a Chieti il Giornale abruzzese di scienze, lettere e arti. Le prime letture del M. risentivano del gusto romantico del maestro, anche se, accanto a G.G. Byron e F. Schiller, a J.W. Goethe e A. de Musset, andava maturando l’interesse per i naturalisti francesi, É. Zola in testa, e per C. Dickens, lo scrittore che elesse a modello della sua narrativa. Durante l’adolescenza entrò in contatto con alcuni giovani artisti abruzzesi, fra i quali lo scultore C. Barbella e il pittore F.P. Michetti, che lo iniziarono all’arte dei colori, esperienza episodica ma significativa, sorta di iniziazione al culto della realtà dopo la «malsana contemplazione», come la definì, dell’arte accademica e romantica.
Di questa parentesi artistica, presto soppiantata da una vocazione alla scrittura, rimase tuttavia traccia nella predilezione per il disegno: il M. fu un bravo caricaturista, inclinazione congeniale al suo temperamento malinconico velato di garbato umorismo, all’acuta e mai freddamente fotografica osservazione della realtà. Sono anche le cifre del suo realismo, che si fonda in definitiva sul binomio, di ascendenza desanctisiana, fra reale e ideale, in sintonia non tanto con la poetica verista, quanto piuttosto con la scrittura dei contemporanei narratori napoletani: fra tutti S. Di Giacomo e M. Serao.
Fu infatti a Napoli, dove si stabilì nell’autunno del 1874 per studiare giurisprudenza, incapace di contrastare il desiderio del padre di destinarlo alla carriera avvocatizia, che il M. esordì come scrittore. La città, meta tradizionale dei giovani studenti del Sud, crocevia culturale in epoca postunitaria, assecondava in pieno il suo desiderio di sprovincializzarsi. Spesso disertando i corsi universitari, andava ad ascoltare le lezioni di F. De Sanctis, di B. Spaventa, di L. Settembrini, di V. Imbriani, di F. D’Ovidio, di M. Kerbaker. Le prime esperienze di narratore il M. le fece nell’ambito del giornalismo, collaborando a prestigiose testate, fra le quali il Corriere del mattino di M. Cafiero, la cui pagina letteraria, curata da F. Verdinois, fu – secondo il giudizio di B. Croce – «come la culla della nuova letteratura napoletana». In un’atmosfera di grande dinamismo intellettuale, accolto nel cenacolo di giovani scrittori (Di Giacomo, Serao, F. Russo, R. Bracco, N. Misasi, E. Scarfoglio), il M. pubblicò le prime prove narrative di un certo rilievo: la raccolta di novelle Meridiano Maridiana Meridiani e il romanzo Checchina Vetromile (Roma 1884), offerto in premio ai lettori del Capitan Fracassa. Alle spalle aveva un racconto storico di fattura tipicamente romantica, scritto a vent’anni (Domiziano e Lidia. Racconto dei tempi di Nerone, Chieti 1875) ed esili storie di ordinaria esistenza, per lo più ricordi di vita universitaria, i Bozzetti (Napoli 1876).
Tutto napoletano il primo romanzo, Checchina Vetromile. Napoletano il nome della protagonista, che tuttavia non è spia di un debito contratto con La virtù di Checchina della Serao, che – come è stato accertato – è posteriore; ma c’è affinità dei soggetti, presi dal mondo della piccola borghesia partenopea, osservata con partecipazione accorata. Il romanzo narra una storia molto semplice: Gaetano Pietraroia, impiegato al telegrafo, trovandosi tra due donne di temperamento opposto, non sa decidersi se scegliere l’una piuttosto che l’altra, finché la fragile Matilde muore consunta dal dolore e l’altera Checchina lo allontana con disprezzo. Nel recensire il libro, M. Serao chiarì: «nel nostro dolce egoismo di napoletani e nella mite ignoranza di giovanetti che non avevano ancora viaggiato, noi tutti pretendevamo che solo Napoli avesse ancora carattere individuale, profondo, tutto proprio, da poter fare il grande romanzo di costumi e di persone» (Capitan Fracassa, 4 luglio 1884).
