VERDI, Giuseppe Fortunino Francesco
Per lunghissimo tempo V. credette di essere nato nel 1814; perché, diceva, così gli aveva sempre ripetuto sua madre. L'atto di nascita pubblicato da C. Gatti stabilisce che egli nacque invece il 10 ottobre 1813, da Carlo Verdi e da Luigia Uttini, nella parrocchia delle Roncole, frazione del comune di Busseto (Parma). Se a giustificare e comprendere l'arte di V., i suoi spiriti e le sue forme, la sua umanità e moralità e il suo progressivo svolgersi e divenire, giova considerarla in rapporto ai tempi in cui il maestro visse e durante i quali operò, giova anche tenere presenti i caratteri del paese dove V. nacque, gli aspetti e le qualità sostanziali della terra che lo formò: paese non favorevole certo al facile diletto e al godimento pronto, ma che si direbbe piuttosto fatto per anime e cuori che a splendide ma ingannevoli illusioni preferiscano realtà umili ma solide, e a immeritati doni le conquiste meditate e i meritati guadagni.
Benché anche di V. sia stata scritta in questi ultimi anni una specie di "vita romanzata", vita romanzesca la sua non fu davvero. Abbondante di avvenimenti significativi, sì, ma di avvenimenti che ove riguardassero tutt'altri uomini non potrebbero apparire che comuni e quasi trascurabili, e che hanno un significato solamente in quanto a trovarcisi in mezzo o di fronte fu proprio lui, V., il giovane che doveva pervenire a quelle sublimi altezze cui Dio l'aveva avviato o l'uomo già grande che per raggiungere le vette della gloria aveva dovuto tanto camminare e patire.
V. conobbe, come i più dei mortali, dolori molti e gioie poche e scarse, conobbe avversità crudeli e ingiuste, e conobbe, adeguata alla sua grandezza e ai suoi meriti, la favorevole fortuna: ma casi per sé stessi straordinarî, da favola, da leggenda, da romanzo, non gliene occorsero. D'altra parte - benché uomo di teatro se mai ve ne furono - egli non era, come invece fu Wagner, un uomo che potesse compiacersi di atteggiamenti drammatici, di finzioni teatrali romantiche, che desiderasse cioè apparire un uomo eccezionale un eroe vittorioso degno di sonanti inni o un eroe sfortunato degno dell'universale compassione. Fu, come pochissimi, un grande, ma fu - che pochissimi pur fra i maggiori seppero o poterono esserlo - un uomo semplice: intendiamo dire che, pur essendo quel creatore di genio che tutti sappiamo, volle essere semplicemente un uomo.
Se si considera che V. nacque da povera gente (il padre era un modestissimo rivenditore di vino e liquori e cibarie, la madre era stata una filatrice), gente che non aveva certo denaro da spendere per l'istruzione dei figlioli, se si considera che Verdi padre, dopo aver fatto insegnare al suo bambino dal parroco delle Roncole a leggere e scrivere, l'avrebbe probabilmente avviato ad apprendere un mestiere manuale, ma trovò invece subito, e senza cercarle, persone che s'interessarono dell'istruzione di lui: il vecchio organista Pietro Baistrocchi che gli apprese, senza volerne essere compensato, gli elementi della teoria musicale e della pratica organistica; il fabbricante di liquori Antonio Barezzi che si adoperò perché egli fosse ammesso, a Busseto, alla scuola di grammatica del canonico don Pietro Seletti e alla scuola di musica diretta da Ferdinando Provesi, maestro di cappella e organista della cattedrale (e si sa perfino di un operaio che, avendo lavorato ad aggiustare la sgangherata spinetta sulla quale il fanciullo studiava, non volle accettare per la sua fatica nessuna remunerazione), bisogna dedurne che V. dovette dimostrare, sin da bambino, doti d'intelligenza non comuni, ma anzi singolarissime.
