MASSARI, Giuseppe
– Nacque a Taranto l’11 ag. 1821 da Marino, barese, e dalla tarantina Maria Saveria Fedele.
Aveva solo sette anni quando il padre, ingegnere civile e ispettore di ponti e strade nella provincia dell’Aquila, avendo già deciso per lui un futuro da uomo di scienza, nell’ottobre del 1829 lo portò con sé a «percorrere in un battello per 844 metri l’antico emissario [del Fucino] rovinato e rigurgitante d’acqua» (De Cesare, II, p. 71). Superata la prova, lo avviò agli studi letterari e filosofici nel seminario di Avellino affidandolo però alla guida, tra gli altri, del geologo L. Palmieri; seguì, nel 1835, il trasferimento a Napoli per l’approfondimento della matematica: qui, mentre completava la preparazione nelle scienze naturali e si appassionava alla medicina, il M. entrò in contatto con docenti legati alle esperienze politiche del 1799 e del 1820-21 (M. Tenore, T. Monticelli, O.G. Costa), che gli trasmisero un forte interesse per la storia patria in chiave liberalcostituzionale. Subito dopo, con l’affiliazione alla Giovane Italia di B. Musolino e la diffusione di ristampe clandestine dei versi di G. Berchet, il M. attirò su di sé l’attenzione della polizia che lo convocò e lo ammonì a cambiare strada. Onde evitare guai maggiori il padre pensò bene di inviarlo, nel settembre del 1838, a Parigi. Dirà più tardi il M. che in tal modo ebbe inizio per lui «la travagliata vita dell’esiglio» (Martini - Biagi, p. 201).
In realtà V. Gioberti e Costanza Trotti Arconati avrebbero appreso dallo stesso M. una versione leggermente diversa. Entrato in confidenza con loro, il giovane raccontò infatti che, persa la madre nel 1835, si era trovato alla mercé del padre il quale, non approvando le sue scelte di studio, «dopo molte peripezie [lo] mandò in Francia, ottenendo il consenso del Governo» (10 luglio 1845, in Massari, 1921, pp. 46 s.); si diceva inoltre convinto che dal secondo matrimonio che il padre aveva contratto nel 1840 con una signora di Parigi, fossero derivate prima la riduzione e poi la sospensione definitiva delle rimesse che fino ad allora gli avevano consentito di vivere.
Da Napoli aveva portato con sé alcune commendatizie per il rappresentante del Regno meridionale in Francia. Fu introdotto in casa di G. Pepe e, per quanto giovane, non tardò a entrare nel giro di quanti la frequentavano, personaggi come T. Mamiani, G. Libri, N. Tommaseo, Berchet tanto ammirato nell’adolescenza. Questa vicinanza quotidiana a uomini e donne molto più maturi, mentre lo abituava al piacere della conversazione colta, rappresentò un ulteriore stimolo per la sua sete di conoscenza; per esempio, per lui che a Napoli era stato anche allievo di P. Galluppi, l’incontro con Mamiani risultò decisivo perché fu lui a consigliargli di leggere la Teorica del sovrannaturale di Gioberti: il M. scoprì così un pensiero che, come avrebbe confessato più tardi, fornì, a lui «ontologo per passione», gli strumenti necessari «per esserlo per convinzione e ragionamento» (19 sett. 1849, in Balsamo-Crivelli, p. 33). Senza pensarci troppo, ne scrisse immediatamente a Gioberti: cominciato sul finire del 1838, il carteggio tra i due si fermò solo nel 1852 con la morte dell’abate; Gioberti apprezzò subito la spontaneità del M. («Dato alle scienze fisiche io sento però il bisogno di rivolgermi continuamente alle morali», gli si era presentato il 2 luglio 1839) e quasi divertito accettò il ruolo di «consigliere e quasi direttore di coscienza» (Omodeo, p. 49) che gli era stato assegnato dopo che il M. lo ebbe conosciuto personalmente a Bruxelles nell’ottobre del 1840.
Dalle molte lettere che i due si scambiarono viene fuori, soprattutto per i dieci anni in cui il M. visse a Parigi, un quadro tra i più interessanti e vivaci del dibattito culturale dell’epoca, seguito sia nel versante francese attraverso la partecipazione del M. alle lezioni di E. Quinet e di J. Michelet al Collège de France o la lettura delle opere di V. Cousin, F. Guizot, A. Thierry, A. Thiers, F. Mignet, A. de Tocqueville, sia nel versante italiano in un periodo animato dalla pubblicazione del Primato giobertiano e dal profilarsi di una soluzione moderata del problema nazionale italiano. A Gioberti, che era interessato in particolare agli aspetti filosofici della discussione, il M. riferì con scrupolosa precisione sulla spaccatura tra la cultura laica francese e la gerarchia cattolica, soffermandosi molto sugli echi della polemica che nel 1844 – sulla scia di quel dibattito – vide Giuseppe Ferrari lanciato all’attacco del Primato. Naturalmente le sue simpatie andarono tutte a Gioberti, e non solo sul piano religioso e filosofico (l’ontologismo rappresentava per lui il superamento del kantismo e la migliore risposta al sensismo e al panteismo) ma soprattutto in una prospettiva di soluzione del problema italiano, all’interno della quale per converso il M. giudicò sempre in modo molto negativo qualunque proposta venisse dal campo democratico e soprattutto dal pensiero e dall’azione di G. Mazzini.
