MALMUSI, Giuseppe
Nacque a Modena il 19 marzo 1803 da Benedetto, avvocato, e da Carolina Corridori. Studiò giurisprudenza all'Università di Modena, dove si laureò nel 1825. L'anno successivo, dopo aver ottenuto il placet del duca Francesco IV (cui il padre, come stabilivano le leggi del tempo, aveva rivolto una supplica), si trasferì per il perfezionamento degli studi giuridici a Roma. Qui rimase per alcuni anni, che si rivelarono decisivi soprattutto ai fini della sua maturazione politica grazie alla frequentazione di cospiratori e combattenti: alcuni suoi concittadini, quali N. Fabrizi e G.A. Cannonieri, altri provenienti da varie province d'Italia. Infatti, nel dicembre 1830, subito dopo la morte di Pio VIII (30 novembre), il M. partecipò alla sommossa contro il governo pontificio. Anzi, stando a quanto sostenuto sette anni dopo dalla polizia papale in un suo dispaccio indirizzato a quella modenese, fu uno dei capi "della cospirazione diretta a sconvolgere l'ordine pubblico in questa capitale" (Arch. di Stato di Modena, Ministero di Buon Governo, 19 maggio 1837, prot. n. 4423). Dovette pertanto fuggire e nascondersi per qualche tempo nella Sabina, ove fu raggiunto da Margherita de' Rossi, giovane quindicenne che aveva appena sposato.
Pervenutagli nel '31 la notizia della cosiddetta congiura estense, il M. decise di tornare a Modena. Nei pressi di Terni incontrò le truppe di insorti al comando di G. Sercognani, ripiegate su quella città l'11 marzo, alle quali si unì. Poi, quando a Spoleto la colonna si sciolse, con la moglie si rifugiò in Toscana e, a Livorno, imitato da altri patrioti, si imbarcò per la Francia. Dopo un breve periodo di permanenza presso il centro di raccolta per emigrati a Mâcon, si stabilì a Parigi, ove poté condurre una vita dignitosa in virtù di un assegno mensile inviatogli dal padre e dei proventi di un incarico d'insegnamento di lingua e letteratura italiana presso un collegio.
Nel 1837 ritornò in patria stabilendosi dapprima a Parma, grazie al "tollerato asilo" offerto dal mite governo di Maria Luigia e poi, provvisoriamente, nella sua città, che però dovette presto abbandonare in seguito al ritrovamento da parte della polizia di due lettere indirizzate a Fabrizi, le quali - a detta del ministro di Buon Governo - "assai lo condannano e per la parte attiva nei moti rivoluzionari a Roma e per le espressioni virulente ed offensive la persona di S. A. R." (Bertuzzi, p. 10).
Nonostante l'accorata supplica al duca nella quale sottolineava di avere a Modena, oltre a due figli, la moglie "in salute purtroppo vacillante e la cui gravidanza volge[va] ormai al suo termine", gli fu concesso di tornare nella sua città "per otto giorni e non più, restando nella propria casa" (ibid., pp. 12 s.). Solo nell'estate del '42, grazie ai buoni uffici interposti dal fratello Carlo, storico e buon letterato, ben introdotto, come pure il padre e i due zii sacerdoti, negli ambienti di corte, il M. poté rientrare definitivamente a Modena.
Qui, pur non rinnegando le idee liberali, rinunciò a ogni attività politica dedicandosi all'amministrazione dei beni lasciatigli in eredità dal padre, spentosi quando egli era esule a Parigi. La sua vita pertanto scorse tranquilla fino al 12 dic. 1847 allorché la partenza da Modena di mons. G. Corboli Bussi, inviato da Pio IX per trattare della lega doganale tra la Toscana, Parma e Modena, fu seguita da una manifestazione popolare; il M. era tra i dimostranti e, poiché fu ritenuto uno dei capi del tumulto, subì gli arresti domiciliari per tre mesi.
