GRASSI, Giuseppe
Nacque a Lecce, nel Salento, l'8 maggio 1883, secondogenito di Pasquale e di Michelina Apostolico, in una famiglia d'antica nobiltà provinciale.
Il casato vantava una lunga tradizione intellettuale e un'ascendenza liberale, sin dai tempi della Repubblica napoletana del 1799; il padre era un proprietario terriero di sentimenti liberali, la madre proveniva da una famiglia di magistrati borbonici di stretta osservanza cattolica la quale, dopo l'Unità, trovò naturale collocazione nelle fila dell'intransigentismo; lo zio, Sebastiano Apostolico, fratello di Michelina, determinò l'evoluzione di questa posizione originaria: l'appoggio assicurato all'attività sociale della chiesa cittadina lo rese partecipe di un più generale processo di graduale e progressivo stemperamento delle rigidità che avevano caratterizzato le posizioni politiche dei cattolici leccesi nella fase immediatamente postunitaria, alimentando, nel Salento, la spinta verso la conciliazione tra cattolici e liberali. Questo zio, per due volte sindaco di Lecce ed esponente autorevole del locale Consiglio provinciale, ebbe un'importanza notevole nella formazione del giovane G., in quanto, alla morte della sorella, avvenuta agli inizi degli anni Novanta, toccò a lui sovrintendere all'educazione del nipote.
Egli affidò il G. al collegio Argento di Lecce, istituzione gestita dai gesuiti che aveva seguito la medesima deriva della famiglia Apostolico: fondata dall'aristocrazia cattolica come trincea degli irriducibili, col tempo si trovò a favorire il riavvicinamento e l'accordo tra l'elemento cattolico "transigente" e la corrente dei liberali moderati. La formazione del G. si svolse, dunque, parallelamente a un più generale processo evolutivo del cattolicesimo politico di Lecce. La circostanza favorì la naturale composizione delle influenze famigliari di parte paterna e materna in un quadro unitario. Assicurò anche alla successiva maturazione intellettuale del G. un orizzonte aperto.
Il G. compì gli studi universitari presso la facoltà giuridica dell'Università di Roma.
Qui incontrò V.E. Orlando, da poco chiamato a ricoprire la cattedra di diritto amministrativo, che sarebbe divenuto suo maestro segnandone in profondità le concezioni giuridiche. Inoltre, i suoi interessi preminenti nel campo del diritto pubblico furono fecondati dalla frequenza dei corsi di S. Romano, A. Codacci Pisanelli e P. Chimenti. In questo periodo di studio universitario e di permanenza a Roma si fissarono definitivamente le due direttrici lungo le quali si sarebbe svolta la parte principale della sua futura esistenza: la passione per la politica e l'interesse per la ricerca nel campo del diritto pubblico.
Il G. conseguì la laurea nel 1905 discutendo una tesi in diritto costituzionale. Già prima, però, aveva avuto parte attiva nella campagna per le elezioni politiche generali del novembre 1904, sostenendo, nel collegio di Manduria, la candidatura vincente del giolittiano F. Rochira che si opponeva a quella dello storico R. De Cesare. Quest'esperienza segnò il consolidarsi di una scelta di campo per il giolittismo, favorita, d'altro canto, dal retroterra familiare, dall'ambiente di formazione, dalle frequentazioni leccesi. I legami derivati, di lì a poco, dal matrimonio l'avrebbero ulteriormente rafforzata. Nel 1907 il G., infatti, sposò Isabella Carissimo dalla quale avrebbe poi avuto quattro figli: Mary, Guglielmo, Fabio e Vittoria.
Il padre d'Isabella, G. Carissimo, un facoltoso agricoltore leccese, era uno dei capi del "partito" giolittiano nel Salento in Consiglio provinciale nonché senatore del Regno. In Consiglio provinciale, a partire dal 1910, lo raggiunse il G. come rappresentante del mandamento di Martano: si trattò della tappa d'avvicinamento alla deputazione, che egli raggiunse nelle elezioni legislative del 1913 come eletto del collegio di Manduria. A soli trent'anni risultò il più giovane deputato del primo Parlamento "a suffragio quasi-universale".
