BELLI, Giuseppe Gioacchino
Il maggior poeta romanesco nacque a Roma il 10 settembre 1791 da Gaudenzio e da Luigia Mazio. Ebbe una gioventù infelice per disgrazie familiari e per difficoltà della vita. Costretto a miseri impieghi fin dalla prima adolescenza, crebbe triste e sconfortato, ma non tralasciò mai di studiare, imparando varie lingue e coltivando diverse discipline, scientifiche e letterarie. Poté trovare conveniente e agiata sistemazione quale segretario del principe Stanislao Poniatowski; ma per contrasti avuti con questo, lasciò tale ufficio e nuovamente si trovò nelle strettezze. Fu ospitato allora dai frati cappuccini, diede lezioni private, fece da ripetitore e da copista; gli furono di conforto soltanto le muse, ché sin dal 1807 aveva cominciato a scrivere in versi italiani non certo esemplari, ma dotati di una tal quale personalità. Fu nel 1813 tra i fondatori dell'Accademia Tiberina, con la quale si confonde - eccetto il periodo più splendido della sua p0esia romanesca - la sua vita letteraria.
Nel 1816 sposò Maria Conti, vedova Pichi, d'oltre dieci anni più anziana di lui, molto ricca. Per ovvie ragioni di convenienza, prima del matrimonio, il Belli, per interessamento del cardinal Consalvi, ebbe un impiego nel quale però non durò a lungo.
Vivendo ormai fra gli agi, per quanto malandato in salute nonostante i suoi 25 anni, ebbe occasione di viaggiare più volte l'Italia, di completare con la lettura e l'osservazione i suoi studî, e di contrarre una passione per una nobile signorina marchigiana, la marchesa Roberti, cui dedicò molti sonetti: un vero canzoniere amoroso.
Sembra che un primo sonetto romanesco lo componesse nel 1820; ma la sua vena nel campo della poesia dialettale incomincia a farsi copiosa negli anni che precedono immediatamente il 1830 e aumenta via via in quelli che seguono, sino al compimento di quel portentoso ciclo di oltre 2000 sonetti con il quale egli rese fino al 1849 l'aspettti vero e originale della Roma del suo tempo.
Nel 1824 ebbe un figlio cui impose il nome di Ciro. Nel 1837 perdé la moglie e subì dissesti finanziarî che gravemente lo colpirono. Il colera che infieriva in quell'anno lo preoccupò vivamente: temeva di morire e consegnava ad un amico i suoi scritti, disponendo che fossero bruciati qualora dovesse soccombere. S'impose le più severe economie, anche più del necessario, curandosi unicamente del figlio adorato, vivendo ritirato, preso già da una forma d'ipocondria, talvolta iraconda, che l'accompagnò fino alla morte.
Amici devoti gli furono vicini e lo vollero di nuovo con loro all'Accademia Tiberina ch'egli per dissensi con alcuni soci aveva abbandonato nel 1828. Il desiderio di migliorare le sue condizioni finanziarie, soprattutto per rendere più agiata la vita del suo Ciro, lo spinse a chiedere al governo pontificio, ch'egli con i suoi sonetti aveva fatto segno a satire feroci, un impiego, che, fatta pubblica attestazione di devozione e sudditanza, ottenne; ma nel 1845, insofferente di tutto e di tutti, chiedeva di essere "giubilato".
Libero da ogni ufficio, riprese l'attività sua di poeta dialettale (1847) ma per breve tempo; ché i movimenti del '48, la repubblica del 1849, lo sgomentarono e disorientarono. La restaurazione del governo pontificio lo trovò poeta accademico grave e abbondante, censore teatrale del governatore di Roma fra i più rigidi e pedanti, bigotto, misantropo, traduttore degl'inni della Chiesa, negatore dell'opera che lo aveva reso immortale e che affidava all'amico monsignor Tizzani perché la distruggesse. Fortunatamente, il colto prelato non l'ascoltò e così la raccolta dei sonetti del Belli è giunta fino a noi e si trova ora gelosamente conservata negli autografi originali presso la biblioteca nazionale Vittorio Emanuele.
Il Belli morì a Roma il 21 dicembre 1863. È sepolto al Verano. È ricordato in Roma da un monumento dello scultore Tripisciano nel rione di Trastevere, da un busto al Pincio e dal nome d'una via.
Il Belli può dirsi il creatore della poesia romanesca, ché pochi poeti dialettali, e non dei più felici, s'erano avuti prima di lui; e tutti quelli che seguirono, da lui presero sostanza e forma, avendo egli creata anche un'ortografia di cui diede ragione in alcune pagine scritte nel 1831 e riprodotte dal Morandi.
Con i suoi 2000 sonetti intese lasciare un monumento di quello che era la plebe di Roma, e della plebe di Roma d'allora fu interprete sommo. Le contraddizioni fra quest'opera demolitrice e l'atteggiamento, che il Belli conservò sempre, di suddito fedele del governo papale, atteggiamento giustificato del resto dal suo temperamento d'uomo amante della quiete, non sono neppur tali per chi pensi a ciò che il Belli volle essere: non già un tribuno, ma un pittore fedele della vita del suo popolo. Di ciò egli aveva piena coscienza e così chiarì i suoi intendimenti: "esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamenti, senza alterazione, senza pure inversione di sintassi e troncamenti di licenza se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso; insomma cavare una regola dal caso ed una grammatica dall'uso, ecco il mio scopo. Se con somigliante corredo di colori nativi giungerò a dipingere tutta la morale e civile vita e la religione del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non disprezzabile da chi guarda senza la lente del pregiudizio. Non casta, non pia talvolta, sebbene superstiziosa, apparirà la materia e la forma, ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e, più, lasciata senza miglioramento".
