GIUSTINIANI, Giuseppe
Nacque nel 1525 nell'isola egea di Chio, territorio della Repubblica di Genova, da Benedetto di Francesco del ramo de Nigro.
Dal matrimonio con Girolama (nata nel 1534), figlia di Francesco Giustiniani del ramo Recanelli e di Caterina di Bricio (Fabrizio) Giustiniani, comandante della flotta vicereale di Napoli, ebbe cinque figli tra il 1554 e il 1564: Benedetto, Virginia, Angelica, Caterina e Vincenzo.
Del periodo trascorso a Chio si hanno pochissime informazioni, ma è presumibile che il G. fosse del tutto dedito alle attività di commercio che i genovesi della Maona di Chio esercitavano in regime di monopolio: nell'archivio familiare si conservano documenti sui traffici del G. con un mercante catalano residente a Minorca e con un altro imprenditore, e sugli acquisti pagati con luoghi di Monte genovesi effettuati nei primi anni Sessanta. I membri della famiglia risiedevano nelle sedi commerciali di Messina, di Napoli e, naturalmente, di Genova.
Una memoria di famiglia attribuisce al G. un ruolo preponderante nel riscatto e nella liberazione di schiavi cristiani e di personaggi vicini alla Corona spagnola, e addirittura considera che ciò fosse stato il pretesto per l'intervento di Pialì Bassà che portò alla definitiva conquista turca dell'isola nell'aprile del 1566. Il G. doveva già disporre di una cospicua ricchezza, perché in questa circostanza poté ottenere per sé e la sua famiglia il permesso di abbandonare l'isola grazie a ricchi donativi e alle pressioni dei ministri francesi presso la Sublime Porta.
È probabile che il G. sia stato il rappresentante diplomatico della Francia a Chio dalla fine degli anni Quaranta e, nel decennio successivo, il console della Repubblica di Venezia e della Repubblica di Ragusa. La partenza avvenne in due fasi: a ridosso della conquista, il G. raggiunse a Candia il figlio Benedetto con la primogenita Virginia e insieme con i due giovani andò a Genova, passando per Venezia.
Probabilmente nel 1569 o nel 1570, il resto della famiglia poté ricongiungersi a Roma, dove il G. contava relazioni importanti nel mondo curiale e finanziario: il fratello della moglie, Vincenzo, era priore generale dei domenicani. Pio V, che non solo ne apprezzava le notevoli qualità ma si era dimostrato molto sensibile al drammatico passaggio di Chio sotto il governo turco, lo innalzò al cardinalato nel 1570. Già da tempo alcuni Giustiniani si erano messi in luce tra gli esponenti della finanza genovese a Roma: un Luca Giustiniani, per esempio, negli anni Quaranta ebbe in appalto con i Sauli l'allume romano e all'inizio del decennio successivo fu coinvolto in alcuni procedimenti della Camera apostolica contro i membri di questa famiglia; tra il 1563 e il 1572 un Giuseppe Giustiniani fu tesoriere provinciale della Marca anconitana, contemporaneamente detenne la Tesoreria di Camerino, nel 1564 e nel 1566-72 appaltò con Guglielmo Dei la gabella sulla carne.
In breve tempo il G. mise abilmente a frutto un capitale stimato, molti anni più tardi, in 6000 scudi contanti e si inserì con successo nell'alveo dei mercanti-banchieri impegnati in grandi investimenti nelle entrate fiscali provenienti dalle Comunità dello Stato pontificio, nel debito pubblico, negli approvvigionamenti. Nel 1572 poté subentrare ai mercanti fiorentini Bandini nell'affitto delle entrate del Patrimonio (la tesoreria, la "salara", la dogana del pascolo e le tasse sui cavalli morti), per il quale versò alla Camera apostolica 60.000 scudi; l'appalto fu mantenuto per tutto il decennio e rinnovato ancora nel 1581 e nel 1588.
Durante il pontificato sistino (1585-90), con la crescita della domanda di credito e di moneta della Camera apostolica, il G. mise le proprie ricchezze a disposizione del pontefice ed espanse le attività mercantili e finanziarie, che divennero sempre più complesse e importanti. Infatti, insieme con il depositario generale, il genovese Giovanni Agostino Pinelli, e con il depositario della Dataria, il portoghese J. Lopez, formò un triumvirato che si spartì la maggior parte degli investimenti nel debito pubblico e vi investì una ricchezza considerevole se si considera che, a calcolare solo gli otto Monti camerali eretti da Sisto V, il valore del capitale ascendeva a 2.500.000 scudi. Nel 1586 fu acquistato insieme con Pinelli, per 200.000 scudi d'oro, il Monte della pace, da allora chiamato Monte Giustiniani, destinato a colmare le spese della lotta al banditismo. L'anno seguente si aggiunsero quasi 200.000 scudi a quello delle Province e tra il 1588 e il 1590 il G. partecipò, con gli altri due banchieri, al finanziamento dei Monti S. Bonaventura (capitale di 300.000 scudi, portato a 400.000 l'anno seguente), sensali di Ripa (con capitale di 40.000 scudi), baroni e cancellerie (il capitale fu accresciuto di 200.000 scudi), in concomitanza con l'appalto di tutte le cancellerie dello Stato ecclesiastico, concesso ai tre banchieri nel 1590.
