LUOSI, Giuseppe
Nacque a Mirandola il 5 sett. 1755 da Giovanni, avvocato, e da Maria Cristina Boccabadati. Studiò prima presso i gesuiti nella sua città natale, poi a Modena, nell'Università appena riformata dal duca Francesco III d'Este. Come il padre si dedicò agli studi giuridici ed ebbe tra i suoi maestri B. Valdrighi, autore del Codice di leggi e costituzioni per gli Stati di sua altezza serenissima, promulgato da Francesco III il 26 apr. 1771. Conseguita la laurea il 22 luglio 1776, il L. completò la pratica legale a Modena per poi tornare a Mirandola, dove svolse, con un certo successo, la professione di avvocato, nonché, dal 1788 al 1796, quella di notaio.
Nel 1782 fu nominato sindaco legale del Consiglio dei conservatori di Mirandola, incaricato del controllo giuridico sugli atti amministrativi della Comunità, con funzioni di collegamento con gli organi centrali dello Stato e con i territori feudali presenti nell'antico Ducato della Mirandola. A tale carica si accompagnava anche quella di sindaco legale della congregazione delle Acque e strade, istituita nel 1774, dove erano rappresentati gli interessi dei territori immediati e di quelli mediati, congregazione della quale nel 1788 il L. divenne presidente stabile. In tale veste collaborò attivamente con il Consiglio di economia di Modena, presieduto dal 1( maggio 1788 da L. Ricci, scontrandosi con le resistenze dei feudatari locali.
In occasione dei rilevamenti necessari alla redazione del catasto, il Consiglio dei conservatori di Mirandola affidò al L. la stesura di un documento da inviare al capo del governo estense, G.B. Munarini. Ne risultò la sua Riflessione sopra lo stato attuale della provincia mirandolese, approvata dal detto Consiglio nel 1791 (pubblicata per la prima volta nel 1977 da E. Ghidoni), nella quale l'autore si esprimeva a favore della libera circolazione delle merci, di un'equa ripartizione del carico fiscale e del frazionamento dei latifondi feudali. L'adesione del L. alle idee riformatrici è attestata anche dal fatto che nel 1787 il suo nome compare - insieme, tra gli altri, con quello di P. Verri - nell'elenco dei soci delle bolognesi Memorie enciclopediche, fondate da G. Ristori (Capra, p. 96).
L'arrivo dell'esercito francese negli Stati estensi nel 1796 segnò una svolta nella vita del Luosi. Le truppe napoleoniche entrarono a Mirandola il 17 giugno, agli ordini del generale P. Augerau, che il L. ebbe modo di frequentare presso la residenza di un amico, il conte O. Greco. Pochi mesi dopo fu chiamato a far parte del Comitato di governo degli Stati estensi, installato a Modena il 9 ott. 1796. In seguito all'unificazione degli Stati estensi con i territori di Bologna e Ferrara, entrò nella Giunta di difesa generale della Cispadana, per essere, infine, nominato governatore dell'Emilia.
Con la creazione della prima Repubblica Cisalpina ebbe inizio la carriera milanese del L., deputato al Corpo legislativo: il 30 giugno 1797 Napoleone Bonaparte lo pose a capo del ministero della Giustizia, al quale si aggiunse (14 novembre) quello dell'Alta Polizia dello Stato. L'incarico durò solo dieci mesi. Il 31 ag. 1798, per le modifiche operate dall'ambasciatore francese C.-J. Trouvé, il L. fu eletto membro del Direttorio esecutivo. Coinvolto nei cambiamenti politici susseguitisi a Milano in quei mesi concitati, fu dapprima (19 ottobre) allontanato dal generale G. Brune, che gli intimò di abbandonare la sua carica in cambio, pare, della promessa, non mantenuta, di riottenere il posto di ministro (Pingaud, p. 114), poi richiamato dal nuovo ambasciatore O. Rivaud (14 dicembre).