Nel 1887 vide la luce a Napoli La tragedia di Senarica, romanzo accolto favorevolmente dalla critica. B. Croce ne apprezzò particolarmente le parti storiche e descrittive; F. Cameroni lo lesse come felice esito del programma di rivisitazione delle regioni d’Italia e delle loro letterature. Il romanzo è anche una conferma ulteriore di come, accanto al modello zoliano, prendesse consistenza nella narrativa italiana postunitaria un opposto paradigma di riferimento, quello rappresentato dallo scrittore inglese C. Dickens, quasi a correggere l’eccessiva smania di verità in nome di un ideale di tradizione manzoniana e d’impronta desanctisiana.
La tragedia di Senarica, reimpastando vissuti autobiografici, opportunamente mascherati dietro nomi e toponimi di finzione (Senarica adombra la città di Chieti), è uno dei pochi romanzi politici dell’Ottocento italiano. Scegliendo l’angolo visuale di una provincia meridionale, il M. ha disegnato con straordinaria esattezza storiografica la variegata geografia politica degli anni compresi fra la caduta del governo della Destra e il 1882: «la curiosa situazione politico-sociale del Mezzogiorno, dopo l’Unità scissa in due tronconi, tra nuovo liberalismo di destra e un borbonismo rispolverato di fattezze progressiste» (Oliva, p. 49). Vi accoglie all’interno la storia del difficile percorso di riscatto del protagonista, il giovane idealista ’Nanìa Pinti, la cui famiglia è ingiustamente privata dell’eredità del defunto zio Pellegrino a opera del più intraprendente zio Clementino e dei suoi figli manigoldi. Su questa vicenda familiare si innesta la dura lotta politica cittadina tra ’Nanìa e i parenti rivali fino a che, lottando contro la sua congenita accidia, infiammato dal dispetto contro i cugini, prepotenti usurpatori e politici imbroglioni, ’Nanìa riscatta in corte d’assise la sua esistenza di perseguitato, non senza dolorose ripercussioni.
Il successo del romanzo coincise con il malinconico rientro in Abruzzo, da cui il M. non si sarebbe più allontanato, se non sporadicamente, per il resto della vita. Nel frattempo, nel dicembre 1885, si era laureato in giurisprudenza e si era sposato (dal matrimonio nasceranno quattro figlie). I binari della sua esistenza, d’ora in poi, corrono paralleli: da una parte la partecipazione alla vita civile (fu per esempio ispettore onorario dei monumenti e degli scavi per il circondario di Chieti), la carriera di insegnante e poi direttore nella scuola tecnica Chiarini della città; dall’altra, l’attività letteraria vissuta all’ombra della «quiete senarichese» come egli stesso ebbe a dire con amarezza. Nel 1889 un editore cittadino pubblicò la silloge Novelle sette, miscela anche questa, come le sue prove migliori, di umorismo e malinconia. Sebbene a distanza, mantenne sempre vivi i contatti con gli amici napoletani (i più assidui corrispondenti furono Di Giacomo e Bracco) cui dedicò nel 1896 I tre amori ed altre allegre novelle (Chieti), raccolta corredata da un disegno di B. Cascella. Il romanzo La setta degli spettri (1893), scritto su richiesta di E. Scarfoglio e M. Serao per le appendici del Corriere di Napoli, nella sua veste di esperimento creativo di natura commerciale gli consentì paradossalmente di sperimentare una maggiore libertà di immaginazione.
La vicenda, ambientata negli anni Venti dell’Ottocento fra l’Abruzzo e le Puglie, durante il regno di Francesco I di Borbone, mescola una romanzesca storia d’amore (fra la bellissima Barbarella e un carismatico prelato pugliese) con la storia di una società segreta, la setta degli spettri, appunto, su cui l’autore si era ampiamente documentato. Pur fedele alla verità storica, il M. si è sbizzarrito nella trasfigurazione del reale, senza tralasciare gli ingredienti topici del feuilleton: l’avventura, le atmosfere drammatiche, le emozioni prorompenti, i colpi di scena a effetto.