Non è possibile, qui, seguire V. passo passo negli anni della sua fanciullezza. Basterà dire che la prima composizione di un certo impegno che egli poté far eseguire in pubblico fu una sinfonia (ouverture) che venne premessa a una rappresentazione del Barbiere rossiniano data nel 1828 nel teatro di Busseto, in sostituzione di quella di Rossini; e che in quegli anni e nei successivi fino al'32 egli scrisse moltissima musica da chiesa (nello stile e nelle forme che usavano allora) e marce e pezzi varî per la banda del suo paese e per voci e orchestra, fra le quali ultime composizioni I deliri di Saul, che dovette essere una specie di cantata, per baritono e orchestra.
Nel 1832, munito di raccomandazioni varie e di una pensione accordatagli dal Monte di pietà di Busseto (ottenuta soprattutto mercé l'appoggio del Barezzi, con una figlia del quale, Margherita, V. s'era intanto fidanzato), il giovane musicista si recava a Milano, e si presentava al Conservatorio per esservi ammesso. E qui occorre accennare a una questione che ha fatto consumare tempo e sprecare parole a troppe persone, Verdi stesso compreso, il quale mai, neanche da vecchio, poté darsi pace di non essere stato accolto nel Conservatorio milanese. Dal 1931, cioè dalla pubblicazione dell'opera del Gatti, fino a ieri si poteva credere che il Gatti avesse ormai per sempre ristabilito la verità dei fatti, senza per nulla nuocere alla reputazione di V. ma scagionando i vituperati maestri del Conservatorio dall'accusa di inintelligenza o peggio. Ma ora da nuovi documenti pubblicati da A. Luzio, Verdi e il Conservatorio di Milano (in Nuova Antologia, 1° marzo 1937) sembrerebbe potersi concludere che V. non già fu respinto dai professori del Conservatorio perché, avendo concorso a un posto di alunno di pianoforte, sonava troppo male dal punto di vista pianistico e aveva un'età troppo avanzata per poterlo rimettere sulla strada giusta, ma fu respinto proprio per troppo scarse attitudini musicali in genere. E sia pure. Ma chi può dire se le composizioni che allora V. scriveva eran buone o cattive? È più probabile fossero cattive, se V. stesso, essendogli stato mostrato nel 1893 un Tantum Ergo da lui composto nel '36 (all'età, si badi, di 23 anni, cioè quattro anni dopo ch'egli si era presentato per essere ammesso al Conservatorio) vi scrisse sotto, di suo pugno: "Queste note non hanno il minimo valore musicale".
Fallito il tentativo di entrare in Conservatorio, V. fu presentato a Vincenzo Lavigna (maestro concertatore alla Scala, compositore operista e, secondo una dichiarazione di quello che doveva essere il suo grande discepolo, "contrappuntista fortissimo"), e col Lavigna continuò i suoi studî sino al 1835. Intanto - cosa da notare come importantissima - egli andava per conto suo leggendo e ricopiando (quale miglior mezzo per conoscerle a fondo?) opere strumentali di Corelli, di Haydn, di Mozart, di Beethoven - copie che esistono tuttora - e partecipava ad esecuzioni musicali, e fra altre concertò e diresse esecuzioni della Creazione di Haydn e della Cenerentola di Rossini.
Mentre V. stava a Milano a studiare, i suoi numerosi e influenti amici di Busseto si davano un gran da fare perché, terminati i suoi studî, egli potesse essere nominato maestro di cappella e direttore della scuola musicale del paese. E V. stesso ci teneva, a quella carica, e la desiderava e fece quanto poté per ottenerla. Fortunatamente, a lui fu preferito un altro maestro. E fortunatamente V., pur dedicando una gran parte della sua attività alla direzione della banda di Busseto, che gli era stata affidata per tre anni, e pur andando di tanto in tanto qua e là nei paesi vicini a dare concerti, anche come esecutore al pianoforte, cominciò allora a comporre per il teatro. E si mise a scrivere la musica per l'Oberto Conte di Bonifacio su libretto di un certo dott. Antonio Piazza.
Da questo punto, cioè dal 1835 in poi, gli avvenimenti più importanti della vita di V. sono le sue opere, e più ancora, si intende, esse per sé stesse che non la loro varia fortuna. Vi sono nondimeno alcuni avvenimenti riguardanti la persona del compositore, la sua famiglia, i suoi rapporti col mondo, che vogliono essere menzionati.
