MAZZINI, Giuseppe
– Nacque a Livorno il 7 apr. 1887 da Gioacchino e Teodora Bacci.
La famiglia paterna da più generazioni si dedicava alla coltivazione di alcuni terreni nell’entroterra livornese; il M. abbandonò la tradizione familiare, mostrando ben presto vivo interesse per le materie tecniche e la loro applicazione alle attività manifatturiere. Per assecondare questa vocazione il M. si trasferì a Torino, dove si iscrisse al Politecnico, conseguendo la laurea in ingegneria. Iniziò, quindi, il tirocinio professionale occupandosi per brevi periodi in alcune imprese locali appartenenti al settore metalmeccanico.
Nel periodo precedente la prima guerra mondiale, l’esperienza più lunga e significativa fu quella svolta presso le Industrie metallurgiche, un’azienda assorbita nel 1917 dalla FIAT che gli offrì l’opportunità di compiere numerosi viaggi di studio all’estero. Al termine del conflitto, al quale partecipò come ufficiale di complemento del genio, il M. si impiegò per alcuni mesi presso la SMIT prima di approdare, al termine del 1920, all’azienda cui avrebbe legato per oltre un quarantennio la sua attività manageriale, la Way Assauto.
La società era nata nel 1906 dall’unione delle imprese di L. Way e A. Assauto, da oltre cinquant’anni operanti nel settore della bulloneria. Trasferita la produzione nel moderno impianto di Asti nel 1908, durante la guerra l’azienda si era notevolmente ingrandita grazie alle commesse militari e nel 1918 era entrata nell’orbita del gruppo FIAT, iniziando la produzione di componenti e accessori per l’auto (freni, valvole, candele di accensione).
Quando cominciò il lavoro alla Way Assauto il M. era già noto fra gli imprenditori torinesi per l’attività svolta nelle file della locale associazione degli industriali: Aziende meccaniche metallurgiche associate (AMMA, vale a dire il raggruppamento delle imprese metalmeccaniche aderenti alla Lega industriale) di cui aveva fatto parte fin dalla costituzione, agli inizi del 1919, in rappresentanza della SMIT.
La sua convinta adesione ai valori dell’industrialismo e del liberalismo, associata a un notevole talento di negoziatore, ne fecero in breve tempo una figura di rilievo nell’associazione e un punto di riferimento nei rapporti con le combattive rappresentanze operaie del capoluogo piemontese. Cooptato nel consiglio direttivo dell’AMMA l’11 marzo 1920, pochi giorni dopo il M. dovette affrontare la difficile vertenza sorta negli stabilimenti meccanici locali e nota come «sciopero delle lancette». Nominato membro della delegazione incaricata di condurre le trattative, svolse brillantemente il suo compito stipulando con B. Buozzi, leader nazionale della Federazione italiana operai metallurgici (FIOM), un accordo che ridimensionava notevolmente le richieste iniziali delle commissioni interne.
Pochi mesi dopo il M. esordì a livello nazionale in occasione dell’aspro conflitto culminato con l’occupazione di numerosi stabilimenti del triangolo industriale.
Abile nel valutare le circostanze e i moventi reali dell’iniziativa operaia, il M. si schierò con G. Agnelli nel ritenere necessario accettare la mediazione di G. Giolitti sulla questione cruciale del controllo sindacale nelle aziende e accettò di far parte della commissione paritetica designata a elaborare un progetto compiuto sulla materia.
Il mancato raggiungimento dell’obiettivo, largamente previsto e tenacemente perseguito dai delegati industriali, contribuì a rafforzare il prestigio del M. all’interno dell’associazione e lo rese il candidato naturale alla successione di E. De Benedetti quando questi, agli inizi di ottobre, si dimise dalla presidenza della Lega industriale. Eletto all’unanimità nell’assemblea del 29 ott. 1920, il M. prese le redini di un’organizzazione che la battaglia appena conclusa aveva rinsaldato, rivelando al contempo i limiti della sua tradizionale (e in parte formale) neutralità politica. Le elezioni del 15 maggio 1921 furono l’occasione propizia per mettere a confronto i sostenitori dell’autonomia e i fautori – tra cui lo stesso M. e G. Olivetti – di un impegno politico diretto, concretizzato dall’inserimento di candidati industriali nelle liste del blocco liberale. Al prevalere della tesi «interventista» seguì la designazione del M. a candidato ufficiale della Lega, avvenuta nel corso di un’assemblea straordinaria (16 apr. 1921).
