GORINI CORIO, Giuseppe
Nacque a Solbiate, presso Como, l'8 giugno 1702, figlio probabilmente quartogenito di Alessandro e di Maria Corio, unica figlia ed erede del giureconsulto milanese Alessandro.
La famiglia paterna era di origine luganese, e suoi membri si erano distinti a Lugano e Como nei secoli XVI e XVII, ricoprendo uffici civici e militari e ricevendo nei documenti notarili il titolo generico di nobili. Il prozio Melchiorre, religioso della Congregazione di S. Paolo, aveva avuto un certo peso nelle trattative per il matrimonio di Eleonora Gonzaga con l'imperatore Ferdinando III e nei maneggi che nel 1652 indussero i Francesi a restituire ai Gonzaga la fortezza di Casale. Certo anche per queste benemerenze il padre del G., che già godeva, oltre che di una casa in Milano, di alcuni beni nelle pievi di Appiano e Gorgonzola (gli ultimi facenti parte dell'eredità della moglie, sposata nel 1677) ricevette il 26 febbr. 1703 da Ferdinando Carlo, ultimo duca di Mantova, il titolo di marchese, con facoltà di trasmetterlo a un erede maschio. Il G. aveva tre fratelli maggiori, Melchiorre, Antonio e Francesco (i primi due nati entro il 1697 e l'ultimo, noto per avere tenuto in giovanissima età alcune apprezzate discussioni filosofiche, fattosi poi domenicano). Tuttavia quando il padre morì settuagenario attorno al 1719, il titolo marchionale andò al G.; si deve quindi supporre che Melchiorre e Antonio fossero morti prima, mentre Francesco fu escluso dalla successione dalla propria scelta religiosa. Il G. però, a causa di leggi che non riconoscevano validità ai titoli concessi da principi esteri, per godere delle prerogative nobiliari dovette versare nell'agosto 1720 alla Tesoreria generale dello Stato di Milano la somma di 650 lire imperiali, alle quali ancora nel dicembre 1747 ne dovette aggiungere 713.
Poco si conosce sulla sua formazione. Pare che ricevesse una buona educazione a cura dei genitori e che si dedicasse assai precocemente a studi letterari e filosofici, dopo i quali, secondo i primi biografi, si recò a Parigi per conoscervi il teatro francese e i principali letterati; tuttavia il viaggio non è confermato da documenti (se avvenne, fu forse tra il 1724 e il 1728). Certa è invece la sua permanenza, almeno per qualche anno, nel collegio dei nobili di Modena, dove entrò in rapporti d'amicizia con l'abate G. Tagliazucchi, il marchese G.G. Orsi e, probabilmente fin da allora, L.A. Muratori. Nella capitale estense il G. pubblicò nel 1720, a 18 anni, la sua prima opera, la tragedia Rosimonda, in seguito rifatta, e una favola pastorale in 7 egloghe miste a prosa, L'Elpino, ristampata nello stesso anno a Milano: entrambe una sorta d'omaggio per il matrimonio del principe ereditario Francesco d'Este con Carlotta Aglae d'Orléans. Degli anni successivi sono le sue principali tragedie che, prima di pubblicare, fece circolare manoscritte tra i maggiori letterati di Bologna e Modena (inclusi Muratori, con il quale dal 1721 al 1742 tenne un interessante carteggio edito solo recentemente e parzialmente, e Orsi, anch'egli tragediografo). Tra esse Il Bruto, L'Issicratea (poi rigettata), Il Polidoro (rigettato anch'esso), stampate a Milano nel 1724 unitamente a una raccolta di Rime; Il duca di Guisa, stampata nel 1728; La Rosimonda vendicata, rifacimento della prima Rosimonda (1729); La morte di Agrippina e Ecuba (1730). Parallelamente il G. compose, stampandole a volte insieme con le tragedie, alcune commedie: Il Guascone, pubblicato nel 1729; Le cerimonie, Il geloso vinto dall'avarizia, Il baron polacco interrotto nei suoi amori, Il frippon francese colla dama alla moda, tutte edite nel 1730. Un'edizione d'insieme, il Teatro tragico e comico, pubblicata in due volumi a Venezia nel 1732 con dedica all'imperatore Carlo VI, raccolse 8 tragedie (delle quali per la prima volta a stampa La Giezabele, Meemet, La morte di Annibale) e 5 commedie, precedute dal Trattato della perfetta tragedia, ambizioso manifesto della poetica del G. già pubblicato nel 1729. Un'altra edizione complessiva, tipograficamente meno pregevole, con 13 tragedie e 4 commedie seguì a Milano in 3 volumi nel 1744 e 1745: oltre al trattato teorico e a testi già compresi nella precedente edizione (non furono accolte solo la tragedia Il duca di Guisa e la commedia Il geloso vinto dall'avarizia) vi comparvero anche L'Astianatte, già pubblicato a parte nel 1737, Il Narsete, già edito nel 1738, Il Telemaco (1739), Il Baltassarre (1740), L'Ipolito e Porro e Milene, entrambi in realtà drammi per musica (il primo, musicato da C.W. Gluck, fu rappresentato al teatro Ducale di Milano il 31 genn. 1745).