Gli articoli del M., di politica, costume, letteratura, e una cospicua quantità di novelle – oggi raccolte – sono disseminati fra le colonne dei più importanti giornali dell’epoca, non solo napoletani e abruzzesi: il Capitan Fracassa, il Corriere dei piccoli, il Corriere del mattino, il Corriere di Napoli, Cronaca bizantina, la Domenica letteraria, Fantasio, Fortunio, La Gazzetta letteraria di Torino, La Grande Illustrazione, La Lettura, Il Mattino, Il Pungolo, Il Resto del carlino, La Tavola rotonda e altri ancora. Solo una parte della prosa giornalistica confluì nel volume Colonne di prosa edito a Casalbordino nel 1902, anno in cui il M. si cimentò in un simpatico esperimento creativo: La novella della cesta, rinvenuta e interpretata da Giuseppe Mezzanotte (Chieti).
Si tratta di una burla narrativa confezionata – con tanto di nota filologica e criteri di trascrizione – come ritrovamento di un manoscritto il cui autore viene identificato in un anonimo umanista napoletano influenzato dallo stile di Boccaccio e di Sacchetti. Tributo alla prosa di Boccaccio, di cui il M. accolse la vis comica, il divertissement è una sorta di rifacimento della novella decima della quinta giornata del Decameron, dove è presente il tema della beffa ordita, con la complicità di una cesta, ai danni di un marito «disadatto» ad appagare il desiderio di una giovane moglie.
Situazioni esilaranti, con punte di irresistibile umorismo, sono poi nei Racconti di Samuele Weller, raccolta rimasta allora inedita a cui il M. lavorò fra il 1905 e il 1910, ma che ideò già nei primi anni Novanta.
Le avventure del protagonista, che ha il nome – vero senhal – del noto personaggio del Circolo Pickwick, il lustrascarpe cresciuto sul ciottolato di Londra, sono incastonate in una cornice narrativa che ancora una volta rimanda al modello boccacciano. Dietro i racconti, molti spunti autobiografici, come dimostrano la professione di avvocato di Weller, la realistica geografia dei luoghi, l’invenzione delle storie sempre supportate da un’attenta osservazione della realtà, persino quando il M. si misura con il genere fantascientifico, che ispira una piccola sezione – due racconti – all’interno della raccolta.
Nei primi anni del nuovo secolo il M. cominciò a lavorare a un romanzo, rimasto allora inedito, La serrata di Pian d’Avenna. Il faticoso percorso di revisione e rimaneggiamento durò più di vent’anni, risalendo al 1904 la stesura dei primi capitoli e all’altezza del 1924 alcuni materiali relativi alla partecipazione, con esito sfortunato, al concorso Mondadori.
È costruito sulla falsariga del romanzo epistolare, ma più esattamente come aggregazione di materiali spuri (fra cui, pezzi di diario, telegrammi, un articolo di giornale), con al centro una storia di detection ambientata tra l’Abruzzo e l’Inghilterra. Lo sperimentalismo tematico del lavoro rappresenta il più sorprendente tentativo del M. di misurarsi con la modernità: il mondo della macchina, le rivolte operaie, il socialismo, l’invenzione del cinema. E mentre l’autore inventa un personaggio chiave, il cinematografista Sestilio Morescanti, che anticipa la figura di Serafino Gubbio di pirandelliana memoria, prende forma l’idea di una riduzione cinematografica del romanzo, col titolo La serrata di sangue, rimasta anche questa nel cassetto.
Le ultime prove narrative date alle stampe, L’Erede (1901), pubblicato in appendice sul Giornale di Chieti, e Il tessuto di finzioni (Torino 1909), concepiti al tramonto del vecchio secolo, quando oramai la temperie naturalista aveva fatto il suo corso, riflettono un senso di profonda amarezza esistenziale.
