GUADAGNINI, Giuseppe
Nacque a Bologna il 9 giugno 1876 da Antonio e Clelia Baroni.
Dopo la laurea in giurisprudenza, il 10 apr. 1899 fu immesso per pubblico concorso nei quadri della carriera di funzionario del ministero degli Interni, prestando servizio successivamente a Monza, Novara, Bologna; in quest'ultima sede, durante la guerra, coadiuvò la prefettura come ispettore addetto a compiti di pubblica sicurezza.
Nel corso del conflitto e immediatamente dopo lavorò presso il ministero in qualità di segretario generale dell'alto commissariato per l'Assistenza ai profughi. Il 25 ag. 1919 fu nominato prefetto di 2ª classe; fu, quindi, prefetto di Caltanissetta (agosto 1919 - novembre 1920), Cosenza (novembre 1920 - dicembre 1921), Cremona (dicembre 1921 - luglio 1922), restando a disposizione fra il luglio e il novembre 1922. Da quella data ricoprì l'incarico di prefetto di Trento (novembre 1922 - dicembre 1926), per essere infine nominato, il 5 marzo 1926, prefetto di 1ª classe a Bologna (dicembre 1926 - gennaio 1934). Senatore del Regno dal novembre 1933, venne collocato a riposo per ragioni di servizio nel gennaio 1934; al Senato fu presidente della commissione legislativa Affari interni.
Nel corso della sua lunga carriera prefettizia ebbe presto modo di distinguersi nella stagione del biennio rosso, coadiuvando la repressione dei movimenti contadini.
Fra il 1919 e il 1920, nella sua prima sede in Sicilia, bloccò sul nascere il tentativo di occupazione delle terre. Il contributo alla "normalizzazione" delle campagne siciliane favorì il trasferimento a Cosenza, dove continuò ad affiancare gli agrari nel fronteggiare le agitazioni contadine.
Furono queste ulteriori credenziali a valergli la sede di Cremona, dove il movimento contadino rappresentava una realtà molto forte e sindacalmente organizzata, difficile da fronteggiare per il governo, nel momento in cui in Valpadana si andava contestualmente organizzando il primo forte nucleo dello squadrismo fascista.
Il G. venne dunque a trovarsi, fra Emilia e Lombardia, al centro del "quadrilatero" - la definizione è di I. Balbo - formato da Bologna, Ferrara, Mantova e Cremona, in un momento in cui il movimento bracciantile resisteva ancora solo a Cremona. Qui popolari e contadini cattolici, sotto la guida di G. Miglioli, deputato di Soresina, erano riusciti a strappare un patto di lavoro denominato lodo Bianchi, approvato dal tribunale di Cremona, che codificava per la prima volta alcuni principî quali la compartecipazione dei salariati alla direzione dell'azienda, con il diritto a una parte degli utili netti, e l'istituzione di commissari, cioè "rappresentanti dei coloni, incaricati di controllare la contabilità dell'azienda, di partecipare con piena autorità alla compilazione degli inventari e alla formazione dei bilanci", nonché "rendersi interpreti presso il conduttore delle osservazioni" eventualmente presentate dai contadini circa la conduzione dell'azienda (Fappani, p. 264).
Il G., accogliendo le richieste degli agrari, il 1° genn. 1922 emise d'autorità un decreto che sospendeva l'applicazione del lodo; il 26 marzo nominò una commissione presieduta da un magistrato incaricato di redigere nuove norme di lavoro e di ridefinire i rapporti fra salariati e agrari. Sostenuto dal ras cremonese R. Farinacci e dal sindacalismo fascista, l'11 aprile il G. emise, infine, il decreto prefettizio che annullava definitivamente il lodo, cancellandone l'esistenza e sostituendolo con un nuovo capitolato, emesso dalla commissione da lui nominata.
Subito dopo la marcia su Roma, nell'ambito della "manovra dei prefetti" che portò 48 prefetture a cambiare titolare nei primi sei mesi del governo Mussolini, il G., il 3 nov. 1922, fu nominato prefetto di Trento; gli venne, inoltre, assegnata la giurisdizione sulla provincia unica della Venezia Tridentina, comprendente l'Alto Adige.
Dopo l'esperienza cremonese, durante la quale si era qualificato quale aperto fiancheggiatore degli agrari e dei fascisti, lo spostamento del G. a Trento fu chiaramente dettato dalla volontà di avere un uomo fedele al nuovo governo in un'area delicata, sia per ciò che rappresentava sia per quel che aveva rappresentato; tanto più che il modus operandi nei confronti delle minoranze linguistiche dell'Alto Adige fu uno dei banchi di prova significativi del fascismo giunto al potere.