Contemporaneamente, il G. rafforzò i vincoli d'affari e la sua posizione ai più alti livelli della società romana con una sapiente politica matrimoniale. Le figlie Virginia, Angelica e Caterina sposarono rispettivamente Ascanio Massimo (nel 1576), Alessandro Monaldeschi e Orazio Bandini (1587). Quest'ultimo era figlio di Pierantonio, depositario del S. Collegio per quasi trent'anni; fin dal 1576 aveva appaltato le dogane di Ripa e Ripetta con il padre e tra il 1582 e il 1590 fu tesoriere di Camerino. Queste alleanze permisero al G. di stringere legami con i Mattei e con altre casate del patriziato cittadino e, al contempo, di entrare in un rapporto di devozione con i granduchi di Toscana, cui i Bandini e i Monaldeschi erano legati.
Per i due figli maschi, invece, i progetti si indirizzarono a garantire e accrescere il prestigio della famiglia. Il primogenito, Benedetto, aveva preferito dedicarsi agli studi, malgrado la sua iniziale opposizione, e alla fine degli anni Settanta abbracciò la vita ecclesiastica, cosicché il G. gli assicurò una brillante carriera in Curia, destinata a ripercorrere i successi dello zio Vincenzo, con i potenti mezzi economici di cui disponeva. Nel 1585 acquistò per 50.000 scudi una delle principali cariche finanziarie, il tesorierato della Camera apostolica, e un anno più tardi, a suggello del legame stabilitosi tra il pontefice e i Giustiniani, Benedetto ottenne la porpora cardinalizia. Il figlio minore, Vincenzo, invece, fu destinato alla vita civile e a seguire le orme paterne: prima del 1590 sposò Eugenia Spinola, figlia del marchese Giovan Battista e di Porzia Centurione, e il G. incamerò la ricca dote di 22.000 scudi per sostenere le attività del banco, affiancandosi il figlio come socio minoritario a partire almeno dal 1593.
Egli era intervenuto personalmente nell'educazione di Vincenzo, come risulta dal fatto che per sua volontà il giovane si era dedicato agli studi musicali, ma non è possibile stabilire una relazione tra il gusto del G. e la passione per il collezionismo che i figli svilupparono negli ultimi due decenni del secolo. Piuttosto, dagli anni Ottanta il G. accompagnò il crescente prestigio della famiglia con investimenti immobiliari importanti: nel 1588, per soccorrere il banco Bandini coinvolto nella crisi apertasi con la guerra dei tre Enrichi, comprò alcune proprietà del consuocero Pierantonio; tra il 1589 e il luglio 1590 definì con i Vento l'acquisto del palazzo sito a S. Luigi de' Francesi, dove già la famiglia risiedeva da qualche anno, e il 12 giugno 1595 acquisì da F. Anguillara il castello e il feudo, senza titolo, di Bassano di Sutri (oggi Bassano Romano) che destinò al figlio Vincenzo. Altre proprietà ricordate nel testamento sono la vigna fuori porta del Popolo, dove il cardinale si fece costruire una villa, e due case acquistate dagli eredi del cardinale di S. Sisto presso S. Luigi de' Francesi.
Negli anni Novanta le attività finanziarie del G. riguardarono il commercio annonario e gli investimenti nel debito pubblico. Per assicurare l'approvvigionamento, durante l'inverno 1592-93 importò, insieme con il figlio Vincenzo, 18.000 salme di grano siciliano per conto del papa. A partire da quel momento il G. sostituì i mercanti fiorentini in questo genere di traffici, per i quali il banco mantenne il monopolio per tutto l'ultimo decennio del secolo e, dopo la sua morte, per un periodo altrettanto lungo. Le operazioni principali del G., tuttavia, riguardarono il finanziamento del debito pubblico, secondo un indirizzo comune ai genovesi operanti sulla piazza romana, che predilessero il ruolo di banchieri speculatori piuttosto che quello di mercanti. Nel 1592, il G. comprò il Monte annona di Bologna (con un capitale di 300.000 scudi) e l'anno seguente sottoscrisse 125.000 scudi d'oro nel secondo Monte Annona di Bologna, che da questo momento assunse il nome dei Giustiniani. Nel 1594 comprò il Monte Nettuno (con capitale di 100.000 scudi) e, con gli Ubertini, il Monte della fede. Il 2 dicembre dello stesso anno il G. raggiunse l'apice della carriera di un banchiere pontificio, prendendo in appalto, in sostituzione di Giovan Battista Ubertini, la Depositeria generale, l'ufficio che svolgeva la funzione di cassa dello Stato e che comportava il controllo su tutta la finanza pontificia e la possibilità di commerciare in regime di monopolio. Clemente VIII lo preferì ai banchieri fiorentini Capponi, che pure avevano il sostegno del nipote, Giovanni Francesco Aldobrandini: gli Avvisi rilevavano come soltanto il G. fosse in grado di anticipare somme ingenti e di attendere i tempi estremamente lunghi del rimborso, a stento compensabili con le entrate connesse alla carica.