Il G. giunse a Montecitorio dopo aver compiuto un'intensa attività di ricerca, che, nel medesimo 1913, gli valse il conferimento della docenza di diritto costituzionale. Frutti di questo periodo di studi furono la monografia Lo Stato e l'individuo, rapporto di diritto pubblico (Roma 1910), due lavori più brevi, Sulla posizione scientifica di una dottrina dello Stato (Milano 1914) e Sull'efficacia retroattiva della legge di conversione (ibid. 1911), e, infine, un'ulteriore monografia, risalente al 1913, Il referendum nel governo di gabinetto (ibid.).
Questi lavori mettono in evidenza come la concezione costituzionale del G., legata al giuspubblicismo orlandiano, fosse stata sin dalle origini mitigata da una profonda comprensione dell'esperienza anglosassone; quest'influsso, in particolare per quel che concerne la considerazione del rapporto tra Stato e individuo, finì per revisionare lo schema di Orlando. Il G., infatti, considerò la tutela pubblica dei diritti "subiettivi" preminente rispetto alla salvaguardia della sovranità statuale. Da tale inversione di priorità egli derivò una concezione del rapporto tra individuo e Stato ancora più "garantista" di quella del suo maestro. Per il G. l'edificazione dello Stato di diritto si sarebbe dovuta fondare sulla nozione di "limite" costituzionale, per la quale l'intervento dello Stato non avrebbe mai potuto oltrepassare determinate competenze, proprio al fine di tutelare la libera esplicazione dei diritti dei cittadini. La sfera dei diritti individuali, però, non avrebbe dovuto ricevere una tutela soltanto negativa, attraverso la limitazione dei diritti statali. A questo punto, nel percorso intellettuale tracciato dal G. si produsse il tentativo di coniugare l'originario patrimonio liberale con l'adesione ai precetti democratici, ritenuti alla stregua di un inevitabile portato della storia. Si verificò così uno "strappo" dalle concezioni di Orlando e alla base della rottura, una volta di più, si venne a trovare la riflessione intorno al "modello inglese".
Il G. non fu certo il primo politico liberale ad assumere l'Inghilterra come riferimento primario. Egli si pose in apparente continuità con una tradizione di pensiero - che è anche tradizione politica -, che ha interessato il liberalismo italiano sin dai tempi della Destra storica. Va però notato come il G. iniziasse la sua riflessione intorno al modello inglese nel momento in cui alcuni liberali sostanzialmente lo mistificavano riferendosi a una realtà che non c'era più, e altri lo abbandonavano ritenendolo inidoneo al processo di massificazione delle società politiche dell'inizio del XX secolo. L'Inghilterra alla quale guardò il G., invece, fu l'Inghilterra postgladstoniana, che uno storico del calibro di É. Halévy avrebbe collocato in un limbo: non più appartenente all'Ottocento, non ancora pienamente partecipe del nuovo secolo. Il G. sembrò interpretare con acume e tempismo questo mutamento epocale dell'Inghilterra che fu, al tempo stesso, politico e costituzionale. Ne derivò un rafforzamento della convinzione che il liberalismo, per sopravvivere, non potesse fare a meno di aprirsi alla democrazia. In particolare, dalla crisi istituzionale inglese del 1911 trasse un insegnamento non episodico: la stessa democrazia rappresentativa, con cautela, avrebbe dovuto lasciare spazio a forme di democrazia diretta. Lo strumento del referendum, in tal modo, fu da lui ricondotto all'interno della teoria costituzionale dei "limiti" che aveva interessato il suo primo lavoro scientifico: una sorta di "contropotere" nei riguardi delle forme tradizionali di democrazia rappresentativa e, al tempo stesso, un ulteriore strumento a disposizione del cittadino per ampliarne la partecipazione e le garanzie.
D'altro canto, sempre dalla conoscenza dell'Inghilterra egli derivò l'opzione decisa per una riorganizzazione del partito liberale che sapesse tenere in conto l'inevitabile dimensionamento di massa della società. Non casualmente, in un'intervista rilasciata poco dopo la sua elezione in Parlamento a La Tribuna di O. Malagodi, il G. fece riferimento all'esperienza del ministero Asquith per evidenziare come la realtà dei governi di coalizione non potesse essere più ignorata e come la forma organizzativa del partito non potesse considerarsi in contrasto con il liberalismo. Essa, di contro, avrebbe rappresentato il presupposto affinché i liberali potessero conservare un'egemonia anche in società non oligarchiche: ulteriore motivo di rottura con le concezioni di Orlando che di partiti non voleva sentire parlare, soprattutto in quanto li riteneva incompatibili con la forma del governo di gabinetto.