Piuttosto scarsa è, fin dall'inizio del Novecento, la considerazione della critica per il teatro tragico del G., che comunque si può inserire fra i tentativi, fatti agli inizi del Settecento dai più noti S. Maffei, G.V. Gravina, A. Conti, P.I. Martello, P. Calepio, di rialzare le sorti di quel genere letterario in Italia. Maggior favore ha incontrato, forse perché valutato come testimonianza del gusto dell'epoca, il Trattato della perfetta tragedia, che unitamente agli esami premessi, sull'esempio del teatro francese, ad alcune delle tragedie, fornisce le linee portanti del pensiero del Gorini. Affermando che la tragedia, benché avesse avuto degni e apprezzati autori, non aveva ancora raggiunto la perfezione, egli intendeva criticare sia il tentativo del Maffei di rivalutare il teatro tragico italiano del Cinquecento, sia, nonostante tutto, il teatro francese di J. Racine e P. Corneille. I due principî base della tragedia, cui assegnava il fine di dilettare e insegnare, erano per lui il maestoso e il verosimile; non reputava perciò necessaria, ma anzi dannosa per quel fine, la verità storica, pur ammettendo come oggetto della trama sia fatti storici sia immaginari, oppure immaginari con figure storiche. Se rimproverava ai Francesi i caratteri chimerici e le situazioni meravigliose e inverosimili, li lodava per il decoro e la maestà dei personaggi, per i toni mai bassi e volgari o moralmente mediocri, per l'orditura. Quanto allo stile, però, considerava la lingua italiana più vicina alla perfezione della lingua francese, anche per l'uso del verso sciolto, che anch'egli adottò invece di quello rimato; nei tragici greci apprezzava la semplicità, linearità e coerenza delle situazioni. Fra i suoi precetti, oltre all'accettazione, con qualche variante, delle tre unità aristoteliche, si segnalano la critica alla funzione del coro, l'imprescindibilità del verso per l'arte tragica, l'inutilità del sangue sulla scena. Invero gli esiti pratici del suo teatro furono assai dissimili dalla teoria: la maggior parte delle sue tragedie, che furono comunque scritte per essere recitate e conobbero anche un certo successo di pubblico, risentono molto, per le inverosimiglianze e il romanzesco delle situazioni, le galanterie e le avventure amorose dei personaggi (che affievoliscono il lato tragico e rendono l'opera, spesso a lieto fine, simile al melodramma), dell'influsso del teatro di Racine e Corneille, dal quale traggono soggetti storici (Meemet, di argomento turco, dal Baiazet; La morte di Agrippina dal Britannico di Racine; La Rosimonda vendicata dall'Héraclius di Corneille) e sul quale sono ricalcati personaggi o intere scene (sul Cid del Corneille è per esempio interamente costruito Il duca di Guisa). I migliori esiti della produzione tragica del G. vanno perciò ricercati in opere come Ecuba o Giezabele, che più sembrano discostarsi dalla maniera francese e si avvicinano, anche per l'introduzione di elementi formali come i cori e per il rifiuto della divisione in atti, alla semplicità della tragedia greca. L'imitazione quasi totale dei caratteri del teatro francese può essere comunque in parte spiegata, come riconosceva il G. stesso, con l'apprezzamento di quel teatro da parte del pubblico, desideroso più di intrecci complicati e colpi di scena che di provare compassione per la morte di eroi sventurati, e quindi con l'intento di un maggior successo. Un modello francese, questa volta di Molière, è facilmente riscontrabile pure nelle opere comiche: se infatti, anche in questo caso, l'ambizioso progetto dell'autore era di offrire all'Italia una commedia letterariamente e intellettualmente arguta e lontana dalle trivialità della commedia dell'arte, con il fine di "castigare ridendo i costumi" e istruire il popolo, non bisogna dimenticare che le sue commedie, secondo un uso d'Oltralpe, dovevano essere rappresentate di seguito alla tragedia, per rallegrare gli spettatori. Tutte in endecasillabi e settenari, sono organizzate come una breve serie continuata di scene, senza divisione in atti: vi compaiono, sulla falsariga del teatro francese, guasconi tronfi e superbi, nobiluomini cerimoniosi e saccenti o sciocchi e creduloni, falsi forestieri dediti al furto e all'inganno, avari gelosi: complessivamente, se il valore di questo teatro risulta, per l'imitazione pedissequa di tipi, scene, stilemi delle commedie di Molière, assai scarso, esso può essere considerato più positivamente come documento di una società e di un modo di vivere. Il G. scrisse opere teatrali, sebbene con vena meno prolifica, fino agli ultimi anni: nel 1761 uscirono a Milano Le Troadi; nel 1765 (e di nuovo l'anno successivo a Firenze) fu la volta di Otone e Milene; quanto alle commedie, nel 1759 pubblicò Il vero cavaliere e nel 1765 scrisse in francese la farsa École des jaloux. Alcune delle sue opere (Il Narsete, L'Astianatte, Il vero cavaliere) vennero rappresentate a Milano dai convittori del collegio dei nobili della Compagnia di Gesù.