Il 4 di maggio del '36 il giovane maestro sposava Margherita Barezzi, ventiduenne, figlia di quel gran galantuomo che lo aveva sempre confortato della sua fiducia e anche aiutato del suo denaro: e i due giovani sposi si accasarono nel palazzo Rusca, vicino all'abitazione del Barezzi, che continuò a sovvenirli di generosi aiuti.
Durante tutto il '36, e di seguito sino a mezzo il '39, V. rimase a Busseto, a dare lezioni di musica e a lavorare alla composizione dell'Oberto o a lavori secondarî o d'occasione. È del '38 la raccolta di Sei romanze pubblicata dal Canti: composizioni di assai scarso valore.
Il 26 di marzo del '37 nacque agli sposi una bambina, Virginia, che però doveva morire poco più di un anno dopo, cioè a un mese di distanza dalla nascita del secondogenito, Icilio Romano, nato nel luglio del '38. Ai primi di settembre del '38, ormai insofferente della meschina vita paesana sino allora vissuta, il giovane maestro lasciò, con la moglie e il bambino, Busseto, e si trasferì a Milano, dove quasi subito conobbe l'impresario Merelli e Giuseppina Strepponi, la già celebre cantante che alcuni anni più tardi doveva diventare la sua seconda compagna.
L'Oberto fu rappresentato, dopo molte e varie peripezie, al Teatro alla Scala il 17 novembre del '39, con esito non straordinario ma soddisfacente: prova ne sia che se ne diedero quattordici rappresentazioni, un numero che per oggi sarebbe incredibile ma che anche per quei tempi non era esiguo; e il Merelli offrì subito a V. di sottoscrivere un contratto per la composizione di altre tre opere. La prima di esse sarebbe dovuta essere Il Proscritto, su libretto di un certo Rossi: ma per varie ragioni quel libretto fu messo del tutto da parte, e gli venne sostituito un libretto di opera buffa: Il finto Stanislao, ovvero Un giorno di regno.
In quasi tutte le biografie di V. si legge che, mentre egli stava componendo la musica di quell'opera buffa, gli morirono, nello spazio di due mesi circa, i due bambini e la moglie. È una pietosa leggenda, autorizzata da un'affermazione dello stesso V. (a distanza di molti anni, e ripensando all'acerbità dell'antico dolore egli poteva anche sbagliare date riferibili alla sua stessa vita). La bambina era morta nel '38, il bambino nell'ottobre del '39, quattro settimane prima dell'andata in scena dell'Oberto. Quella che morì mentre V. stava lavorando alla musica del Finto Stanislao fu la sua giovane sposa, Margherita, uccisa ai 18 di giugno del '40 da una violenta encefalite. Ma rimane vero questo: che in due anni V. vide distrutta da un crudele fato la famiglia che si era formato: la compagna amatissima e i due figli che essa gli aveva dato.
Il Giorno di regno non piacque: anzi si può dire senz'altro che cadde. Non credo però che proprio per effetto di quella caduta V. si lasciasse prendere dallo scoramento tanto da dichiarare che non avrebbe più voluto scrivere musica: ma quel suo scoramento disperato fu effetto dei dolori sofferti, della solitudine in cui veniva a trovarsi, e forse di una segreta necessità di raccoglimento.
Solitario e scontroso, V. continuò a vivere a Milano, abitando una camera ammobiliata in casa di un affittacamere e andando a mangiare alla trattoria. Tutti sanno come il Merelli una certa sera lo incontrò e lo indusse a leggere il libretto del Nabucco. V. si mostrò dapprima infastidito e riluttante, ma finì con leggerlo (si tenga presente che egli aveva sempre sentito un profondo interesse per la Bibbia e per le antiche storie): e se ne accese, se ne entusiasmò, e nell'ottobre del '41 l'opera era terminata, e il 9 di marzo del '42 veniva rappresentata al Teatro alla Scala, eseguita da cantanti eccellenti fra i quali era la Strepponi. Fu, come tutti sanno, un trionfo: cinquantasette rappresentazioni in quattro mesi. "Con quest'opera", son parole di V. stesso "si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica".