Da allora il L. ricoprì le funzioni di presidente del Direttorio, che continuò a esercitare anche in esilio quando, rovesciata la Cisalpina dalle truppe austro-russe, i membri del Direttorio si diedero alla fuga (28 apr. 1799). Dopo più di un anno trascorso, prima a Chambéry, poi a Ginevra e Parigi, tornò a Milano con il ristabilimento della Cisalpina successivo alla vittoria di Marengo.
Dal giugno 1800 fece parte della Consulta legislativa, partecipando ai lavori della sezione criminale, costituita nel 1801 per seguire i lavori di codificazione penale e di procedura penale. Proprio al L. si deve la redazione di un progetto di codice penale, completata nel novembre dello stesso anno (Vanzelli, p. 49).
Composto da 443 articoli divisi in quattro libri, i primi tre dedicati alla materia criminale, il quarto alla materia correzionale, il suo testo accoglieva le idee illuministiche e contrattualistiche, così come elaborate dalla scienza penalistica italiana e, in particolare, da G. Filangieri, ponendosi allo stesso tempo in una linea di continuità con i progetti di codificazione per la Lombardia austriaca. Nonostante le affermazioni di principio contenute nell'ampia parte generale, riguardanti, tra l'altro, il principio di legalità, la sottoposizione del giudice alla legge, la divisione dei reati in pubblici e privati, il progetto del L. era sostanzialmente moderato e non scevro da una buona dose di autoritarismo, come risulta dalla disciplina delle singole fattispecie criminose. Tra il 1802 e il 1805 il testo del codice penale passò al vaglio di alcuni giuristi e di un'apposita commissione presieduta da G. Ristori, subendo alcuni interventi correttivi che non ne mutarono però la struttura sostanziale. In seguito, esso fu utilizzato dalla commissione incaricata della redazione di un codice penale per il Regno d'Italia.
Quale membro della Consulta legislativa, il L. partecipò di diritto ai Comizi di Lione, voluti da Bonaparte per dare una carta costituzionale alla Repubblica Italiana. Fu inserito tra i deputati chiamati a far parte del Comitato dei trenta, che offrì a Bonaparte la presidenza della Repubblica. A Lione fu anche eletto tra i componenti la Consulta di Stato (26 genn. 1802) e, in questa veste, il 17 marzo 1805 si recò a Parigi a pregare l'imperatore Napoleone I di accettare la corona d'Italia.
Nel suo soggiorno a Milano in occasione dell'incoronazione (8 maggio - 10 giugno 1805), Napoleone volle presiedere personalmente le prime dieci sedute del Consiglio di Stato. Negli incontri con i membri della sezione di giustizia, presieduta dal L., furono affrontati i problemi dell'ordinamento giudiziario del Regno e della codificazione da intraprendere e l'imperatore impartì le direttive cui avrebbero dovuto conformarsi i giuristi italiani. Come è stato sottolineato, in tali riunioni "l'autentico interlocutore di Napoleone" fu il L., che nella seduta del 30 maggio propose all'imperatore il suo progetto di codice penale del 1801 come punto di partenza su cui lavorare in vista di una futura codificazione penale italiana (Cavanna, p. 696).
Pochi giorni dopo, il 9 giugno 1805, il L. fu nominato da Napoleone gran giudice e ministro della Giustizia al posto di G.B. Spannocchi, carica che ricoprì senza interruzioni fino al 20 apr. 1814, diventando il promotore dei tentativi di codificazione intrapresi durante il Regno Italico. Appena ottenuta la nomina, predispose la traduzione in italiano e in latino del Code civil, entrato in vigore in Italia il 1( apr. 1806, oltre alla redazione di un Regolamento organico della giustizia civile e punitiva, entrato in vigore il 1( genn. 1807. Inoltre si adoperò alacremente per attuare i programmi enunciati nelle sedute del Consiglio di Stato, dando impulso alla redazione dei codici penale, di procedura penale e di procedura civile, ai quali, nell'aprile 1806, si aggiunse anche il progetto di un codice di commercio.