L'altro precipuo interesse del G. può dirsi filosofico-politico-religioso. Già nel 1724 aveva pubblicato Le leggi di Dio e quelle del mondo unite nel vero cavaliere, breve ma interessante trattato composto da 8 discorsi morali, dedicato significativamente a Dio, ove delineava il più perfetto stile di vita dell'uomo e più particolarmente del "cavaliere", secondo la religione cattolica e in vista di una società più giusta e amorevole, ove trionfasse il "pubblico bene". Nell'aprile del 1740 il G. stampò, sempre a Milano, Via e verità concernente la morale cristiana, sorta di libro di meditazioni e preghiere esemplato attorno a 5 tematiche centrali o trattati, e l'anno successivo I divoti soliloqui, di analoga natura, dedicati al nuovo papa Benedetto XIV, che anche in seguito, pur fra le interminabili controversie e polemiche cui diedero adito gli ulteriori lavori del G., lo degnò della sua benevolenza. Agli inizi del 1742 apparve infine a Milano un ponderoso volume, Politica, diritto e religione per ben pensare e scegliere il vero dal falso in queste importantissime materie, che l'innalzò a un'improvvisa fama. Il libro, per il desiderio dell'autore di ricevere suggerimenti dai migliori intellettuali italiani, era stato fatto circolare in copie clandestine, e poi stampato in un testo diverso e più ampio rispetto a quello che aveva ricevuto l'imprimatur dalle autorità politiche e religiose. Nella seconda parte, politica, erano state subito rinvenute massime che nelle contingenze militari della guerra di successione austriaca sembravano contrarie alla fedeltà e all'obbedienza a Maria Teresa, tanto che il 16 giugno dello stesso anno l'autore, per ordine del governatore O.F. Traun conte di Abensberg e della regia giunta, fu arrestato e costretto a giustificarsi e a chiarirsi pubblicamente, mentre venivano sequestrate tutte le copie rinvenute nella sua abitazione e presso lo stampatore. Quando all'inizio di luglio, non senza prima aver rischiato il confino, fu rimesso in libertà, la terza parte del volume, relativa alla religione, fu proibita dalla congregazione dell'Indice. La tempesta scatenata da questi eventi e i libelli polemici subito stampati contro il libro lo resero noto fuori dello Stato di Milano; il caso fu dibattuto nella Curia romana, a Modena - dove la polemica coinvolse Muratori e altri amici - e in molte città d'Italia.