Quando i moti liberali del 1848 scossero anche il Ducato di Modena, il M. si pose a capo di una delegazione di cittadini che il 20 marzo chiese e ottenne dall'arciduca Ferdinando, zio di Francesco V, l'istituzione della guardia civica, la quale, dopo la fuga spontanea (per evitare spargimento di sangue) del duca, avvenuta il giorno successivo, nominò un governo provvisorio di cui il M. fu eletto presidente con la delega alle cose estere. Nella vita sia pur effimera (quasi tre mesi) del governo, che fu quasi certamente il periodo più importante della sua carriera politica, improntò il suo operato a "grande serietà e impegno, a equilibrio e moderazione, a imparzialità e rispetto delle leggi" (Bertuzzi, p. 16).
Uno dei suoi primi atti ufficiali fu la dichiarazione che sarebbe stata convocata, al più presto e dopo il varo di una legge elettorale, un'assemblea rappresentativa per decidere sulla forma di governo. Seguirono alcuni provvedimenti tesi a ottenere il favore del popolo, quali l'abolizione della tassa personale (il testatico) e la restituzione gratuita dei pegni di modesto valore giacenti al Monte di pietà. Ma fu soprattutto nel campo dell'istruzione e dell'assistenza che il governo si fece apprezzare, deliberando la gratuità dell'istruzione elementare e dell'iscrizione alla scuola di veterinaria, l'istituzione del ginnasio civico in sostituzione di quello tenuto dai gesuiti, la soppressione dei convitti medico e legale, una raccolta di offerte in favore dei poveri, un sussidio agli operai dimessi dall'ospedale pari all'importo di cinque giornate di lavoro, l'ammissione per gli ebrei all'esercizio dei diritti civili e politici. Si provvide inoltre allo scioglimento del battaglione estense e alla costituzione di un piccolo esercito di circa 3200 uomini.
Ben presto, però, l'attività governativa si arenò. Infatti l'opposizione dei giornali legittimisti (segnatamente il Diario modenese), le critiche di quelli di tendenza moderata (L'Italia centrale e L'Indipendenza italiana) che pure avevano appoggiato la svolta, l'ostracismo della burocrazia (formata quasi per intero da uomini ligi al governo ducale), l'ostilità, divenuta ancor più forte allorché il M. aderì all'albertismo, dei mazziniani rientrati a Modena con la rivoluzione, ai quali l'azione governativa appariva troppo moderata, e i contrasti tra governo e Municipalità cittadina portarono allo scioglimento del governo (19 giugno). Fu così che il M. abbandonò subito la sua città per trasferirsi a Bologna "onde evitare - come ebbe a scrivere al presidente della Commissione municipale, G. Parenti - qualche nuovo motivo di divisione al nostro Paese in un momento in cui l'unione è tanto necessaria" (Barbieri, p. 46).
Con il rientro a Modena del duca, il M. fu costretto a recarsi con la sua famiglia a Firenze e quindi a Torino ove fu membro di un Comitato per gli Stati di Modena e Parma, che fu sciolto dopo la sconfitta di Novara. Anche per questo fu, insieme con altri fuorusciti, condannato da Francesco V all'esilio perpetuo come "reo di lesa Maestà di primo grado" (8 genn. 1849).
Chiamato a Torino da M. Taparelli d'Azeglio, il M. accettò il consolato a Barcellona, che raggiunse nell'estate del '49. Prima qui, e poi, dal '52, a Tangeri, si dedicò per un decennio all'attività diplomatica con impegno e zelo tanto da meritare la stima dei governi di quei Paesi. Nonostante gli impegni diplomatici lo assorbissero totalmente, non mancò di meditare sul fallimento della rivoluzione, che ascrisse all'opera dei mazziniani e dei repubblicani, la cui propaganda gli parve apportatrice di discordia e causa di debolezza.
A suo avviso, l'indipendenza italiana si poteva conseguire "col concorso dei Principi". A riprova di ciò - scriveva nell'opuscolo intitolato Repubblica o principato in Italia. Lettera di un Lombardo a Giorgio Sand (Lugano 1850) - "non ricorderò i miracoli d'una Roma risorta alla voce del pontefice iniziatore d'Italianità, né gli stupendi fatti di Milano, ove si combatteva, si moriva e si vinceva in nome di Pio Nono, né il levarsi di Venezia e di tutte le città Venete e Lombarde [(]. Mi starò contento a ricordarvi come tutta Europa meravigliasse a quello spettacolo, come dovunque si benedicesse al Pontefice e al principato italiano" (Ascari, p. 23).