In realtà, nonostante i suoi sforzi, tali lavori si rivelarono in gran parte inutili, dal momento che, tra il 1806 e il 1810, Napoleone ordinò la traduzione e l'entrata in vigore nel Regno Italico dei rispettivi codici francesi. L'unico testo frutto di una autonoma elaborazione di giuristi italiani che giunse alla promulgazione è quello di procedura penale del 1807, la cui redazione era stata affidata dal L. a G.D. Romagnosi, per il quale nel 1808 istituì a Milano la cattedra di alta legislazione.
Tuttavia il progetto di codice penale del 1806 esercitò ugualmente una notevole influenza sui codici della Restaurazione e, tramite questi, sul diritto penale italiano, grazie anche alla pubblicazione, fortemente voluta dal L., dei lavori delle commissioni che avevano contribuito all'elaborazione del testo. L'opera, in sei volumi (Collezione dei travagli sul codice penale pel Regno d'Italia, Brescia 1807), comprende, oltre al progetto, accompagnato dal rapporto della commissione contenente le relative motivazioni, le osservazioni dei tribunali e dei procuratori regi, nonché di penalisti italiani, quali F. Renazzi e L. Cremani.
Per la sua collaborazione, Napoleone colmò il L. di onori. Dal 1802 fu membro, nella classe dei dotti, del Gran Collegio elettorale del Regno; il 12 apr. 1809 fu creato conte; il 7 febbr. 1810 senatore del Regno; membro onorario del R. Istituto di scienze, lettere ed arti dal 25 dic. 1810, fu altresì insignito del gran cordone della Corona di ferro e della grand'aquila della Legion d'onore.
Se i contemporanei non misero in dubbio le sue doti di giurista, le debolezze dell'uomo furono oggetto di critiche e di scherni da parte dei Milanesi. Amante del lusso e della mondanità, visse al di sopra dei suoi mezzi, costringendo lo stesso Napoleone a intervenire più di una volta a ripianare i suoi debiti. La sua figura pubblica e di studioso ha dato adito a giudizi contrastanti nella storiografia. M. Roberti ha parlato di "evidente servilismo" verso Napoleone e C. Zaghi di "passività" e "remissività"; altri hanno respinto queste accuse, sottolineando piuttosto gli sforzi incessanti del L. nel promuovere l'opera di codificazione e nel salvaguardare in diverse occasioni la specificità della tradizione giuridica italiana. Inoltre, gli è stato da più parti riconosciuto il merito di avere chiamato uomini di indubbie capacità a far parte dell'apparato giudiziario e a collaborare ai progetti legislativi. D'altro canto, se è innegabile che di fronte alla volontà dell'imperatore che imponeva la promulgazione dei codici francesi il L. mutò ogni volta repentinamente atteggiamento, affrettandosi ad approntarne le traduzioni, occorre tenere presente la realtà dei suoi rapporti con Napoleone. Come è stato messo in evidenza, da questo punto di vista il L. appare una "figura assolutamente paradigmatica" di un certo ambiente giuridico-culturale formato da alti funzionari che, in Italia come in Francia, dovevano la loro ascesa politica e la loro fortuna interamente al favore imperiale (Cavanna, p. 725).
Al ritorno degli Austriaci, nel 1814, il L. continuò per breve tempo a dirigere il ministero della Giustizia sotto il governo provvisorio, nel tentativo di salvare il Regno. In seguito si ritirò a vita privata, conservando la residenza a Milano, dove morì il 1( ott. 1830.
Lasciava la vedova, la mirandolese Carlotta di Francesco Pozzetti (1771-1846), sposata il 12 ott. 1788, dalla quale si era in seguito separato, e la figlia Elisabetta, sposata con il modenese G. Orlandi, unica sopravvissuta dei cinque figli, essendo gli altri morti in tenera età.
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