Dal 1842, l'anno del Nabucco, al 1851, l'anno del Rigoletto, V. scrisse e mise in scena (perché era uso, come del resto è ancora, quando il compositore lo sappia fare, che l'autore di un'opera teatrale ne curasse egli stesso lo studio e la concertazione, e anche, come si dice oggi, la regia) tredici opere, che qui si citano con la data della loro prima rappresentazione: I Lombardi alla prima crociata, l'11 febbraio del '43, alla Scala di Milano, con esito ottimo; Ernani, il 9 marzo del '44 alla Fenice di Venezia, con esito buono dapprima ed entusiastico poi; I due Foscari, il 3 novembre dello stesso anno all'Argentina di Roma, con esito contrastato la prima sera e trionfale nelle successive; Giovanna d'Arco, il 15 febbraio del '45 alla Scala di Milano, con esito mediocre (ma se ne diedero, in quella sola stagione, diciassette rappresentazioni, quattro per settimana); Alzira, il 12 agosto del medesimo anno al San Carlo di Napoli, con esito piuttosto tiepido; Attila, il 17 marzo del '46 alla Fenice di Venezia, con esito clamoroso; Macbeth, il 14 marzo del '47 alla Pergola di Firenze con esito favorevole ma non molto caldo; I Masnadieri, ancora nel '47 al Queen's Theater di Londra (direttore d'orchestra V. stesso), con esito ottimo; Jerusalem (rifacimento dei Lombardi, non già, come sta scritto su qualche biografia, del Nabucco), il 26 novembre del '47 a Parigi, con esito piuttosto freddo; il Corsaro, il 25 ottobre del '48 al Teatro Grande di Trieste, con esito sfavorevole; La battaglia di Legnano, il 27 gennaio del '49 all'Argentina di Roma, con esito trionfale; Luisa Miller, l'8 dicembre del '49 al San Carlo di Napoli, con esito non più che buono la prima sera ma migliore nelle sere successive; Stiffelio, rappresentato il 16 novembre del 1850 al Teatro Grande di Brescia, che ebbe esito cattivo.
Da Milano a Roma, a Napoli, a Londra, a Parigi: è evidente che la fama del nuovo operista era diventata in una decina d'anni non solo nazionale ma europea. E gl'impresarî dei teatri e gli editori gli offrivano contratti sempre più vantaggiosi, e mettevano a sua disposizione i cantanti migliori e più famosi. Detto questo, poco resta a dire d'importante su quei dieci anni della vita di V.: conobbe moltissima gente, sovrani- e uomini di stato, artisti, scienziati, che gli espressero la loro ammirazione, e alcuni gli si dimostrarono amici; leticò - da quell'uomo che egli era, onestissimo ma ombrosissimo, e sospettoso e permaloso - con molte persone; ebbe, forse, qualche fuggevole relazione amorosa con belle donne vinte dal suo genio e dal fascino che egli esercitava pur nella sua rudezza; conobbe Clara Maffei, con la quale si legò di un'amicizia che doveva durare fino alla morte di lei, avvenuta nell'86; e, avvenimento più importante degli altri, s'innamorò, riamato, di Giuseppina Strepponi, con la quale cominciò a convivere, a Parigi, fra il '47 e il '48, e che egli sposò poi all'altare della chiesa cattolica di Collanges-sous-Salère il 29 aprile del '59. E anche per incitamento della Strepponi comperò quel podere e quella casa di Sant'Agata, presso Busseto, che doveva essere da allora il suo rifugio, il suo asilo di pace, e dove doveva scrivere le sue opere più grandi.