Con Mazzini, verso il quale mostrava rispetto pur nel dissenso profondo, condivideva l'idea dell'Unità d'Italia con Roma capitale alla cui realizzazione però - scriveva il M. - "ostavano pur troppo le antiche condizioni politiche della penisola" cui "si aggiunsero nell'anno 1848 difficoltà di più grave momento derivanti dalla genesi stessa della nostra rivoluzione". E aggiungeva: "Non le armi dei governi, non l'arti dei retrivi, ma le disorbitanze rivoluzionarie contrastarono e contrastano il trionfo delle nazioni che si affannano per conquistare l'indipendenza". Il M. era dunque un fautore della monarchia costituzionale sabauda cui dimostrò un grande attaccamento, un avversario dei repubblicani, un moderato, un uomo prudente tutto ordine e legalità. Seppur scherzosamente, in una lettera del 27 nov. 1849 al generale A. Brocchi, già comandante per le cose militari del governo provvisorio, si definiva "incorreggibile codino", amante più della libertà che della demagogia ed esprimeva una recisa condanna dei repubblicani.
Rientrato a Modena nel 1859, fu raggiunto dalla notizia che il suo secondogenito, Ferdinando, era caduto, meritando una medaglia al valore, nella battaglia di San Martino (durante la sua missione a Tangeri gli era morto il primogenito, Emilio, in Crimea). Anche per reagire a questa nuova sciagura il M. si impegnò per la causa per la quale si erano immolati due dei suoi quattro figli, divenne membro dell'Assemblea nazionale delle Provincie modenesi di cui fu nominato presidente nella seduta del 18 agosto. Prescelto da L.C. Farini, prima regio commissario del governo piemontese e ora dittatore, come uno dei suoi collaboratori (decreto firmato il 23 agosto), fu in questa veste inviato insieme con il marchese C. Fontanelli a Parigi e a Londra per patrocinare presso quei governi l'annessione al Regno sardo. Avvenuta l'annessione, venne eletto deputato nel II collegio di Modena (VII e VIII legislatura).
Nel 1862, sia per le condizioni di salute sia per le modeste entrate del suo patrimonio, si dimise da deputato e ottenne di ritornare come console a Barcellona.
Due anni dopo, ormai gravemente ammalato, il M. fece rientro a Modena ove morì il 27 febbr. 1865.
Fonti e Bibl.: Necr., in Il Panaro, 7 marzo 1865; Modena, Arch. stor. comunale, Registro delle nascite nella Comune di Modena, Dipartimento del Panaro, dal 2 gennaio al 24 giugno 1803, n. 165; Arch. di Stato di Modena, Arch. del governo provvisorio del 1848; B. Malmusi, G. M. nelle vicende politiche del suo tempo, Modena 1894; G. Botti, Vie e piazze di Modena, Modena 1938, pp. 196-198; L. Dalzini, I giornali politici modenesi durante il governo provvisorio del 1848, in Rass. stor. del Risorgimento, XXVIII (1941), pp. 21-44; T. Ascari, G. M. nella politica del suo tempo, in Figure modenesi del Risorgimento, Modena 1962, pp. 11-28; P. Zama, Luigi Carlo Farini nel Risorgimento italiano, Faenza 1962, pp. 473, 486; G. Bertuzzi, G. M. e lo scioglimento del governo provvisorio modenese nel 1848, Modena 1966; A. Barbieri, Modenesi da ricordare. Politici, diplomatici e militari, parte II, Modena 1973, pp. 45 s.; G. Silingardi, Modena nei secoli, Modena 1980, pp. 189 s.; L. Amorth, Modena capitale, Modena 1997, pp. 223, 226; L. Carpi, Il Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche d'illustri Italiani contemporanei, III, s.v.; Enc. biografica e bibliografica "Italiana", F. Ercole, Gli uomini politici, II, p. 244; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, sub voce.