Nella presentazione dell'opera il G. ne indicò lo scopo nel ben pensare e nel cercare, con il solo lume della ragione, la verità intorno alle materie necessarie a un principe e a un cavaliere, vale a dire politica, diritto e religione. Così fin dall'inizio si oppose coscientemente a opinioni comuni e autorità consolidate, e nella terza parte, ove pure cercò di porre la religione cattolica sotto i sensi della ragione, non volle combatterla ma difenderla contro eretici e atei, mostrandone la purezza e semplicità. Dopo aver affermato nei Preliminari che gli uomini hanno come guida la virtù e come scogli i vizi e che l'oggetto del libro, la vera politica, ha come base la giustizia e la religione, nel primo dei tre trattati dell'opera, il Trattato della politica, esaminò le tre virtù essenziali del principe (prudenza, fortezza e temperanza), allegando un'appendice sull'amore. Sono di una certa novità i capitoli sull'educazione e sull'inutilità della vendetta e del duello; con il ricorso frequente a esempi storici è esaltato come principe virtuoso ed eroico, talvolta unitamente ad altri Savoia, Carlo Emanuele III (che tuttavia non fu, come si è creduto, il dedicatario dell'intera opera). Il G. lo aveva sicuramente ammirato e forse conosciuto in occasione della campagna del 1733, quando la Lombardia passò per breve tempo sotto il dominio sabaudo, ma all'epoca della stampa del volume il Savoia si era già schierato con Maria Teresa contro i Franco-Spagnoli. Nel secondo trattato, Della giustizia e del diritto, il G., con un'impostazione che recenti studi ritengono innovatrice rispetto alla trattatistica politica precedente, individuò come essenza della sovranità la giustizia: il sovrano ha cioè il dovere di assegnare a ciascuno il suo e di comportarsi verso la vita e i beni dei sudditi non da padrone, ma da giudice imparziale stabilito da Dio, e in vista della "pubblica felicità". Si discorre poi dei patti, dei giuramenti, dei diritti di guerra e degli obblighi dei sudditi e dei soldati, dei giudici. Originale l'ultimo capitolo sulla giustizia particolare dei "cavalieri", cioè della nobiltà; il G. ne giustificò l'esistenza, contro la vita oziosa e dedita ai piaceri della maggior parte di essa, solo con il fine alto di soccorrere i deboli e sfortunati. Il terzo e ultimo trattato, Della religione, che quasi a marcare una cesura dagli altri ebbe una paginazione a sé, è diviso in tre sezioni: la prima è una prova dell'esistenza di Dio e dell'antichità, verità e forza del cristianesimo rivolta a eretici, pagani e atei, e ripercorre la storia biblica dalla creazione alla venuta di Gesù. La seconda tratta dell'opera di Cristo nel mondo, dei suoi insegnamenti, dei sacramenti da lui istituiti, della sua morte e resurrezione, della svigorita forza del demonio dopo la sua morte. La terza, pur ribadendo la bellezza, verità e unità dogmatica della religione cristiana, critica razionalmente gli abusi che ne hanno imbastardito la purezza originaria: superstizioni e ignoranza che hanno accreditato false reliquie, falsi miracoli, falsi fatti, falsi martiri e che hanno portato alle crociate, che il G. valutava negativamente, e alle sottigliezze teologiche della scolastica e dei nuovi ordini religiosi.
Se l'arresto del G. ebbe motivi squisitamente politici e contingenti, i libelli che subito attaccarono l'opera, contribuendo poi alla sua messa all'Indice, furono quasi tutti scritti, sembra (l'identità degli autori non è infatti sicura, perché in genere circolarono anonimi), da membri influenti del clero secolare e regolare; il volume, per le critiche espresse nella terza parte del terzo trattato ma anche per alcune arditezze teologiche, fu preso di mira soprattutto in ambienti ecclesiastici e gesuitici. Così, dopo che l'arcivescovo di Milano C.C. Stampa ebbe chiesto al prefetto della Biblioteca Ambrosiana, G.A. Sassi, un parere sull'ultimo trattato del libro (parere che circolò manoscritto anche a Roma e che oggi si conserva nella stessa Biblioteca) uscirono in rapida successione: Alcune riflessioni su l'opera del signor marchese G. G.C. intitolata Politica, diritto e religione, stampate a Milano nel luglio 1742 (probabilmente dal sacerdote Tommaso Andrea Gipponi); Memorie monastiche raccolte da un monaco benedettino cassinese e Risposta ad alcuni aggravii fatti ai monaci nel libro intitolato Politica, diritto e religione (la seconda probabilmente opera del cistercense Ambrogio Arrigoni), pubblicati a Milano nello stesso anno; Osservazioni critiche intorno al libro intitolato Politica, diritto e religione del signor marchese G. G.C. ed intorno a' critici del medesimo libro di Costanzo Aligieri, pubblicate a Milano, con nome e luogo fittizi, nel settembre 1743 (alternando critiche e rilievi a sincere lodi e apprezzamenti furono forse la disamina più equilibrata dell'opera, e per questo parvero ai contemporanei un prodotto dello stesso G.); Risposte apologetiche stese dall'autore delle Riflessioni alle Osservazioni critiche fatte da D. Costanzo Aligieri intorno alle stesse, apparso a Milano nel luglio 1744 e vergato dall'autore anonimo delle Riflessioni. L'ultimo trattato del libro fu esaminato, ancora su richiesta dell'arcivescovo di Milano, da Maria Gaetana Agnesi, che ne diede un giudizio rimasto manoscritto nell'Ambrosiana e nell'Archivio di Stato di Milano (la seconda copia ha data 22 giugno 1742), assai critico ma non privo di acuti rilievi sulla personalità del Gorini. Venuto a conoscenza della condanna del terzo trattato questi aveva cercato di avvalersi di una lettera scrittagli dal Muratori per scagionarsi dalle accuse e pubblicare un manifesto che proponeva la ristampa del libro, corretto dagli errori; ma il gesto provocò probabilmente l'interruzione dei rapporti fra i due, dato che il Muratori si affrettò a rendere note in un pubblico biglietto le sue opinioni sul trattato, ove tra l'altro credette di rinvenire due proposizioni ereticali.