Dal 1851 al '62, altri undici anni e altre sette opere (otto, se si voglia contare anche l'Aroldo, che fu un rifacimento non fortunato dell'infelice Stiffelio): Rigoletto, rappresentata alla Fenice di Venezia l'11 marzo del '51, con esito entusiastico; Il Trovatore, rappresentata all'Apollo di Roma il 19 gennaio del '53, con esito pure entusiastico (il periodo fra il '51 e il '53 fu per V. tristissimo: gli morì la madre, fu malatissimo il padre, poi morì il suo fedele librettista Cammarano: e infine ci furono dolorosi screzî col Barezzi, che non sapeva adattarsi a vedere il suo V. preso da un nuovo amore); La Traviata, rappresentata alla Fenice di Venezia il 6 marzo del '53: come tutti sanno fu quella sera un gran fiasco, ma un anno dopo l'opera, qua e là ritoccata, otteneva nella stessa Venezia, al Teatro San Benedetto, un esito trionfale; I Vespri Siciliani (titolo fatto poi mutare dalla censura austriaca in Italia in quello di Giovanna di Guzman), rappresentata all'Opéra di Parigi il 13 giugno del '55 con esito soddisfacente ma non straordinario; Simon Boccanegra, rappresentata il 12 marzo del '57 alla Fenice di Venezia con esito cattivo (V. aveva passato gran parte del '55 a Parigi, questionando e leticando con impresarî stranieri che pretendevano far eseguire le sue opere senza pagare diritti di esecuzione); Aroldo (rifacimento dello Stiffelio), rappresentata il 16 agosto del '57 al Comunale di Rimini, sotto la direzione di A. Mariani, con esito non cattivo ma nemmeno molto favorevole; Un ballo in maschera, rappresentata al San Carlo di Napoli il 17 febbraio del '59 con esito entusiastico, quasi delirante; La forza del destino, rappresentata il 10 novembre del '61 al Teatro imperiale di Pietroburgo con esito ottimo.
Anche durante quel periodo tra il 1851 e il '62 gli avvenimenti importanti della vita di V. furono soltanto la composizione e le rappresentazioni delle sue opere: onde il conseguente accrescersi della fama di lui e del suo dominio nel campo del teatro musicale, e proventi pecuniarî sempre più abbondanti che egli cambiava in buone terre feconde estendendo man mano il suo possedimento intorno a Sant'Agata. E poi conoscenze nuove, di paesi e di uomini, moltissime: e le solite questioni o i soliti litigi, con librettisti, impresarî, editori, cantanti e direttori d'orchestra. Ma da notare il sempre maggior interesse dell'uomo per la causa nazionale italiana, per l'indipendenza della patria. Di sentimenti italianissimi, patriota fervente, V. era sempre stato; ma agli avvenimenti politici non aveva mai partecipato che dentro di sé o con gli accenti della sua musica rude e sanguigna, salvo, nel '48, la sua aperta adesione a una protesta del Guerrieri-Gonzaga contro la tirannide austriaca. Quando, nel '59, gli Austriaci furono cacciati dalla Lombardia, V. - che soffriva di non essersi potuto arrolare, per la sua salute sempre malferma, tra i combattenti - offrì generosi soccorsi per i feriti e le famiglie dei caduti; il 4 settembre del '59 fu eletto rappresentante di Busseto nell'Assemblea delle Provincie Parmensi. Con una lettera del 10 gennaio del '61 Cavour lo invitò ad accettare la candidatura a deputato del parlamento italiano: il 18 gennaio del '61 V. andò dal grande uomo di stato per tentare di farsi dispensare da quell'incarico, ma Cavour non volle rinunziare a lui, e il 3 febbraio V. veniva eletto deputato. Superfluo aggiungere che egli non diede al parlamento nessun considerevole contributo di attività: votò le leggi proposte o volute da Cavour, per la giusta fiducia che egli aveva nel genio del grande statista, ma niente più. Non più che un breve cenno merita l'Inno delle Nazioni che, cedendo a vive insistenze di autorità politiche, V. scrisse nel '62 (introducendovi frammenti della Marsigliese, del God save the Queen, dell'Inno di Mameli) e che fu eseguito a Londra nel maggio di quell'anno. Musica di occasione, di quella che V. detestava, e aveva ragione, e che a un grande artista come lui doveva riuscire peggio che ai mediocri.
Dal '63 al '71, l'anno della prima rappresentazione di Aida al Cairo, altri sette anni, durante i quali V. scrisse una sola opera nuova: Don Carlos, rappresentata all'Opéra di Parigi l'11 marzo del '67, con esito buono ma, benché crescente dalla prima sera alle successive, non molto vivo.