Pur contraddistinto da un tono molto rispettoso e talvolta quasi servile, il dialogo a distanza del M. con Gioberti ebbe, specialmente all’inizio, una certa dialettica, certamente influenzata dalla prima formazione del M.: all’abate che aveva definito «utopia» l’unità nazionale il giovane replicò che «un giorno l’Italia sarà una»; contrario all’ipotesi del «principato ereditario», a Gioberti che ne aveva affermato la necessità il M., non nutrendo fiducia nei sovrani, opponeva l’auspicio di una carica elettiva, come pure rigettava le critiche rivolte a G.D. Romagnosi, «italianissimo di opinione e di cuore» (Balsamo-Crivelli, 17 marzo e 16 nov. 1841, rispett. alle pp. 75 s. e 128): presto sarebbe rientrato nei ranghi, aderendo completamente e nella maniera più convinta alle tesi giobertiane e dichiarando di ritenere «la monarchia costituzionale come la più adatta alle condizioni attuali dei popoli e della civiltà» (ibid., 28 apr. 1843, p. 254).
Del Primato il M. apprezzò in particolare il richiamo a una forte tradizione filosofica italiana e la petizione di principio in favore della guida morale da riconoscere al papa a fini nazionali. Fervente cattolico, il M., pur sempre diffidente verso i sovrani italiani, trovò in quelle pagine una soluzione armoniosa all’antico dilemma tra la fede e la ragione, tra la religione e la politica; allo stesso modo lo rincuorò vedere rivendicata in modo così autorevole l’esistenza di una cultura autoctona che postulava per l’Italia la presenza di basi identitarie molto solide e tali da ridurre il pericolo di una invasione straniera: sempre a Gioberti il M. confidava infatti che «la nazionalità italiana, a senno mio, ha da temere più dal dispotismo delle idee francesi che da quello delle baionette austriache» (ibid., 8 maggio 1842, pp. 159 s.).
Nel 1841 era intanto uscito il suo primo scritto, una recensione dell’Introduzione allo studio della filosofia di Gioberti inserita a puntate nel periodico napoletano Il Progresso (XXIX [1841], pp. 5-32, 165-181; XXX [1842], pp. 5-22): Gioberti, che a questo scritto andò debitore della prima diffusione del suo pensiero nel Mezzogiorno, lodò «l’esatta lucidezza dell’esposizione e i cenni eruditi e polistorici» che la distinguevano (Balsamo-Crivelli, 1° sett. 1842, p. 198; ma si veda anche pp. 179 s.). Sempre in campo filosofico altri lavori pure progettati dal M. e in parte realizzati non giunsero mai a concretizzarsi in forma di pubblicazione.
L’altro rapporto epistolare che occupò a lungo il M. fu quello con Costanza Trotti, esule con il marito, il marchese Giuseppe Arconati Visconti, in Belgio e conosciuta nel 1841: con lei, assurta con il tempo a un ruolo evidente di supplenza («dilettissima madre», la chiamava il M.), e poi con la sorella di lei Margherita, moglie di Giacinto Provana di Collegno, il M. sfogò per un verso un piacere di scrivere spinto talvolta fino alla grafomania, per l’altro rivelò una singolare attitudine a entrare nelle vite altrui e un bisogno irrefrenabile di raccontare la propria, colmando così il vuoto affettivo dell’adolescenza e spingendosi, in un crescendo di effusioni intime, fino a parlare della tormentata relazione sentimentale che per qualche anno lo legò a Cristina Trivulzio, moglie separata di Emilio Barbiano di Belgioioso, «unico infelice amore di una vita di platonica ammirazione per le belle signore» (Morelli, in Massari, 1959, p. V): infelice perché alla dedizione quasi servizievole del M. Cristina rispose con comportamenti spesso dispotici, capricciosi e fin troppo disinvolti per un giovane così timorato di Dio e sostanzialmente conformista: di qui i frequenti sfoghi del M. con le amiche per spiegare che la donna lo maltrattava «a torto e a traverso, senza ragione e senza badare a chi è presente» (Id., 1921, p. 351). Con l’apparenza di consolarlo Costanza e Margherita resero più bruciante una piaga che, malgrado i buoni propositi del M., tardò molto a rimarginarsi e anzi qualche volta si riaprì, anche a distanza di anni, per una singolare predisposizione del giovane alla sofferenza: «Da voi accetto qualunque cosa, anzi più mi maltrattate più potete essere sicura della mia gratitudine» scriverà all’amata il 15 nov. 1844 (Malvezzi, 1937).