Questa nuova funzione fu subito messa alla prova con gravosi impegni finanziari: nel 1595, infatti, il G. acquistò il Monte di San Giovanni, eretto per restituire al banco i 160.000 scudi anticipati nella intermediazione per l'acquisto dello "stato" di Monte San Giovanni e della Terra di Strangolagalli che la Camera apostolica aveva voluto favorire nella persona di Isabella d'Avalos per spezzare il legame tra i signori locali, i conti d'Aquino, e il banditismo che travagliava la Campagna. L'operazione e alcune altre uscite onerose - destinate ad acquisire 214 nuovi luoghi del Monte della sanità e, insieme con Pinelli, i Monti dell'annona e d'Ungheria -, impegnarono nel complesso oltre 800.000 scudi e provocarono uno stato di crisi del banco. Solo l'intervento del cardinale Benedetto - "in continuo moto" per scongiurare il pericolo del fallimento, acuitosi anche per l'insolvenza dei banchi spagnoli cui i Giustiniani erano collegati (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1063, c. 134) - e l'arrivo in due riprese di alcune decine di migliaia di scudi da Genova salvarono il G. e il suo banco. Negli ultimi anni del secolo il G. prestò gratuitamente 200.000 scudi d'oro a Clemente VIII per continuare la lunga campagna ungherese contro i Turchi e anticipò, insieme con il banco Doni, 400.000 scudi per finanziare le operazioni militari connesse al recupero di Ferrara: nella congregazione cardinalizia responsabile di assicurare alla S. Sede il ritorno del feudo con l'estinzione degli Este entrò anche il figlio Benedetto.
Il banco del G., infine, operò alcune transazioni finanziarie in Spagna per il cardinal nipote Pietro Aldobrandini, al quale Benedetto era particolarmente legato: pagò nel 1597 i legati del cardinale Francisco de Toledo, di cui il figlio cardinale e l'Aldobrandini erano gli esecutori testamentari, e fu usato da alcuni nunzi, come Ottavio Mirto Frangipane, impegnato nelle Fiandre.
Il G. morì improvvisamente a Roma il 9 genn. 1600 e fu sepolto nella cappella di famiglia di S. Vincenzo in S. Maria sopra Minerva. Lasciò un patrimonio che gli Avvisi stimarono pari a 500.000 scudi, di cui 300.000 in crediti, un terzo dei quali dovuti dalla Camera apostolica, ma gli eredi valutarono le proprietà immobiliari, i luoghi di Monte e i censi poco più di 200.000 scudi.
