IPPOLITI (Hippoliti), Giuseppe
Nacque a Pistoia il 12 marzo 1718 da Giovanni Battista, cavaliere di S. Stefano, e da Maria Caterina Fabroni, entrambi patrizi pistoiesi. Ricevette dai genitori un'educazione religiosa accurata e svolse in patria studi di lettere e filosofia con ottimi risultati. Nel febbraio 1736, compiuto quel ciclo di studi, manifestò il desiderio di entrare nella Congregazione dell'Oratorio di S. Filippo Neri: esisteva un antico rapporto fra la casa pistoiese della Congregazione e la famiglia Ippoliti, un membro della quale, Jacopo di Donato, nel 1599 ne aveva promosso e favorito la fondazione malgrado gravi ostacoli, e ne era divenuto preposito nel gennaio 1602, profondendo, con l'aiuto della famiglia, notevoli somme per il suo radicamento. Per questo, e per le sue qualità, il 13 apr. 1737 l'I. vi fu ammesso come convittore e fu formalmente ricevuto in quella famiglia religiosa il 2 luglio successivo. Compiuti gli studi, fu lettore di sacre scritture e di storia ecclesiastica; venne ordinato sacerdote il 18 marzo 1741.
Cominciò allora a esercitarsi nella predicazione, nella quale fu molto apprezzato per le sue doti di amabile mitezza e si distinse poi nell'esercizio della carità verso gli indigenti, specialmente negli ospedali. Anche nell'ambito della Congregazione si fece apprezzare, al punto che il 31 dic. 1750 venne eletto con voto unanime preposto della casa: in quella carica promosse importanti lavori negli edifici, ormai insufficienti, e fece adornare la chiesa con dipinti di G.D. Ferretti alle pareti e di L. Del Moro nella cupola. Ma si spinse tanto avanti nella ricostruzione quasi dalle fondamenta della casa (la volle comoda e vasta) che si trovò in gravi difficoltà finanziarie: venne dunque a proposito la pingue eredità lasciata allora alla Congregazione pistoiese dal padre F.M. Mandorli-Burchi, preposto dell'Oratorio di S. Firenze, anche se il conseguimento di essa non avvenne senza difficoltà, perché le recenti leggi sulle mani morte ne decretavano l'avocazione al demanio. Solo gli interventi dell'I. e del fratello, il senatore Carlo, che era in grazia del conte E. de Richecourt (dal 1749 ministro del granduca, e imperatore, Francesco Stefano), riuscirono a ottenere un rescritto (10 apr. 1752) che autorizzò l'esecuzione del testamento.
Dopo un periodo trascorso a Roma per il giubileo, l'I. dovette recarsi più volte a Firenze; fu da quella città che, inaspettatamente, annunciò per lettera la sua decisione di lasciare la Congregazione. Le cause del gesto sono rimaste ignote, nonostante i tentativi e le ricerche fatte per conoscerle, anche da parte dei confratelli, che con insistenza cercarono di trattenerlo. La sola risposta che ottennero fu che aveva da mesi ponderato la decisione. Fu allora che Francesco Stefano, informato delle sue virtù e qualità, lo designò a vescovo di Cortona, ottenendone da Benedetto XIV la consacrazione in Roma, alla chiesa Nuova, il 20 maggio 1755, per mano del cardinale fiorentino G.M. Feroni, poco dopo che l'I. aveva ottenuto la laurea in sacra teologia alla Sapienza.
Aveva allora solo 38 anni. Preso possesso della diocesi (28 ottobre) la sua prima cura fu la formazione del clero diocesano. A tale scopo intraprese nuovamente un grosso impegno edilizio, facendo ripavimentare la cattedrale e dando mano alla costruzione dalle fondamenta di un nuovo seminario: per reperire i fondi necessari pose in stretta economia l'amministrazione della diocesi, licenziò temporaneamente i convittori del vecchio seminario (conservando però le scuole) e nel 1760 diede inizio ai lavori, completati nel 1765 sulla base di un progetto del pistoiese R. Cilli (l'inaugurazione dell'istituto fu differita al 1772). È di un certo interesse la Pastorale per l'apertura del seminario (Arezzo 1772), che non solo lo provvede di regole e costituzioni di qualche originalità per i tempi, ma ne fornisce anche la storia, esponendo le difficoltà incontrate per realizzarlo.