Tuttavia fu appunto a Cristina Trivulzio che il M. dovette l’esordio nel mondo del giornalismo come compilatore, con P.S. Leopardi, della Gazzetta italiana che ella aveva fondato a Parigi nel 1845 per ravvivare nell’ambiente dell’emigrazione la discussione sul futuro della penisola. La collaborazione del M., apertasi con un articolo sui Prolegomeni di Gioberti in cui il Primato e le Speranze d’Italia di C. Balbo erano celebrati come i due maggiori contributi alla causa italiana, non durò molto (stando al M. per via dell’egocentrismo autoritario di Cristina Trivulzio), ma gli servì, oltre che a dare ulteriore diffusione alle tesi di Gioberti, a fargli scoprire nel giornalismo la vocazione professionale di tutta una vita.
Alla fine del 1843 il M. aveva compiuto un viaggio in Italia con la speranza di trovare una sistemazione che gli consentisse il ritorno in patria; proibitogli dagli Austriaci l’ingresso in Lombardia, si era mosso tra Firenze, Genova e Torino, restando ovunque vittima di piccole vessazioni poliziesche ma riuscendo comunque a stabilire una serie di proficui contatti con molti esponenti del moderatismo allora egemone: tra i tanti, G.P. Vieusseux e G. Capponi in Toscana, C.I. Petitti di Roreto, S. Pellico, D. Promis, L. Sauli d’Igliano e G. Provana di Collegno in Piemonte. I frutti il M. li colse alla fine del 1846, quando accettò la proposta dell’editore torinese G. Pomba di stabilirsi in Piemonte per dirigere un periodico da poco fondato, il Mondo illustrato, che si pubblicò a partire dal 1847 e che ricevette da lui un’impronta decisamente piononista e giobertiana coronata infine da simpatia per il riformismo di Carlo Alberto. Da questo momento il suo massimo impegno di giornalista e di conversatore accolto nei salotti torinesi fu profuso nella propaganda di una lega tra i principi che, sebbene il M. non avesse mutato idea sul carattere reazionario e corrotto del Regno meridionale e sulla slealtà di Ferdinando II, includesse anche Napoli, e ciò per rispondere a una doppia esigenza: affrontare l’Austria con un forte esercito e tenere lontano lo spettro del radicalismo sociale e politico incarnato ai suoi occhi dal rilancio mazziniano e montanelliano dell’idea di repubblica.
Vissuto con tali aspettative, il 1848, malgrado l’inizio promettente, fu per lui un incubo, sia per la debolezza intrinseca del progetto, al M. caro, di una lega tra i sovrani per condurre una guerra federale, sia per i limiti della politica nazionale di Carlo Alberto. Ma, a confermare i suoi pregiudizi sull’assenza nel Meridione di qualunque tendenza alla nazionalità, i dispiaceri maggiori gli vennero da Napoli.
Dopo l’elezione del primo Parlamento costituzionale aspettò qualche mese prima di recarvisi. Impegnato a Firenze come collaboratore della Patria di V. Salvagnoli e B. Ricasoli, giunse a Napoli solo ai primi di luglio, eletto a giugno in rappresentanza di Terra di Bari; non partecipò quindi alla giornata del 15 maggio, quando parte della Camera si ribellò al re e in città si alzarono le barricate; sottoscrisse però la celebre Protesta dei deputati napoletani redatta da P.S. Mancini. In Parlamento, per la prima e unica volta nella sua vita, il M. sedette a sinistra e, intervenendo il 3 agosto con un appassionato discorso a favore della guerra nazionale, si trovò da solo con S. Spaventa e A. Scialoja a far professione di «albertismo» davanti a un governo già orientato verso lo svuotamento degli ordinamenti costituzionali e dunque alieno da ogni tentazione filosabauda. Visti inutili i suoi sforzi, tornò a Firenze solo per constatare che la chiusura della Patria lo privava di ogni mezzo di sostentamento; intanto con l’attentato a Roma contro P. Rossi, di cui era divenuto amico a Parigi, vedeva la situazione deteriorarsi ulteriormente, né la risollevava l’avvento di Gioberti al governo piemontese. Il M., che a ottobre aveva preso parte a Torino all’inutile congresso della Società per la confederazione italiana presieduto appunto dall’abate torinese, continuò a muoversi sulle sue orme (non per niente lo avevano definito «il pappagallo di Gioberti») approvandone il progetto di impiegare l’esercito per restaurare il granduca in Toscana, con conseguente rottura con i democratici e con Carlo Alberto, l’uno e gli altri solidali nel proposito di ritentare le sorti della guerra. Della ripresa delle ostilità e della fulminea sconfitta il M. ebbe notizia quando da qualche settimana era rientrato a Napoli con la speranza di poter fare ancora qualcosa in favore dell’unione tra il Regno meridionale e quello di Sardegna. Dovette invece prendere atto del carattere definitivo dell’ultimo scioglimento del Parlamento napoletano, il 13 marzo 1849.