Nel testamento, aperto il 10 gennaio, il G. lasciava diversi legati a istituzioni religiose e a confraternite romane e disponeva lasciti da distribuire in beneficenza a Roma, Genova e Chio. Destinava ai figli maschi tutti i beni pro indiviso, pur assegnando a ciascuno un preciso donativo che teneva conto delle ingenti spese sostenute per il cardinale. Aveva, tuttavia, fatto divieto al figlio Vincenzo di rivalersi sugli altri eredi per i profitti acquisiti dalla comune attività del banco, "per che veramente lui non ha havuto salvo il nudo nome, et tutti li guadagni […] sono stati fatti per la gratia d'Iddio et miei sudori et travagli" (S. Rolfi, "Della scoltura", Appendice, p. VI; Arch. di Stato di Roma, Notai del Tribunale della Camera apostolica, vol. 687, c. 41). Il figlio, dal canto suo, dopo aver affidato l'effigie del G. alla celebre Galleria Giustiniana, lo celebrò nel proprio testamento, perché "nella perdita dello stato di Scio et altre avversità si diportò con molta costanza et magnaminità e poi con molta prudenza in tutte le sue attioni con molta riputatione appresso li principi et a tutti gli altri", e invitò la famiglia a "imitare le sue curate attioni con le quali a tutti noi ha lasciato stimolo et occasione di provare ad imitarlo e specialmente nell'esquisita professione ch'egli fece di decoro honesto nell'essere, e nell'operare, d'inviolabile osservanza nel promettere, e nel contrattare, e di purissima verità nel parlare" (Gallottini, p. 52).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Camerale II, Annona, b. 105; Arch. Giustiniani, bb. 1, 5, 20, 22, 24, 103; Notai del Tribunale della Camera apostolica, vol. 687, cc. 29-42v; Arch. segreto Vaticano, Misc. Arm. IV-V, t. 27, cc. 369, 372, 374; Segreteria dei brevi, 221, cc. 158-159; Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat., 1053, c. 381; 1054, c. 109v; 1058, c. 251; 1068, cc. 27rv, 32r; Vat. lat. 5462, cc. 44, 50; F. Zazzera, Della nobiltà dell'Ita-lia, Napoli 1615, p. 177; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese…, I, Roma 1869, p. 479, n. 1861; T. Amayden, Storia delle famiglie romane, con note e aggiunte di C.A. Bertini, I, Roma [1914], pp. 455 s.; L. Perugi, I Giustiniani di Chio-Roma e il loro fedecommesso sino alla vendita del palazzo di Roma (1898), in Araldica e diritto, I (1915), 1, pp. 1-99; Correspondance d'Ottavio Mirto Frangipani premier nonce en Flandre, 1596-1606, I, 2, a cura di L. van der Essen, Rome-Bruxelles 1924, ad ind.; R. Battaglia, Le ville Giustiniani a Roma e l'opera di Carlo Lambardi, in L'Urbe, V (1940), 12, pp. 2-14; C. Belloni, Diz. stor. dei banchieri italiani, Firenze 1951, ad vocem; P. Portoghesi, Il palazzo, la villa e la chiesa di S. Vincenzo a Bassano, in Bollettino d'arte, XLII (1957), pp. 222-240; I. Toesca, Note sulla storia del palazzo Giustiniani a S. Luigi de' Francesi, ibid., pp. 296-308; P.P. Argenti, The occupation of Chio by the Genoese and their administration of the island, 1346-1566, Cambridge 1958, ad ind.; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome, Paris 1959, ad ind.; L. Salerno, The picture gallery of Vincenzo Giustiniani. Introduction and inventory, I-II, in The Burlington Magazine, CII (1960), pp. 21-27, 93-104; G. Ramacciotti, Gli archivi della Reverenda Camera apostolica, Roma 1961, p. 221; R. Enggass, "La virtù di un vero nobile". L'Amore Giustiniani del Caravaggio, in Palatino, XI (1967), pp. 13-20; G. Felloni, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano 1971, pp. 188, 645; M. Caravale, La finanza pontificia nel Cinquecento. Le province del Lazio, Camerino 1974, ad ind.; Die Hauptinstruktionen Clemens' VIII, a cura di K. Jaitner, Tübingen 1984, ad ind.; I palazzi del Senato: palazzo Cenci, palazzo Giustiniani, Roma 1984, pp. 99-284; E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano 1985, ad ind.; C. Pericoli Ridolfini, S. Eustachio, parte IV, Roma 1989, ad ind.; G. Palmerio - G. Villetti, Storia edilizia di S. Maria sopra Minerva in Roma, 1270-1870, Roma 1989, p. 180; F. Piola Caselli, Banchi privati e debito pubblico pontificio a Roma tra Cinquecento e Seicento, in Banchi pubblici, banchi privati e Monti di pietà nell'Europa preindustriale, Genova 1991, pp. 461-512 passim; S. Danesi Squarzina, Caravaggio e i Giustiniani, in Michelangelo Merisi da Caravaggio. La vita e le opere attraverso i documenti, a cura di S. Macioce - M. Gallo - M. Pupillo, Roma 1996, pp. 94-122; Id., The collections of cardinal Benedetto Giustiniani, in The Burlington Magazine, CXXXIX (1997), pp. 766-791; CXL (1998), pp. 102-118; A. Gallottini, Le sculture della collezione Giustiniani, I, Documenti, Roma 1998; S. Rolfi, Cortine e tavolini. L'inventario Giustiniani del 1638 e altre collezioni seicentesche, in Dialoghi di storia dell'arte, 1998, n. 6, pp. 38-53; Id., "Della scoltura". La lettera di Vincenzo Giustiniani all'avvocato Teodoro Amayden…, tesi di dottorato, Università di Bologna, 1998; F. Colzi, Il debito pubblico del Campidoglio. Finanza comunale e circolazione dei titoli a Roma fra Cinque e Seicento, Napoli 1999, ad indicem.