La linea dell'I. nel governo della diocesi fu un continuo tentativo di equilibrio fra severità e rilassatezza: per l'istruzione elementare volle che si seguisse in tutto il catechismo del Bellarmino (questo fu poi il principale argomento per difendere la sua memoria dal sospetto di giansenismo), e ai confessori raccomandò di attenersi agli "avvertimenti" di s. Carlo Borromeo, facendo inoltre osservare le istruzioni di Benedetto XIV per l'ammissione ai sacramenti. Tenne molto alla cultura dei suoi preti, ma anche all'osservanza da parte loro dei doveri anche formali del loro stato, come risulta dalla minuziosa Pastorale ove si dimostrano i doveri e le obbligazioni che porta seco tanto la recitazione privata che il canto e la recitazione pubblica del divino uffizio (Firenze 1768), dalla Relazione alla S. Sede del 25 marzo 1765 e dagli Atti capitolari del 1775. Pose grandissimo impegno nelle visite pastorali, che presentavano difficoltà non comuni a causa della natura montuosa del territorio diocesano, ma che volle ugualmente effettuare anche nei paesi più impervi, con dannose conseguenze per la sua non buona salute. Dovunque predicò, e fece predicare dai preti delle missioni di S. Vincenzo de' Paoli. Nel febbraio 1766 cadde gravemente ammalato, ma guarì.
L'indole caritatevole cui si è accennato ebbe modo di manifestarsi pienamente durante la gravissima carestia che colpì il territorio nel 1766-67 (già ve ne era stata una nel 1763) causando la morte di quasi 3000 persone: l'I. non esitò a dar fondo a quanto possedeva e a impegnare anche le argenterie, per fornire a tutti i parroci della diocesi per due volte alla settimana il pane necessario a tenere in vita i loro poveri, per tutta la durata del flagello.
Risale a quel periodo una sua coraggiosa pubblicazione, che palesa una presa di posizione molto decisa nei riguardi dei problemi sociali e rende la sua personalità, per altri aspetti non particolarmente interessante, degna di ricordo e di studio, per l'approfondita analisi economica e comportamentale che propone. L'opera, protetta da un trasparente anonimato, affronta con notevole chiarezza, anche linguistica, il problema dei rapporti tra proprietari agricoli e contadini (l'economia cortonese era eminentemente basata sull'agricoltura, attraverso contratti di mezzadria) schierandosi contro i soprusi e le sopraffazioni cui la parte più debole e ignorante era sottoposta.
Si tratta della Lettera parenetica, morale, economica di un parroco della Val di Chiana a tutti i possidenti comodi, o ricchi, concernente i doveri loro rispetto ai contadini (Firenze 1772): già nell'introduzione il tono appare deciso, e dura l'affermazione che scopo della pubblicazione è "difendere la causa dei lavoratori in faccia ai padroni" (p. III). Partendo dalla gravissima carestia di cui sopra, e sulla base di una tabella (p. 33) che fornisce statistiche sull'agricoltura locale dal 1762 al 1771, l'I. confuta le accuse rivolte dai proprietari ai contadini, fra cui principale quella di rubare, sostenendo che si tratta di un vizio imposto dall'estrema povertà (che i padroni stessi manterrebbero per meglio controllarli), che porta a piccoli furti alimentari, di nessun rilievo nell'economia dei fondi (cap. I, pp. 1-15). Nel cap. II (pp. 16-32) mostra poi che tale atteggiamento vessatorio è contrario non solo alla morale cattolica, ma anche al pubblico interesse, concludendo che i coloni, anche se costretti a un duro lavoro, sono in qualche modo felici, mentre i loro padroni che vivono nell'ozio non lo sono quasi mai. Si può immaginare quale vespaio di critiche tale pubblicazione sollevò; le Novelle letterarie le dedicarono un articolo, che esordiva ammettendo che gli assunti dell'opera erano "veri nella sostanza" e "sostenuti con molto zelo, con infiammata eloquenza ed anche con entusiasmo", ma concludendo poi con una sostanziale condanna. L'autore, davanti alle critiche e alle durissime reazioni dei proprietari, si vide costretto a ristampare l'opera (Firenze 1774) con l'aggiunta di un'ampia seconda parte, ed estendendo il titolo: "coll'aggiunta di un'istruzione morale-economica sull'educazione, e sui doveri dei contadini". Questa lunga appendice (pp. 47-133) parte dalla considerazione che, siccome i contadini sono per lo più analfabeti, occorrono dei mediatori per far giungere loro quel messaggio, e che i più idonei a ciò sono i parroci (p. 51), anche perché i contenuti di tale istruzione in fondo coincidono con quelli della morale cattolica (pp. 52-63). Il cap. III, però, è un minuzioso esame dei doveri e degli abusi dei coloni: dall'economia rustica in generale (p. 82) all'eccessiva autonomia delle donne nello sfruttamento degli animali da cortile a scapito dei padroni (p. 85), dalle nozze rustiche con eccesso di conviti (p. 90) ai divertimenti rustici (p. 94), dalla fatica diurna e notturna (p. 102) alle tecniche da usarsi con diligenza (p. 108), dalla fedeltà al podere (p. 116) all'affezione per il padrone (p. 120). Suona poi singolare, da parte di un vescovo di quel tempo, l'affermazione "che sarebbe meglio un prete in meno e un cerusico in più" (p. 111).