Dopo essere rimasto nascosto per un mese per timore della reazione borbonica, riuscì a imbarcarsi per Malta e di lì a raggiungere dapprima Genova e poi, il 29 maggio 1849, Torino. All’inizio di luglio gli affidarono la direzione del Saggiatore, che il M. fece uscire come quotidiano mutando la testata in La Legge, un foglio legato a P.D. Pinelli che visse sei mesi e suscitò l’ironia di C. Cavour (che, deplorando che il M. non avesse accettato di entrare nel Risorgimento, definì «ridicola» la concorrenza esercitata nei confronti di questo suo giornale). Altre collaborazioni furono quelle con l’Opinione e, dal 1854, con il Piemonte diretto da L.C. Farini: sempre, comunque, con organi di stampa di ispirazione ministeriale.
Mentre lo affliggeva constatare come il Paese pagasse la sconfitta con una forte instabilità interna e con rigurgiti di municipalismo, restava viva nel M. l’amarezza per l’esperienza appena vissuta a Napoli: a tale sentimento diede sfogo con il volume su I casi di Napoli dal 29 genn. 1848 in poi. Lettere politiche (Torino 1849), «un vero modello di pamphlet, di libello politico» (Maturi, p. 305), in pratica una cronaca dell’involuzione del regime costituzionale e delle responsabilità del sovrano e dei conservatori, colpevoli soprattutto di non avere appoggiato l’iniziativa bellica piemontese e di non aver sentito il tema dell’indipendenza: cronaca suggestiva ma troppo faziosa e dimentica degli eccessi e delle imprudenze dei liberali, avrebbe scritto R. De Cesare presentando nel 1895 la seconda edizione del volume edita a Trani. A ogni modo per qualche anno questo fu il chiodo fisso del M., che lo tormentò quasi quanto l’attività cospirativa dei mazziniani e trovò ulteriore stimolo nella lettura delle famose lettere di W. Gladstone, da lui subito tradotte e pubblicate con il supporto di altro materiale d’accusa verso la repressione borbonica (Lettere di Guglielmo Gladstone e di G. Massari sui processi di Stato di Napoli, s.l. 1851; Il signor Gladstone ed il governo napolitano. Raccolta di scritti sulla questione napolitana, Torino 1851). Nell’occasione lo gratificò molto il vedere che dall’Inghilterra, di cui aveva sempre ammirato l’ordinamento politico e sociale, venisse un così prestigioso conforto allo sdegno morale suo e di altri perseguitati politici illustri (C. Poerio, L. Settembrini, Mancini) o meno illustri che fossero; e ciò mentre a Napoli si svolgeva il processo per i fatti del 15 maggio al termine del quale non c’è da sorprendersi che, a lui che quel giorno, come s’è detto, non era nemmeno a Napoli (ma testimoni prezzolati affermarono il contrario), fosse inflitta la pena capitale in contumacia per il reato di ribellione.
In un periodo in cui aveva pochi motivi per essere ottimista il M. perse anche la guida di Gioberti, scomparso a Parigi il 26 ott. 1852. Poiché aveva da poco intrapreso con la tipografia Elvetica la pubblicazione delle sue opere facendo uscire per prime le Operette politiche precedute da un suo proemio (I-II, Capolago 1851), il M. considerò suo specifico dovere raccogliere tutti gli inediti e pubblicarli onde rendere onore all’operosità e alla potenza intellettuale del suo maestro. Fu, il suo, un lavoro faticoso al termine del quale apparvero, tutti a sua cura e con l’indicazione Torino-Paris, i saggi giobertiani Della riforma cattolica della Chiesa (1856), Della filosofia della rivelazione (1856) e i due volumi Della protologia (1857). Tra il 1860 e il 1862 il M. avrebbe anche curato per l’editore Botta di Torino i 3 volumi in 4 tomi dei Ricordi biografici e carteggio di Vincenzo Gioberti: tutta la vita del pensatore torinese vi era divisa in tre periodi e ripercorsa intervallando alla narrazione la pubblicazione di documenti, in particolare di lettere di e a Gioberti.