Il sospetto e il timore con cui le autorità presero a considerare il G. dopo i fatti del 1742, anche per la sua fama di pensatore libero e spregiudicato, non interruppero le sue indagini filosofico-religiose. Nel 1756 stampò a Lucca un lavoro nuovo e più arduo, L'uomo. Trattato fisico-morale. Anche di questo l'anno precedente aveva fatte circolare alcune copie tra dotti, onde averne avvisi e opinioni; ma questa volta inserì nella stampa definitiva, in apposite note, molti rilievi e obiezioni di teologi e risposte proprie sulle questioni sollevate nel testo, tentando così di giustificare il suo operato. Ma neanche questo bastò: il libro, combattuto con violenza dagli ambienti ecclesiastici più tradizionali, nonostante le appassionate difese del G. e le ripetute dichiarazioni di sottomissione all'autorità della Chiesa romana, fu anch'esso condannato dall'Inquisizione nel luglio 1759.
Questa voluminosa e faticosa opera tentò ancora di conciliare la parola del Dio cristiano con la ragione e le dimostrazioni filosofiche, nell'assunto che la perfezione dei decreti divini e la loro bontà possono essere confermati dalla ragione umana. Il libro I tratta l'Esser dell'uomo, soffermandosi sul suo fisico, sui guasti prodotti in esso dal peccato originale e sull'anima; il libro II, Delle passioni dell'uomo, discorre dell'amore, delle virtù e vizi, della conoscenza, della superbia, dell'ambizione, dell'umiltà, del timore di Dio, delle tentazioni; il III e ultimo, Dei doveri dell'uomo, passa dalla natura umana al vivere sociale, tracciando un interessante quadro dell'educazione dell'uomo, della nascita del diritto e del potere politico, per poi elogiare la monarchia come migliore forma di governo. Le note più corpose al testo si trovano nei primi due libri di contenuto più specificamente morale, quelli diffusi a parte nelle "copie da correggersi". Quanto alla natura del processo conoscitivo l'opera segue la teoria associazionistica allora in voga grazie agli scritti di D. Hartley. A L'uomo, come al trattato precedente, risposero duri libelli polemici, alcuni dei quali (come le Riflessioni critiche sopra il libro del sig. marchese G. intitolato Copia da correggersi, L'uomo, trattato fisico-morale, composte nell'ottobre 1758 dall'agostiniano Gabriele Maria di S. Domenico per ordine dell'inquisitore di Milano E. Todeschini), si trovano nella sezione Autografi dell'Archivio di Stato di Milano. L'opera ebbe comunque fortuna e fu elogiata da letterati italiani e stranieri; nel 1761, dopo numerose traduzioni circolate clandestinamente, ebbe un'edizione in francese in due volumi, probabilmente a Parigi (il luogo di stampa non è indicato), con il titolo L'anthropologie, traité metaphisique. Non si trattava di una semplice traduzione perché il testo, oltre a risultare privo della suddivisione in libri e a ripartire fra i capitoli le obiezioni e risposte che nell'edizione italiana erano in nota, in alcune parti fu rifatto e modificato ed ebbe notevoli aggiunte. Nell'ultimo capitolo comparve una sorta di autodifesa del G., che ribadì la sua fedeltà alla dottrina cattolica e alla Chiesa e giustificò il tentativo di approfondire i misteri divini in lingua comune e accessibile a tutti.