Il 19 ott. 1769 l'I. accolse il nuovo granduca Pietro Leopoldo in visita alla città. Nel 1771, nuovamente ammalato, trascorse otto mesi a Pistoia; rientrato a Cortona nel 1772 per l'inaugurazione del nuovo seminario, ricadde e tornò in patria fino all'inizio del 1773, e ancora nel 1774, sia per motivi di salute, sia per assistere i nipoti che avevano perduto il padre. Anche nel 1775 fu nella città natale, dove officiò il pontificale per le esequie del vescovo F. Alamanni. Da tempo meditava di indire un sinodo diocesano, che aveva rimandato nella speranza di coinvolgere nell'iniziativa qualche altro vescovo della regione, quando gli giunse notizia della sua traslazione alla sede episcopale di Pistoia e Prato, vacante per la morte del sopra menzionato mons. Alamanni. Certo, divenire vescovo della città natale non gli dispiacque: se la Lettera pastorale di congedo al clero e popolo cortonesi del 21 febbr. 1776 manifesta afflizione per dover abbandonare Cortona dopo 20 anni e 11 mesi di ministero, quella ai pistoiesi del 16 aprile manifesta invece gioia e soddisfazione. Eletto alla nuova sede il 15 apr. 1776 e gratificato dal breve del 22 successivo, che gli delegava la facoltà di impartire la benedizione apostolica in articulo mortis (privilegio da lui allargato ai parroci con la Lettera sull'assistenza ai moribondi del 2 giugno), prese ufficialmente possesso della diocesi il 25 aprile, tramite il vicario generale capitolare Bracciolini, e fece il "solenne ingresso" il 27.
Fu accolto con esultanza dalla popolazione, entusiasta di avere un vescovo concittadino; già il 18 luglio, perseverando nella sua austera consuetudine, annunciò le visite pastorali, cui diede inizio il 28. Questa volta fu ancora più difficile che a Cortona, sia perché il territorio della nuova diocesi era molto più impervio, sia perché le sue condizioni fisiche erano peggiorate (itinerando per i villaggi, arrivò a predicare fino a sette volte al giorno). Naturalmente anche qui si occupò subito del seminario, che pure aveva trovato ben diretto e fiorente, pubblicando una meticolosa Pastorale in occasione di fissare e approvare le regole e costituzioni del seminario e collegio vescovile della città di Pistoia (Pistoia 1778); a quello di Prato, poi, diede un personale aiuto finanziario, sancendo l'unione al patrimonio di esso di un pingue giuspatronato spettante alla sua famiglia, di cui egli godeva dal 1747.
Sembra che la sua salute, ma anche le sue energie psichiche, declinassero rapidamente: colpito da improvvisa apoplessia totale, morì a Pistoia solo 12 ore dopo, il 22 marzo 1780. Venne deposto nel sepolcro della famiglia, nella chiesa della Madonna dell'Umiltà, dove il fratello Carlo, senatore fiorentino, e il nipote Francesco, cavaliere di S. Stefano, fecero erigere un monumento la cui iscrizione lo definisce "padre dei poveri e delle arti liberali".