Per fortuna del M., la morte di Gioberti coincise con l’apparizione all’orizzonte di Cavour. All’inizio il conte non parve ispirargli molta fiducia e anzi, con il suo attacco al governo di M. d’Azeglio, l’apertura al centro-sinistra di U. Rattazzi e la sua politica ecclesiastica, fu oggetto di più di una frecciata. Ciò che finalmente convinse il M. fu la sapienza con cui Cavour, a partire dalla guerra di Crimea, gestì la politica del Regno sabaudo orientandola gradualmente verso la svolta unitaria, disarticolando la sinistra mazziniana e portando la questione italiana sul tappeto delle relazioni internazionali. Era il terreno sul quale il M., poco perspicace e sereno in politica interna, si muoveva meglio, a ciò avendolo allenato le rubriche di rassegna politica che per anni aveva tenuto prima per conto del periodico Cimento (a far data dal 1852), e poi, tra il 1856 e il 1860, dalla Rivista contemporanea; peraltro in questi stessi anni anche la sua corrispondenza con Costanza Trotti Arconati o con A. Panizzi altro non era stata che un resoconto puntuale della lunga marcia cavouriana verso l’alleanza del 1859, nell’alternarsi continuo di opzioni e intrecci non sempre chiari (quale, ad esempio, tra il 1855 e il 1856 il profilarsi di una soluzione murattista che il M. osservò con attenzione, e non perché vi avesse aderito, come qualcuno insinuò, ma per la necessità professionale di seguire tutti i fili della trama). Per cultura politica, forma mentis e amicizie (era molto legato a J. Hudson, rappresentante inglese a Torino) al M. sarebbe piaciuto che il Regno sardo trovasse un appoggio concreto a Londra; quando invece fu chiaro che l’Inghilterra, pur simulando simpatia per il Piemonte, non avrebbe abbandonato la tradizionale linea filoaustriaca e si prospettò l’ipotesi di un accordo forte con Napoleone III, il M., pur consapevole del rischio di un’accresciuta influenza francese in Italia, si convinse che «l’ubi consistam è trovato» (lettera del 10 marzo 1857, in Minghetti, p. 431).
Tra il 1858 e il 1859 si definì il suo nuovo ruolo sulla scena politica e diplomatica. Cavour, che nel 1856 lo aveva voluto alla direzione della Gazzetta piemontese affidandogli la compilazione di comunicati ufficiali e note diplomatiche nonché di tutte le aperture ufficiose del suo governo, nei mesi che precedettero la guerra ebbe in lui, oltre che un valido addetto stampa, un portavoce da adoperare soprattutto negli incontri confidenziali con i rappresentanti stranieri a Torino, allo scopo di passare notizie o saggiare reazioni. Si è detto che al M. il primo ministro desse solo le informazioni che aveva interesse a far circolare in certi ambienti e si è sottolineata la totale ignoranza da parte del M. di alcune mosse importanti di Cavour; ma, se è indubbio che non percepì il perché dell’impiego della Società nazionale e della sinistra moderata all’interno della strategia cavouriana, questo avvenne perché i suoi pregiudizi verso la sinistra democratica e chi la rappresentava (a lungo ritenne G. Garibaldi un manigoldo) gli avrebbero impedito di capire il senso delle spregiudicatezze del suo capo.
Di tale esperienza resta un documento straordinario: quel Diario dalle cento voci (questo il titolo suggerito da A. Omodeo e poi adottato da Emilia Morelli nel trascriverlo e darlo alle stampe nel 1959) in cui il M. ebbe cura di registrare giorno per giorno, dal 2 ag. 1858 al 23 marzo 1860, gli eventi del biennio decisivo per il futuro dell’Italia. Lo stile è asciutto, tutt’altro che «ottocentesco», e il racconto incalzante, capace di emozionare anche a 150 anni di distanza, perché, da quel giornalista di razza che ormai è diventato, il M. sa tenere alta la tensione fino allo scioglimento del 23 apr. 1859, giorno in cui con l’arrivo dell’ultimatum austriaco a Torino ha inizio la guerra. Dell’enorme lavorio di preparazione tanti sono gli interpreti, a cominciare dal M., ma uno solo il protagonista: Cavour, e non solo quello vincente per acume, lucidità di giudizio e lungimiranza, ma anche quello sconfitto dall’armistizio e però grande anche nella solitudine cui lo consegna la temporanea uscita di scena dopo Villafranca. La Sinistra, mazziniana o garibaldina che sia, è praticamente assente e, se c’è, è più un elemento di disturbo quando non di intralcio. Testo di fondamentale importanza per la prossimità dell’autore ai centri di potere, il Diario, che non fu scritto per essere conosciuto, ha rappresentato una fonte insostituibile per la conoscenza dell’azione di Cavour e i riflessi nel mondo della diplomazia.