Queste posizioni adombrano già le ragioni che avrebbero condotto il G. a rompere con l'originario giolittismo. La scelta, però, non può essere compresa a pieno senza considerare l'influenza esercitata dal trauma dell'intervento e, in seguito, da quello della guerra. Il G., nel corso del 1914, aveva assunto una ferma posizione interventista, motivata innanzi tutto dalla convinzione dell'indispensabilità della distruzione dell'Impero austro-ungarico per il completamento del programma risorgimentale e, insieme, per la costruzione di un nuovo ordine mondiale fondato sul primato della sovranità nazionale.
Allo scoppio del conflitto fu tra i deputati che scelsero di partire volontari. Fu assegnato al fronte carnico, dove rimase fino al 1916, quando, con sempre maggiore frequenza, iniziò a essere impegnato in differenti missioni di "diplomazia di guerra": nel 1917 fu a capo della delegazione aeronautica italiana a Parigi. A fianco di F.S. Nitti prese anche parte, a Parigi, alle riunioni del Comitato interalleato.
Nel dopoguerra il G. fu sottosegretario all'Interno nel primo governo Nitti (23 giugno 1919 - 22 maggio 1920). Con C. Sforza, M. Ruini e A. Beneduce egli fece parte di quella giovane leva che affiancò Nitti nel tentativo d'aggiornare l'orizzonte del liberalismo italiano alla luce degli sconvolgimenti del conflitto mondiale.
Il G. ebbe un ruolo decisivo nel varo della riforma elettorale che, nel 1919, introdusse il sistema proporzionale. Nelle elezioni legislative del 1921 egli si fece animatore di una lista di opposizione ai "blocchi nazionali"; pur perdendo molti voti riuscì a ottenere la conferma a Montecitorio. In seguito, mantenne una posizione equidistante tra Giolitti e Nitti, il che gli consentì di tentare una mediazione nella crisi del secondo ministero Facta, quando si tentò di dare vita a un governo di centrosinistra presieduto da I. Bonomi, del quale avrebbero dovuto fare parte i liberali di tutte le tendenze, i demosociali e i popolari, con l'appoggio di F. Turati. Fu proprio quest'ultimo a includere il nome del G. nella sua lista dei "ministeriabili", insieme con quelli di personalità quali A. Beneduce, Giovanni Amendola e A. De Gasperi.
Nella fase precedente l'avvento del fascismo e, poi, di fronte ai primi atti del governo Mussolini egli mostrò le stesse incertezze di valutazione che furono proprie di molti esponenti liberali. Anche il G. sperò in una costituzionalizzazione del fascismo. Nel 1924, in ogni caso, decise di non riproporre la propria candidatura.
Il Ventennio lo vide lontano dalla politica attiva. Nel 1932 lasciò anche l'insegnamento universitario. Si dedicò alla gestione della sua azienda agricola e alla promozione dell'agricoltura meridionale in qualità di presidente della Società degli ulivicultori italiani, incarico che ricoprì dal 1924 al 1927. La passione politica e la propensione all'impegno pubblico, però, non lo avrebbero abbandonato.
Poco dopo l'8 sett. 1943 diede la sua adesione a Democrazia liberale, la formazione che nel Mezzogiorno faceva riferimento, tra gli altri, a Orlando e a E. De Nicola. Già nel 1944, però, i contatti con Ruini (che egli aveva mantenuto nel corso di tutto il Ventennio) e con A. Manes lo portarono ad aderire a Democrazia del lavoro.
Il G. fu uno dei componenti della Consulta nazionale, segnalandosi per il contributo dato alla definizione della legge che avrebbe governato l'elezione dell'Assemblea costituente. Eletto tra i deputati di questa, fu tra i politici provenienti dall'età liberale che - a differenza di Orlando, B. Croce, Nitti - non si trincerarono in una posizione di rifiuto dei nuovi equilibri politici e istituzionali. La sua posizione può, in ciò, essere accostata a quella di Ruini. Il G. partecipò attivamente ai lavori dell'Assemblea. Fu segretario della commissione dei 75 e seguì assiduamente i lavori della prima commissione e dell'aula.