Gli successe nel giugno Scipione de' Ricci, che nelle sue memorie fu duro con lui, affermando di aver trovato a Pistoia il clero ignorante e il popolo in balia di se stesso. Secondo uno dei principali biografi del Ricci, L.-J.-A. de Potter, negli ultimi tempi le facoltà dell'I. si erano tanto indebolite "che i suoi aderenti e domestici padroneggiavano lui e il patrimonio della Chiesa come se fosse stato loro diritto; e perfino gli affari spirituali trattavansi da costoro, ne' la vecchiezza e il carattere dolce del Vescovo vi si opponeva". Sulla scorta delle citate memorie del Ricci (che, desideroso di dimostrare una certa continuità fra gli episcopati di Alamanni e dell'I. e il suo, dichiara che l'I. era appassionato lettore delle opere degli adepti di Port-Royal e delle Nouvelles ecclésiastiques, organo, diffuso in tutta Europa, dei giansenisti francesi), alcuni lo vollero fautore di quel movimento; dai documenti conosciuti però non risulta una sua pretesa appartenenza al partito riformatore, che un episodio molto significativo degli ultimi mesi di vita dell'I. sembrerebbe anzi mettere in dubbio. Perseguendo la sua politica di riforme e di autonomia nei riguardi della S. Sede, Pietro Leopoldo teneva a far apparire che essa derivava direttamente dai vescovi: a tale scopo il 13 nov. 1779 aveva inviato loro un formulario-petizione contenente 34 Facoltà da domandarsi a Roma dai vescovi, con il pressante invito a sottoscriverlo; tuttavia l'I. fu tra quelli che rifiutarono con fermezza di farlo. In conclusione, sintesi della sua dottrina può essere considerato uno degli ultimi documenti da lui pubblicati, l'Istruzione pastorale ai parrochi della sua diocesi di Pistoja, con un discorso pronunziato dal medesimo nella prima adunanza delle conferenze morali intorno all'amministrazione del sacramento della penitenza, con un breve compendio della dottrina cristiana (Pistoia 1778).
L'I. fu socio dell'Accademia Etrusca di Cortona, della quale nel 1767 fu lucumone. Appassionato intenditore di musica, curò molto questo aspetto della liturgia. Solo a Cortona aveva emesso più di 50 fra pastorali, editti e istruzioni, e pronunziato non meno di tre omelie all'anno. Dei documenti a stampa, oltre a quelli forniti nel testo, si ricordano Lettera pastorale per le feste triennali di S. Margherita (Arezzo 1760), Sull'uniformità del catechismo ai parrochi e confessori (Pistoia 1760), e Per la conservazione dei nostri sovrani (Arezzo 1770).
Fonti e Bibl.: L'Arch. vescovile di Cortona è attualmente in corso di sistemazione; i soli documenti dell'I. raggiungibili sono le Visite pastorali, scaffale XIV, n. 4; Pistoia, Arch. vescovile, Atti delle visite pastorali, faldoni B.20, B.21, e atti di governo (distribuiti in collocazioni diverse, a seconda dell'argomento); Pistoia, Biblioteca comunale Forteguerriana, Mss., 660: B. Cecchetti, Annali cortonesi dal 1763 al 1802, passim; Novelle letterarie, n.s., III (1772), dicembre (recensione della Lettera parenetica); Elogio di mons. G. I. letto nell'Accademia Etrusca dal preposito Quinzio Venuti il 10 luglio 1780, s.l. né d.; L.-J.-A. de Potter, Vie de Scipion de' Ricci, I, Bruxelles 1825, pp. 45 s., e capp. VIII-IX, XV passim; C.A. De Rosa di Villarosa, Memorie degli scrittori filippini, o siano della Compagnia dell'oratorio di S. Filippo Neri, Napoli 1837, pp. 149 s.; Memorie di Scipione de' Ricci, a cura di A. Gelli, I, Firenze 1865, pp. 87, 150 s.; V. Capponi, Biografia pistoiese, o Notizie della vita e delle opere dei pistoiesi illustri…, Pistoia 1878, pp. 244-246; G. Beani, Notizia biografica di monsignor G. I., Pistoia 1878; G. Mirri, Notizie del seminario di Cortona, Cortona 1924, pp. 47-53; M.R. Caroselli, Critica alla mezzadria di un vescovo del '700, Milano 1963; A. Wandruszka, Pietro Leopoldo, un grande riformatore, Firenze 1968, p. 437; G. Mirri, I vescovi di Cortona dalla istituzione della diocesi (1325-1971),ora riveduta ed adeguata da Guido Mirri sotto gli auspici dell'Accademia Etrusca, Cortona 1972, pp. 5, 335, 381-401, 466; S. Ferrali, Il vescovo G. I. e una iniziativa anticuriale del granduca Pietro Leopoldo, in Bull. stor. pistoiese, LXXXI (1979), 1-2, pp. 83-89; M. Valbonesi, I vescovi di Pistoia dal 1137 al 1780, Pistoia 1997, ad ind.; G. Melzi, Diz. delle opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, II, Milano 1852, p. 109; R. Ritzler - P. Sefrin, Hierarchia catholica, VI, Patavii 1958, pp. 184, 340.