Con la morte di Cavour il M. perse l’asse più sicuro per la comprensione della realtà in cui si muoveva: come aveva annotato un giorno nel Diario, «senza il conte Cavour sono un navigante senza la stella polare che lo guida» (Massari, 1959, p. 338). Per lui nell’autunno del 1860 aveva compiuto l’ultima missione, inviato a Napoli per riferire sullo spirito di una città che gli era parsa subito di difficile integrazione per la corruzione delle classi medio-alte: allora, come primo rimedio, aveva auspicato una «grossa invasione di moralità piemontese» (a Cavour, 21 ott. 1860, in La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia: carteggi di C. Cavour, III, Bologna 1952, p. 164) e l’introduzione immediata, al posto di qualunque intervento provvisorio, di un «governo forte e onesto» (a L.C. Farini, 2 nov. 1860: ibid., p. 272). Dal suo punto di vista, solo l’introduzione di una buona amministrazione avrebbe consentito di impostare un corretto discorso di integrazione tra le due Italie.
Su una linea di preoccupazione per le condizioni del Sud si impegnò negli anni seguenti la battaglia politica del M., entrato alla Camera durante la VII legislatura, eletto a Borgo San Donnino, e confermato nell’VIII (1861) in rappresentanza del collegio di Bari. Schierato con la Destra (e, al suo interno, con la consorteria tosco-emiliana), fu molto assiduo ai lavori parlamentari ma di lui ebbe particolare spicco la relazione che scrisse e lesse alla Camera il 3 maggio 1863 come segretario della commissione d’inchiesta sul brigantaggio istituita il 16 dic. 1862 e composta da molti elementi provenienti dal mondo garibaldino (ne facevano parte col M. otto deputati, tra cui A. Saffi, N. Bixio, S. Castagnola, D. Morelli, G. Sirtori).
Nella relazione conclusiva stesa al termine di una scrupolosa indagine condotta in loco dalla commissione, il M., che già il 2 dic. 1861 aveva definito il brigantaggio «un malanno essenzialmente e prettamente sociale» senza «alcuna relazione con la politica», confermò tale interpretazione chiamando in causa il lungo malgoverno borbonico e individuando l’origine del fenomeno «nella miseria dei contadini senza terra, in condizioni di vita talmente degradate da rendere preferibile l’adesione alla guerra dei briganti». L’analisi era coraggiosa perché invitava a puntare l’attenzione sulla «protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie» (pp. 113-117), ma poiché sollevava il nuovo regime da ogni responsabilità e ventilava una complicità tra clero e banditismo sociale non piacque alla Civiltà cattolica che accusò il M. di faziosità per avere escluso a priori il movente politico determinato dalla opposizione del Sud a una unificazione imposta con la forza. Peraltro, trascurando le sue indicazioni, il Parlamento dispose soltanto un inasprimento della repressione.
L’altro tema sul quale il M. concentrò larga parte dei propri interventi fu quello dei rapporti Stato-Chiesa: prima del 20 sett. 1870, rivendicando piena libertà alla Chiesa, al riparo da ogni tentazione giurisdizionalista, e votando contro il progetto di legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico (e qui l’ostilità per U. Rattazzi e per la Sinistra in genere prevalse sulla sua fedeltà al magistero cavouriano); dopo il 20 settembre, auspicando come premessa per una futura conciliazione la rinunzia da parte dello Stato a qualunque limitazione della libertà del papa e opponendosi tanto alla chiusura delle facoltà di teologia nelle università pubbliche (1872) quanto alla legge per la soppressione delle corporazioni religiose nelle province di ultima acquisizione (discorso dell’8 maggio 1873).
Nel 1876 il M., che nell’agosto del 1874 aveva subito un attentato per mano di una guardia carceraria licenziata che si era rivolta a lui per essere riassunta, non fu rieletto poco dopo essere stato chiamato al ruolo di segretario della Camera. Assorbì la delusione dedicandosi alla ricostruzione della vita di personaggi cui era stato molto vicino e in cui era convinto che la dimensione morale non fosse stata inferiore alla statura politica, secondo una chiave di lettura già sperimentata col primo di tali lavori, Il conte di Cavour. Ricordi biografici (Torino 1873). Non vi era pretesa di fare storia, ma di fornire materiali utili alla storia, pubblicando documenti e testimonianze, suggerendo giudizi e, soprattutto, educando con stile accattivante il lettore al valore dell’Unità nazionale. Rientrano in questo filone i due volumi de La vita e il regno di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia (Milano 1878) e Il generale Alfonso La Marmora. Ricordi biografici (Firenze 1880).