Tra i suoi interventi vanno ricordati quelli sull'articolo 1, tesi a dare maggiore concretezza alla formula inaugurale della Carta; quelli relativi alla regolamentazione del bicameralismo, nei quali trovò modo di mettere a profitto i vecchi studi in tema di referendum; quelli miranti a limitare il diritto di sciopero nei pubblici servizi; quelli a favore dell'art. 7; quelli, infine, sulle forme di un necessario equilibrio tra magistratura inquirente e magistratura giudicante. In assemblea plenaria presentò 28 emendamenti, dei quali 10 furono approvati e 18 furono ritirati.
Durante la crisi seguita alla caduta del terzo governo De Gasperi, quando fu affidato l'incarico a Nitti, il G. svolse un giro di consultazioni ufficiose per conto di quest'ultimo, che sortirono un esito negativo. Come indipendente d'area liberale fu ministro di Grazia e Giustizia nel quarto (maggio 1947-maggio 1948) e - dopo le elezioni del 18 aprile, in cui fu rieletto nelle file del Partito liberale italiano - nel quinto (maggio 1948-gennaio 1950) governo De Gasperi.
L'azione del G. al ministero fu guidata da un obiettivo ambizioso: chiudere la convulsa fase di transizione apertasi all'indomani della caduta del fascismo stabilendo le nuove basi sulle quali avrebbe dovuto operare la giustizia dell'età repubblicana. Nel suo intervento a conclusione del dibattito sul disegno di legge per l'approvazione dello stato di previsione della spesa del ministero di Grazia e Giustizia per l'esercizio finanziario 1948-49 è possibile rintracciare tutti i capitoli di un vero e proprio programma di rifondazione: riforma dei codici, autonomia e indipendenza della magistratura, situazione delle carceri, ordinamento della professione forense. La sua azione va però ricordata, in particolare, per il tentativo di giungere alla riforma del codice penale, attraverso la quale egli cercò di contemperare due diverse esigenze: salvaguardare la continuità con i principî della scuola italiana di diritto pubblico dai quali lo stesso codice Rocco era scaturito e, al contempo, eliminare dal codice quell'impronta fascista rinvenibile, a suo parere, più in singoli articoli che nell'architettura complessiva del testo. A tal fine, il G. promosse le iniziative atte alla formulazione di un progetto di nuovo codice penale. Il comitato da lui nominato presentò, nel luglio del 1949, la relazione e il testo del I libro del progetto di codice penale. Nel settembre del 1950 completò l'opera con il testo del libro II e del libro III. Quel progetto rimane ancora oggi l'unica ipotesi di revisione del codice del 1930. Come avrebbe voluto il G., esso contempera un'esigenza di continuità scientifica con la necessità del rinnovamento politico.
Il G. morì a Roma il 25 genn. 1950.
Fonti e Bibl.: La corrispondenza del G. relativa al periodo della prima guerra mondiale è conservata a Roma dal prof. F. Grassi Orsini. Atti parlamentari, Senato, Discussioni, I legislatura repubblicana (sedute del 12 ott. 1948 e del 28 ott. 1948); D. Veneruso, La vigilia del fascismo, Bologna 1968, p. 501; La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, I-VII, Roma 1970, passim; F. Grassi, Il tramonto dell'età giolittiana nel Salento, Roma-Bari 1973, pp. 69 ss.; G. Andreotti, De Gasperi e il suo tempo. Trento, Vienna, Roma, Milano 1974, pp. 364, 374, 395; La costituzione italiana. Analisi degli emendamenti, a cura di A. Cerizza, Milano 1979, ad ind.; G. G., un'esperienza politica dall'età giolittiana alla Costituente, Lecce 1981; C. Nassise, Osservazioni su G. G. ed il nittismo meridionale, in Annali dell'Istituto A. Cervi, III (1981), pp. 189-198; E. Bettinelli, All'origine della democrazia dei partiti. La formazione del nuovo ordinamento elettorale nel periodo costituente (1944-1948), Milano 1982, pp. 162-182, 302-324; M.S. Piretti, La giustizia dei numeri. Il proporzionalismo in Italia (1870-1923), Bologna 1990, pp. 200-206; G. Vassalli, Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali. Atti del Convegno, Saint-Vincent… 1994, Milano 1996, pp. 5-15.