Ma la pittura fedele della plebe di Roma non offusca l'em0tività e la personalità del poeta che fu certamente uno dei più grandi artisti di quel che in Francia fu detto "verismo" e che già con l'opera del Balzac s'era incamminato per il mondo. Ma più che all'opera dello scrittore francese e degli altri che mano a mano si trovavano sotto il suo influsso, bisogna pensare all'atmosfera letteraria formatasi in Italia dopo la Rivoluzione francese. Apparirà allora che l'opera del Belli si ricongiunge nelle sue origini a quella di Carlo Porta, la quale colpì profondamente l'animo del nostro poeta. Nel Porta il Belli ritrovò tutto il suo spirito, che lo spingeva ai particolari precisi, allo scherzo anche sboccato, alla rappresentazione nuda e cruda dei sentimenti del popolo, quasi come reazione a tutto quanto di dolciastro e di finto tuttora usciva dalle accademie arcadiche, alle quali il Belli partecipava perché non ne poteva fare a meno volendo vivere la vita letteraria. Ma se a Milano la poesia del Porta circolava liberamente, quella del Belli sotto il governo pontificio doveva essere nascosta o doveva diffondersi - come avvenne - alla chetichella, in sordina, nei salotti ove un po' di spregiudicatezza era ammessa e tollerata.
La poesia del Porta colpì il Belli - e alcuni sonetti di questo sono, come da sua stessa dichiarazione, imitazione di componimenti di quello - ma non è a dirsi che l'opera del romano continui in altro ambiente l'opera del milanese. Subito il Belli si stacca dal Porta e il suo genio lo porta a concepire la costruzione del monumento alla plebe romana, opera ch'egli stesso e giustamente definì dramma. Ed è un dramma ampio e robusto, nel quale echeggiano mille voci più di risentimento che di speranza; voci che demoliscono, come dice il Carducci; voci in cui la fede dà segni di dubbio e se esplode, d'improvviso, ha tutte le caratteristiche del fanatismo. È tutto il popolo romano che incoscientemente si avvicina ai moti del '31 e del '49 e preannunzia, tra scherno e scetticismo, la trasformazione di Roma nel '70. Ascoltando il popolo, riportando i suoi giudizî, i suoi motti, le sue impressioni su tutto e su tutti, il poeta cerca di nascondersi il più possibile: ma la sua umanità fatta di un'angoscia che quasi sempre è celata dal sorriso, accompagna tutto quel mondo plebeo e l'immerge come in una enorme zona di tetraggine, ch'è la nota fondamentale dell'arte del Belli. Arte, dunque, demolitrice più che creatrice, ma così potente e impetuosa, così corrusca di colori, così vibrante di accenti che la rendono ancora - a parte il suo grande valore storico - d'una suggestione cui è difficile sottrarsi; commovente, profondamente pensosa anche se proclive al dubbio: come tutte le opere che nascono dalla simpatia per l'umanità che soffre.
Vivente il Belli, pochi suoi sonetti uscirono alla macchia in alcuni opuscoli; poco dopo la sua morte il figlio Ciro raccolse in quattro volumi (Roma 1865) una cospicua parte delle poesie inedite: i sonetti romaneschi furono però alterati per evitare il veto della censura. Soltanto nel 1886 cominciarono ad apparire nella loro integrità i sonetti romaneschi di G. G. Belli pubblicati dal nipote Giacomo a cura di Luigi Morandi: sono sei volumi editi dal Lapi di Città di Castello, dal 1886 al 1889. Ma del Belli esistono ancora circa centotrenta sonetti inediti.
Bibl.: La bibliografia belliana è ormai vastissima. Segnaliamo qualche saggio più importante: D. Gnoli, Il poeta romanesco G. G. Belli e i suoi scritti inediti, Firenze 1878; L. Morandi, Il Belli e il Manzoni - L'Arte e la vita del Belli - Il Giraud e il Belli, in Sonetti scelti, Città di Castello 1912; P. Orano, G. G. Belli, in I moderni, V, Milano 1926; tra gli stranieri: E. Bovet, Le peuple de Rome vers 1840 d'après les sonnets en dialecte transtévérin de G. G. Belli, Roma-Neuchâtel 1898; E. Baguenin, Un poète romain, in Revue des deux mondes, 1° aprile 1902; C. Vossler, Letteratura italiana contemporanea (trad. T. Gnoli), Napoli 1922. Per la bibl. degli scritti in italiano di G. G. Belli v. quella di G. Fumagalli in appendice alla biografia del poeta di G. Zaccagnini, in Vite dei Romani illustri, IV, Roma 1881. Per la bibl. degli scritti dialettali del B. e degli studî sul poeta, v. E. Veo, I poeti romaneschi, Roma 1927; id., Undici sonetti inediti di G. G. B., in N. Ant., 1° febbraio 1930.