I tratti distintivi di questa produzione che conobbe varie ristampe, segno di un successo protratto nel tempo, erano la facilità e la scorrevolezza della scrittura, un sentimento acutissimo della moralità pubblica e privata (sentimento che si fa sdegno a ogni accenno alla Napoli borbonica), un gusto particolare per l’aneddotica e le frasi lapidarie, nonché una certa elusività (per il Cavour, è stata sottolineata da R. Romeo, p. 188: «la sua particolare riluttanza a mettere in luce i contrasti tra la Corona e il governo, e soprattutto certo tono di bonomia un po’ lagrimosa e stucchevole»). Tipico del M. era omettere, non mentire, e collocare tutte le ricostruzioni all’interno di una visione provvidenzialistica della classe liberale, sempre presentata come disinteressata e compatta nel perseguimento dell’obiettivo unitario. Ad accomunare i suoi libri c’era, infine, un intento se non proprio agiografico certamente celebrativo, che aveva la sua ragion d’essere nella dedizione del biografato al conseguimento dell’Unità: ciò vale soprattutto per Vittorio Emanuele II cui nel Diario dalle cento voci, redatto in sincronia col corso degli eventi, il M. aveva dedicato uno spazio ridottissimo; perfino Garibaldi, lì visto come un’incognita di cui fidarsi poco, qui diventa «il capitano valoroso» capace di concepire per il re «quei sentimenti di ammirazione e di fiducia che non mutarono mai» (Massari, 1959, II, p. 12). Per altri esponenti della classe politica moderata a lui molto vicini (B. Ricasoli, S. Spaventa, G. Lanza, C. Poerio, M. d’Azeglio, C. Balbo), non potendo impegnarsi in lavori di lunga lena il M. provvide con riconoscenti commemorazioni (poi raccolte nel volume Uomini della Destra, a cura di G. Infante, Bari 1935).
Tornò a essere eletto nella XIV e XV legislatura (rispettivamente a Spoleto e a Perugia), schierato ora all’opposizione contro la Sinistra al governo. Accusato più volte dagli avversari politici di essersi indebitamente arricchito (Asproni, p. 46; Bisceglia, p. 454), visse invece in condizioni di estrema povertà l’ultima parte della vita, né lo risollevarono troppo le molte collaborazioni a giornali e periodici romani o le corrispondenze per varie testate straniere. Poco per volta i vari impegni si diradarono e alla fine gli rimase solo una rubrica di «Cronaca parlamentare» nel Fanfulla.
Nel 1883 si ammalò; quando era ormai grave lo accolse in casa un amico.
Il M. morì a Roma il 13 marzo 1884.
Per testamento lasciò carte e lettere a E. Visconti Venosta e, dopo i funerali a spese dello Stato, fu sepolto a Bari.
Fonti e Bibl.: Per una storia della ricchissima documentazione lasciata dal M. e oggi conservata in gran parte a Roma presso il Museo centr. del Risorgimento (bb. 383, 809-820), si veda E. Morelli, Le carte Massari, poi in Id., I fondi archivistici del Museo centr. del Risorgimento, Roma 1993, pp. 89-98 (ma cfr. pure le pp. 10, 45, 64, 68, 102, 112); per un altro spezzone di corrispondenza si v. l’Inventario dell’Archivio Visconti Venosta, I, a cura di M. Avetta; II, a cura di G. Silengo, Santena 1970, ad ind.; la stessa Morelli, Le carte Massari, cit., p. 98, ricostruisce anche la storia dell’autografo del Diario dalle cento voci, Bologna 1959, da lei pubblicato dopo le due edizioni molto scorrette e lacunose curate da G. Beltrani (Diario politico di Giuseppe Massari dal 2 ag. al 31 dic. 1858, Bari 1927; e Diario 1858-60 sull’azione politica di Cavour, Bologna 1931): sull’ed. Morelli cfr. C. Pischedda, Il Diario di G. M., in Rass. stor. del Risorgimento, LXXXII (1995), pp. 547-564. La rievocazione che il M. ha fatto della propria formazione si può leggere in Il primo passo, a cura di F. Martini - G. Biagi, Firenze 1922, pp. 193-201. La centralità del M. e la vasta rete di relazioni in cui visse fanno sì che sue lettere siano presenti in numerosi fondi o pubblicate in vari epistolari. Tra i principali: Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani, 1823-1870, a cura di L. Fagan, Firenze 1880, passim; M. Minghetti, Miei ricordi, III, Torino 1880, passim; M. Castelli, Carteggio politico, a cura di L. Chiala, I-II, Torino 1890-91, ad ind.; V. Gioberti, Del rinnovamento