Per l'ostracismo delle autorità civili e religiose il G. dovette apparire nel mondo culturale milanese dell'epoca una figura austera e isolata, benché fosse certamente noto a molti. Non si ha notizia di sue adesioni all'Accademia dei Trasformati o ad altri istituti letterari del tempo. Negli ultimi anni fu apprezzato dal patriziato milanese e lombardo (negli anni '60 furono spesso suoi ospiti i fratelli Verri e G. Baretti) per i piacevoli conversari e le feste da ballo che organizzava con munificenza nella sua villa di Bussero. Dopo la morte nel 1763 della prima moglie Caterina Aliprandi, sposata probabilmente nel 1723, si era riconiugato in quello stesso anno con Bradamante Rasini, figlia del conte Rodolfo, divenuta poi sua erede e che nel febbraio 1772, dopo la morte del G., fece riconoscere ufficialmente dal tribunale araldico la nobiltà dei Gorini e delineare lo stemma gentilizio nel codice araldico. Non sembra tuttavia che il G. avesse discendenza.
Morì a Milano il 28 ott. 1768.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Collezione autografi, cart. 133, f. 10; Ibid., Fondo araldica, p.a., b. 85; Ibid., Fondo famiglie, b. 83; Ibid., G. Sitoni De Scotia, Theatrum genealogicum familiarum illustrium nobilium et civium inclytae urbis Mediolani, I, c. 14; II, c. 167; III, c. 239; Milano, Arch. stor. civico, Fondo famiglie, b. 779; Ibid., Biblioteca della Società storica lombarda, Fondo Visconti di S. Vito, Alberi genealogici delle case nobili di Milano, I, c. 79; II, cc. 28, 276; Ibid., Biblioteca nazionale Braidense, Mss., AC.XIII, 38-40, Alberi genealogici delle famiglie nobili milanesi, I, c. 9; II, cc. 226, e 25 dei fogli inseriti; Miscellanea, 14-16.E.5/34, Lettera responsiva del marchese Giuseppe Gorini Corio ad un amico, il di cui originale resta presso del sig. dottore bibliotecario G.A. Sassi nella Biblioteca Ambrosiana (2 cc. a stampa con un Fatto informativo manoscritto); Modena, Bibl. naz. Estense, Carteggio Muratoriano, filza 67, f. 18; Roma, Bibl. Corsiniana, Codd., 1484, cc. 187 ss., 267 ss.; Lettere e scritti inediti di Pietro e di Alessandro Verri, a cura di C. Casati, IV, Milano 1881, p. 124; L. Anzoletti, Maria Gaetana Agnesi, Milano 1900, pp. 359, 361-367 (estratti del parere della Agnesi su Politica, diritto, religione); G. Sommi Picenardi, Lettere inedite di Pietro Verri, in La Rassegna nazionale, 1° giugno 1912, pp. 309 s.; Epistolario di L.A. Muratori, a cura di M. Campori, X, Modena 1916, pp. 4303, 4308, 4316; Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1797, a cura di E. Greppi - A. Giulini, I, 1, Milano 1923, pp. 99, 228, 239 s., 242, 255, 398, 407; 2, ibid. 1923, pp. 282, 433; II, a cura di F. Novati - E. Greppi, ibid. 1910, p. 77; G. Baretti, Epistolario, a cura di L. Piccioni, I, Bari 1936, pp. 124, 127; L.A. Muratori, Carteggio con Alessandro Chiappini, in Edizione nazionale del carteggio di L.A. Muratori, XIV, a cura di P. Castignoli, Firenze 1975, pp. 133, 135; Id., Carteggio con Fortunato Tamburini, ibid., XLII, a cura di F. Valenti, ibid. 1975, pp. 113, 116-120; Id., Carteggio con Filippo Argelati, ibid., III, a cura di C. Vianello, ibid. 1976, pp. 605-607, 610, 620; Giorn. dei letterati d'Italia, XXXIII (1719-20), p. 423; XXXVI (1724), pp. 361 s.; F.S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, II, Milano 1741, pp. 344, 612; III, 1, ibid. 1743, p. 101; 2, ibid. 1744, p. 77; Novelle letterarie (Firenze), V (1744), coll. 408-416; G.M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, I, 1, Brescia 1753, pp. 491 s.; G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862, pp. 727-730, 818; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, in Memorie del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, XX (1876), p. 42; Catalogo dei codici manoscritti della Trivulziana, a cura di G. Porro, Torino 1884, p. 401; C. Cantù, L'abate Parini e la Lombardia nel secolo passato, Milano 1892, pp. 138, 156; E. 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