Eletto al Parlamento con largo suffragio il M. iniziò l’esperienza a Montecitorio, protrattasi ininterrottamente per ben quattro legislature, ottenendo la nomina a segretario del gruppo parlamentare liberaldemocratico, carica che mantenne fino a tutto il 1923. Nei confronti del movimento fascista la Lega aveva preso posizione subito dopo le elezioni e il M., intervenendo all’assemblea del 29 apr. 1921, sostenne che il fascismo andava inteso come una reazione spontanea all’estremismo di sinistra alla quale gli industriali, simpatie personali a parte, restavano assolutamente estranei. La prudenza dimostrata dalla Lega in questa circostanza si tramutò, dopo la marcia su Roma, in una presa di distanze tanto palese da indurre il M. a non rendere pubblico l’ordine del giorno che affermava la volontà dell’associazione di «attenersi in via assoluta all’osservanza della legalità e alla stretta osservanza dei concordati in vigore». Il richiamo al valore dei patti stipulati con la Confederazione generale del lavoro (CGdL) si intendeva ribadire il carattere sindacale, politicamente neutrale, della Lega, a disagio anche per le iniziative dei sindacati fascisti, pronti a raccogliere ogni rivendicazione per prevalere sulle organizzazioni socialiste. I difficili rapporti con i sindacati nazionali, poco rappresentativi ma dotati di forti appoggi politici, costituirono anche nei mesi seguenti una fonte di tensioni ricorrenti, mettendo a dura prova le capacità mediatrici del M., a sua volta personalmente combattuto tra i convincimenti mutuati dalla tradizione liberale e l’adesione alle pratiche del nuovo governo. Significativo fu il suo atteggiamento nelle settimane precedenti le elezioni del 1924 allorché, pur perorando la rinuncia alla «maschera dell’apoliticità» e il sostegno al governo, non poté evitare di criticarne i provvedimenti restrittivi sulle attività associative né impedire che alcuni soci si dichiarassero a favore della lista giolittiana. La situazione si ripresentò, in un contesto ben più drammatico, all’indomani del delitto Matteotti. Intervenendo a una riunione dell’Associazione liberale torinese, il M. chiese la liquidazione «dei delinquenti e dei violenti che si stringono attorno al governo» (con ciò negando una responsabilità diretta di quest’ultimo), ma la sua critica alle posizioni aventiniane gli valse, nel giugno 1925, l’espulsione dal Partito liberale, episodio che il M. ricostruì in un pamphlet molto critico nei confronti della sinistra del partito (Il condannato e i suoi giudici, Torino 1925).
In quelle settimane anche la situazione interna della Lega industriale sembrava entrata in una spirale negativa alla quale non erano estranee le diffidenze suscitate dalla svolta autoritaria impressa da Mussolini agli inizi dell’anno. Un grave motivo di disagio era tuttavia costituito dalla latente polemica che opponeva le piccole imprese ai gruppi di maggior peso, abitualmente accusati di influenzare eccessivamente le posizioni dell’associazione.
A questa situazione non furono estranee le dimissioni dalla Lega della FIAT (marzo 1925), seguita a breve distanza dalla Savigliano, dalla SIP (Società idroelettrica piemontese) e dalla SNIA (Società di navigazione industria e commercio). L’uscita di scena dell’imprenditoria più dinamica e moderna indeboliva la Lega non solo sotto il profilo organizzativo. La reazione del M., basata sulla richiesta di una «più rigida applicazione [....] dei principi disciplinari senza eccezione», tradiva una mancanza di flessibilità poco intonata alle esigenze del momento e dissonante anche rispetto alla politica cauta e manovriera del centro confederale. Appesantite anche da polemiche di ordine personale, le frizioni con quest’ultimo e con l’esecutivo crebbero ulteriormente dopo l’accordo di palazzo Vidoni e il varo della legge sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro.
Con questi provvedimenti (e la contestuale assunzione della qualifica di «fascista» da parte della Confederazione) la rappresentanza industriale veniva inquadrata nella compagine dello Stato, perdendo se non di influenza certo di autonomia, come il M. mostrava di aver compreso prevedendo, agli inizi del 1926, che tutti i dirigenti avrebbero dovuto iscriversi al Partito nazionale fascista (PNF), se non per obbligo per non danneggiare le proprie organizzazioni.
Mostrando di non aver dimenticato i fondamenti costitutivi della Lega, egli aggiungeva inoltre che «il consenso al governo è una cosa [che] non può significare sottomettere l’interesse di classe – che rimane – ad eventuali imposizioni delle rappresentanze politiche».