civile d’Italia, a cura di F. Nicolini, I-III, Bari 1911-12, ad ind.; Gioberti - Massari. Carteggio (1838-1852), a cura di G. Balsamo-Crivelli, Torino 1920, pp. 33, 75 s., 128, 159 s., 179 s., 198, 254; G. Massari, Lettere alla marchesa Costanza Arconati dal 19 maggio 1843 al 2 giugno 1853, a cura di G. Beltrani, Bari 1921; Il Risorgimento italiano in un carteggio di patrioti lombardi 1820-1860, a cura di A. Malvezzi, Milano 1924, ad ind.; M. Provana di Collegno, Diario politico, 1852-1856, a cura di A. Malvezzi, Milano 1926, ad ind.; R. Ciampini, I toscani del ’59. Carteggi inediti di… G. M., Roma 1959, pp. 83-160 (con L. Galeotti) e 173-186 (con V. Salvagnoli); E. Costa, Tre lettere inedite di G. M., in Rass. stor. del Risorgimento, LI (1964), pp. 227-236; M. Cassetti, Le carte di Alfonso Ferrero della Marmora, [Torino] 1979, ad ind.; C. Cavour, Epistolario, VI, IX, XIII, XIV-XVI, Firenze 1982-2000, ad ind.; G. Brescia, Lettere di Antonio Rosmini, Pasquale Galluppi, G. M., in Riv. rosminiana, LXXXI (1987), pp. 325-330; Arch. di Stato di Napoli, Arch. privato Ruggiero Bonghi: inventario, a cura di S. d’Aquino di Caramanico - R. De Simine - F. Turino Carnevale, Napoli 1998, pp. 134, 325. Per i Carteggi di C. Cavour si v. l’Indice dei primi 15 voll., a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, pp. 117, 271. R. Barbiera, La passione di G. M. per la principessa, in Id., Passioni del Risorgimento: nuove pagine sulla principessa Belgiojoso e il suo tempo…, Milano 1903, pp. 338-362; M. Mazziotti, La reazione borbonica nel Regno di Napoli, Milano-Roma-Napoli 1912, ad ind.; R. Cotugno, La vita e i tempi di G. M., Trani 1931; A. Malvezzi, La principessa Cristina di Belgiojoso, I-III, Milano 1937, ad ind.; A. Omodeo, La filosofia politica di V. Gioberti, Torino 1949, pp. 49, 53, 55, 58, 60, 93-98; F. Bartoccini, Il murattismo: speranze, timori e contrasti nella lotta per l’Unità italiana, Milano 1959, ad ind.; F. Petruccelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano e Memorie di un ex deputato, a cura di G. Fonterossi, Roma 1960, p. 115; W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento…, Torino 1962, p. 305; R. Mori, La questione romana 1861-1865, Firenze 1963, ad ind.; G. De Crescenzo, La fortuna di V. Gioberti nel Mezzogiorno d’Italia, Brescia 1964, ad ind.; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I-II, Bari 1965, ad ind.; O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell’Ottocento, I-II, Roma 1965, ad ind.; A. Bisceglia, G. M. in Parlamento, in Rass. stor. del Risorgimento, LIII (1966), pp. 441-455; R. Mori, Il tramonto del potere temporale 1866-1870, Roma 1967, ad ind.; A. Capone, L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Roma 1970, ad ind.; U. Pesci, I primi anni di Roma capitale 1870-1878, Roma 1972, pp. 122, 432, 487; R. Romeo, Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale, Bari 1974, p. 188; R. De Cesare, La fine di un Regno, II, Roma 1975, p. 71; E. Morelli, Le fonti della biografia di Vittorio Emanuele II di G. M., in Rass. stor. del Risorgimento, LXVII (1980), pp. 14-57; G. Asproni, Diario politico 1855-1876, III, a cura di C. Soli, Milano 1980, p. 46; F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1983, ad ind.; T. Pedio, Inchiesta Massari sul brigantaggio, Manduria 1983; M. Fantasia, G. M. nel primo centenario della morte, 1884-1984, Bari 1984; M. Dell’Aquila, Intellettuali meridionali esuli in Piemonte nel decennio 1849-1859: G. M., in Id., Humilemque Italiam. Studi pugliesi e lucani di cultura letteraria tra Sette e Novecento, Roma 1985, pp. 233-280; E. Morelli, Alcune fonti di M. per la biografia di Alfonso La Marmora, in Piemonte risorgimentale. Studi in onore di Carlo Pischedda…, Torino 1988, pp. 233-242; U. Levra, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazioni del Risorgimento, Torino 1992, ad ind.; C. Lodolini Tupputi, Il Parlamento napoletano del 1848-1849…, Roma 1992, ad ind.; A. Berselli, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Bologna 1997, ad ind.; Storia di Torino (Einaudi), VI, La città nel Risorgimento (1798-1864), a cura di U. Levra, Torino 2000, ad indicem.