La Napoli raccontata nel Tessuto di finzioni non è più quella del giovanile Checchina Vetromile: si tratta di romanzi indiscutibilmente lontani perché lontana è la prospettiva da cui ora lo scrittore guarda il vissuto della giovinezza attraverso un nostalgico recupero memoriale e ampi spazi di scandaglio interiore. Il romanzo ha fatto rilevare venature decadenti, specie nell’ideazione della personalità del protagonista, che avrebbe qualcosa della sensibilità raffinata dell’eroe dannunziano del Piacere. Ciò malgrado, il M., pur conferendo al suo personaggio un’indole contraddittoria, in evidente anticipo – come ha ricordato A. Palermo – sul filone novecentesco aperto dallo sveviano «inetto», ha voluto che «il tessuto di finzioni» si sciogliesse, ricomponendosi in esito risolutivo, secondo lo schema della Tragedia di Senarica.
Negli ultimi anni della sua vita il M. prese l’abitudine di registrare quotidianamente su dei taccuini i fenomeni metereologici che osservava: la temperatura dell’aria, le direzioni dei venti, le piogge e finanche le scosse sismiche. L’interesse per la metereologia, da cui aveva tratto materia per tanti racconti, tra cui quelli fantastici e quelli «adriatici», fu anche una maniera singolare per legarsi alla sua terra, amata e odiata. Le ultime osservazioni del cielo attestano una scrittura tremolante: di lì a qualche giorno, il 12 luglio 1935, il M. morì a Chieti.
Fonti e Bibl.: I libri, i manoscritti, i carteggi e le carte private del M. sono conservati presso l’Archivio scrittori abruzzesi e meridionali (A.S.A.M.), che ha sede nel dipartimento di studi medievali e moderni dell’Università G. D’Annunzio di Chieti. Dopo il piccolo ma significativo spazio riservato al M. da B. Croce (G. M. - A. Lauria - N. Misasi - D. Ciampoli, in La letteratura della Nuova Italia, V, Bari 1954, pp. 173 s.) e la più dettagliata ma pur sempre lacunosa scheda compilata da L. Russo nel volume I narratori (Milano-Messina 1958, pp. 101-103), è negli anni Settanta che si registra una rinnovata attenzione critica per il M. con il volume di G. Oliva, G. M. e la Napoli dell’Ottocento tra giornalismo e letteratura, Bergamo 1976, cui segue l’edizione del romanzo La tragedia di Senarica, Bologna 1977 a cura di A. Palermo. Sulla scia di questo rinato interesse, la restituzione di due testi inediti, corredati di un apparato filologico che dà conto delle varianti d’autore presenti nei manoscritti: il romanzo La serrata di Pian d’Avenna, a cura di M. Cimini, Roma 1991 e I racconti di Samuele Weller, a cura di A. Di Nallo, Roma 1995. Della Serrata di Pian d’Avenna L. Murolo ha pubblicato la versione cinematografica (Il labirinto della «Serrata». G. M. tra letteratura e cinema, Chieti 1994). Gli aspetti linguistici della narrativa mezzanottiana sono oggetto di una trattazione specifica (Italiano letterario regionale. Il caso del verista chietino G. M.) di P. Trifone, all’interno del volume I verismi regionali, Catania 1996, pp. 365-378. L’intera opera narrativa è raccolta nei due volumi (Tutti i romanzi e Tutte le novelle) editi a Roma rispettivamente nel 1998 e nel 1999 a cura di A. Di Nallo. Cfr. inoltre Gente d’Abruzzo. Dizionario biografico, a cura di E. Di Carlo, VII, Castelli 2006, ad vocem e A. Di Nallo, Uno scrittore tra realtà, fantasia e umorismo: G. M., in M. Cimini et al., Moduli di letteratura regionale abruzzese, II, L’Ottocento, Lanciano 2008, pp. 171-238.
A. Di Nallo