Era in pratica un annuncio di dimissioni, che il M. ritardò per motivi di opportunità al 15 apr. 1926, a pochi giorni di distanza dalla promulgazione della legge sindacale. Proseguì invece regolarmente l’attività parlamentare, accompagnata da crescenti apprezzamenti, pagando lo scotto di una tardiva iscrizione al PNF in prossimità delle elezioni dell’aprile 1929. Sul versante imprenditoriale, il rafforzamento della sua posizione nella Way Assauto, culminata nella nomina a presidente e amministratore delegato alla fine degli anni Venti, fece da prologo all’assunzione di importanti incarichi nel panorama economico nazionale. Nel corso del decennio successivo il M. entrò a far parte dei consigli di amministrazione della Montecatini e dell’Ilva, della Riunione adriatica di sicurtà e dell’Istituto mobiliare italiano. Inoltre, i rapporti non sempre idilliaci tra Agnelli e la presidenza della Lega non furono da ostacolo all’ingresso del M. nella rete di interessi e attività gravitante attorno alla FIAT: presidente delle Officine di Villar Perosa e della Società editrice La Stampa, nel 1935 egli venne infine cooptato nel consiglio della capogruppo. Alla fine di quell’anno il M. ritornò alla guida dell’Unione industriale di Torino, subentrando al commissario straordinario T. Folia.
La decisione del M., come egli adombrò più volte, fu guidata dallo spirito di servizio più che dal convincimento personale. Il nuovo statuto della Confederazione generale dell’industria italiana (Confindustria) approvato nell’agosto 1934, infatti, limitava pesantemente l’autonomia delle strutture periferiche, configurando una situazione che senza dubbio un esponente dell’antica Lega non poteva condividere.
Ridotta la sua funzione a quella di semplice rappresentanza e diradatesi drasticamente le attività associative, il M. poté dedicarsi ai numerosi impegni di amministratore e ai lavori parlamentari, dove fu per ben undici volte relatore delle leggi di bilancio. Egli tornò alla ribalta della scena sindacale dopo il 25 luglio 1943 quando, dopo aver rassegnato le dimissioni dalla presidenza torinese, fu chiamato dal governo Badoglio ad assumere l’incarico di commissario straordinario della Confindustria. Il M. accettò l’incarico a condizione che a guidare l’organizzazione dei lavoratori fosse B. Buozzi, con il quale aveva ripreso i contatti personali fin dall’inizio dell’anno. L’antica familiarità fra i due tenaci ma leali avversari favorì la rapida conclusione di un accordo sul funzionamento delle commissioni interne che ricalcava quello siglato dagli stessi protagonisti e da Agnelli nel 1920, al termine dell’occupazione delle fabbriche. L’intesa, stipulata il 2 settembre a pochi giorni dal forzato rientro di Buozzi in clandestinità, costituiva il primo, importante tassello di un nuovo sistema di relazioni industriali. Malgrado il contributo al successo del negoziato e la denuncia per tradimento formulata a suo carico nel 1944 dalla magistratura della Repubblica sociale italiana non risparmiarono al M., dopo la Liberazione il M. venne indagato per la sua presunta collaborazione con il fascismo e subì la revoca del rango senatoriale acquisito nel febbraio 1943.
Nel vivo di una vicenda certamente amara, il M. non dimenticò di perorare la causa della vedova di Buozzi, sollecitando la raccolta di aiuti per alleviarne le difficoltà economiche.
Privato degli incarichi associativi, il M. dedicò gli ultimi anni alla Way Assauto, di cui mantenne la direzione fino alla morte, avvenuta a Torino il 7 maggio 1961.
Fonti e Bibl.: Torino, Arch. stor. dell’Unione industriale, Fondo Abrate, f. Giuseppe Mazzini; Verbali delle assemblee sociali, 1920-26, 1935-38; Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, legislature XXVI-XXIX, ad indices; I candidati industriali, in L’Informazione industriale (Torino), 15 marzo 1929, n. 11; A. Biancotti, Plastici, Torino 1930, pp. 131-136; M. Abrate, La lotta sindacale nell’industrializzazione in Italia. 1906-1926, Milano 1966, ad ind.; Dall’occupazione delle fabbriche al fascismo. La crisi italiana del primo dopoguerra nei verbali della Lega industriale di Torino. 1920-1923, a cura di G. Berta, Torino 1995, ad indicem.