Il G. diede immediatamente corso alla politica voluta dal nuovo governo emanando i decreti che favorivano l'italianizzazione dei territori in questione: il 27 apr. 1923 fu eliminata la toponomastica di lingua tedesca e introdotta quella in lingua italiana; con l'ordinanza dell'8 ag. 1923 fu vietata l'utilizzazione del nome Tirolo in atti pubblici, introducendo le denominazioni ufficiali di provincia di Trento, Venezia Tridentina, Alto Adige e altoatesino; nell'ottobre dello stesso anno furono emanate le ordinanze relative all'uso esclusivo dell'italiano come lingua ufficiale e all'italianizzazione della scuola di lingua tedesca. Dimostrativa del significativo ruolo rivestito dal G. è anche la sua protratta permanenza a Trento, in contrasto con la prassi fino allora seguita di spostare i prefetti ogni due anni; dopo la crisi Matteotti, infatti, egli non fu incluso nella seconda ondata di trasferimenti, verificatasi fra il gennaio e il febbraio 1925, e rimase nel suo incarico fino al dicembre 1926, quando ormai la parte di sua competenza relativa all'attuazione della legislazione fascista era già stata attivata, soprattutto con i provvedimenti del novembre concernenti la difesa dello Stato, la sospensione delle opposizioni, lo scioglimento dei partiti, l'istituzione del tribunale speciale, del confino e della pena di morte.
Seguì, alla fine del 1926, la nomina a prefetto di 1ª classe e il trasferimento a Bologna, una sede in cui l'importanza del ruolo del G. era, invece, collegata a quanto andava succedendo all'interno del fascismo cittadino.
A Bologna, già dal 1924-25, D. Grandi stava procedendo alla normalizzazione del Partito nazionale fascista (PNF) tramite l'estromissione della componente squadrista. Il G., attivo sul territorio bolognese fino al 1934, favorì questo processo reprimendo ogni forma di dissenso interno al PNF; egli, quindi, nella circostanza non si limitò a "servire lo Stato, qualunque esso fosse", come era nella logica della funzione per la maggior parte dei prefetti, ma agì assumendo in prima persona un ruolo chiave e politicamente ben definito nel contrasto fra normalizzatori ed ex squadristi.
In città si inserì in un sistema di equilibri retto, dopo Grandi, da L. Arpinati, il quale aveva assunto la podesteria nel 1927, e si era circondato di uomini d'ordine, principalmente possidenti che, a rotazione, andarono poi a ricoprire il ruolo di podestà. A garantire questo sistema di alleanze fu proprio il G., che fu al centro delle relazioni intersettoriali ed esterne. Il risultato cui si approdò - e che lo ebbe in apparenza in funzione di supporto "tecnico" all'operazione, di fatto quale supervisore occulto - si configurò come la restaurazione, sociale e politica, della tradizionale borghesia conservatrice cittadina.
Un'ulteriore riprova della funzione espressa dal G. a Bologna è data da un episodio avvenuto all'indomani della firma dei trattati del 1929 fra Chiesa e Stato, che aveva reso ancora più aspro il contrasto fra l'ufficialità del regime e il fronte anticoncordatario del fascismo padano. Le polemiche scoppiarono esplicitamente quando il quotidiano cattolico L'Avvenire d'Italia lanciò un appello a favore del concordato, leggendolo tuttavia non come un voto di sostegno al regime, ma come "un sì al patto storico dei nuovi rapporti". L'Assalto, espressione del fascismo bolognese, accusò allora L'Avvenire di fare "della politica e per di più dell'antifascismo" e intraprese una vera e propria campagna contro l'Azione cattolica. La situazione fu mediata dall'arcivescovo di Bologna G.B. Nasalli Rocca ma soprattutto dal G., che richiamò più volte il fascio locale, che aveva agito contro le direttive nazionali mussoliniane, e vigilò sui suoi eccessi.
Dal 1932, il G. fu presidente del Consiglio provinciale dell'economia corporativa di Bologna. In pensione dal 1934, si dedicò, nella sua città, ad attività di studio, e ricoprì varie cariche che mantenne fino alla morte; in tali circostanze si reinventò anche fecondo poligrafo, soprattutto in merito a temi storici.
Il G. morì a Castel San Pietro Terme (Bologna) l'8 nov. 1966.
Fra i lavori del G. si ricordano: Riosto e gli Ariosto: Ludovico Ariosto bolognese?, in Il Comune di Bologna, 1931, n. 10; Napoleone e lo spoglio del Monte di pietà di Bologna, in La Strenna delle colonie scolastiche bolognesi, XLII (1939); La Società napoleonica e l'Accademia di agricoltura di Bologna, ibid., XLIII (1940); La compagnia dei Toschi in Bologna, ibid., XLIV (1941); Lucio Pomponio il bolognese, in Rendiconto delle sessioni della Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali, s. 4, X (1948).
Il G. fu membro della Deputazione bolognese di storia patria, presidente della Società agraria napoleonica, del Monte dei pegni e del Monte del matrimonio di Bologna, dell'Accademia di agricoltura, della fondazione Comellini; fu inoltre gran cordone dell'Ordine della Corona d'Italia e grand'ufficiale dell'Ordine mauriziano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Prefettura, agli anni relativi; A. Fappani, G. Miglioli e il movimento contadino, Roma 1964, pp. 264, 271 s.; Bologna, a cura di R. Zangheri, Roma-Bari 1986, pp. 144, 149; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, I, Roma 1967, p. 243; M. Toth, L'introduzione dell'amministrazione italiana nelle terre di confine (1918-1928). Dai governatori militari ai commissari civili: l'esperienza dei Comuni di Trento e Trieste, in Instrumenta. Riv. di cultura professionale, II (1998), 6, p. 319; A. Cifelli, I prefetti del Regno nel ventennio fascista, Roma 1999, pp. 143 s.