Ma quei sette anni non furono di inattività: furono di raccoglimento e di meditazione (anche, anzi per ciò, di amarezze), che condussero il maestro non già a una sua nuova maniera di concepire e comporre, e meno che meno a essere un altro da quel ch'era sempre stato, ma che, dall'osservazione del mondo intorno, uomini e cose, e da una sempre più larga e più profonda comprensione della vita lo condussero alla conquista di una sempre maggiore e più potente ricchezza di linguaggio. Certo influirono su quel raccoglimento e quelle meditazioni anche la sempre più diffusa conoscenza in Italia delle nuove opere straniere e le discussioni da esse suscitate (ma con quanto fallaci conclusioni! l'opera di Meyerbeer veniva dai più anteposta, come più bella e più importante, a quella di Wagner). Fra il '64 e il '65 V. riprese in mano il Macbeth, ne riscrisse molti pezzi e altri ne modificò, e il 21 aprile del '65 l'opera così rinnovata veniva rappresentata a Parigi, con esito non più che buono; fra il '66 e il '67 scrisse il Don Carlos; fra il '68 e il '69 riprese in mano La forza del destino per rifare o modificare anche di essa non pochi pezzi, e l'opera così rinnovata fu rappresentata alla Scala il 27 febbraio del '69 con esito ottimo. Nel '70 V. accettò l'invito di scrivere un'opera nuova per il Teatro khediviale del Cairo, e insieme accettò il soggetto propostogli dal Du Locle: e durante il '70 scrisse l'Aida, che non poté essere rappresentata in quell'anno per varî contrattempi, ma fu rappresentata il 24 dicembre del '71, con esito trionfale.
Altri avvenimenti da rammentare, di quegli anni: la conoscenza di Teresina Stoltz, la famosa cantatrice che dopo avere innamorato di sé il celebre direttore d'orchestra Mariani doveva destare anche nell'animo di V. un sentimento di affetto profondissimo (fu proprio amore? fu addirittura passione?); onde la gelosia del Mariani e poi l'inimicizia fra i due musicisti che erano stati amicissimi; la morte del padre di V., nel gennaio del '67, e quella di Antonio Barezzi seguita a breve distanza; lo sdegno per una lettera del ministro Broglio a Rossini, nella quale era detto che dopo quelle di Rossini non erano più state scritte in Italia opere musicali degne di considerazione: e tanto fu lo sdegno di V. che egli rimandò al ministro l'onorificenza di commendatore della Corona d'Italia; l'incontro col Manzoni, preparato dalla contessa Maffei, e avvenuto, con grande commozione del maestro, il 3 giugno del '68; e finalmente, in conseguenza della morte di Rossini, avvenuta alla fine del '68, l'idea che V. ebbe, di una Messa di Requiem commemorativa, che avrebbe dovuto essere composta da una dozzina di musicisti, V. compreso: idea che fu bene accolta, ma non poté essere attuata per sopravvenute gelosie e vanità e pettegolezzi. V. però scrisse il Libera che doveva poi includere nella Messa che avrebbe scritto dopo la morte del Manzoni. In più di questi avvenimenti, i soliti litigi con editori, impresarî, artisti; e nuovi viaggi e nuovi incontri, e onori e plausi: e fra un viaggio e l'altro, e fra uno e un altro trionfo, periodi di riposo, o di raccoglimento, a Sant'Agata, fra i campi e in mezzo ai contadini.
Durante i sedici anni intercorsi fra il '71, l'anno di Aida, e l '87, l'anno di Otello, V. scrisse la Messa di Requiem dedicata alla memoria del Manzoni (eseguita per la prima volta il 21 maggio del '74), il Quartetto per archi ('75), il Pater noster e l'Ave Maria su versi di Dante ('80), e riprese in mano il Simon Boccanegra, e avendo a collaboratore, per modificarne il libretto, Arrigo Boito - che da allora fu di V. il più prezioso collaboratore e consigliere - riscrisse o modificò parecchi pezzi, e l'opera così corretta o rifatta fu rappresentata con felicissimo esito alla Scala il 24 marzo dell '81; e lo stesso fece per il Don Carlos, che ridotto in quattro atti fu rappresentato il 10 gennaio dell'84 alla Scala con esito entusiastico. Notevolissima l'attività che V. spiegò in quegli anni concertando e dirigendo, in Italia e fuori, esecuzioni di opere proprie, e specialmente della Messa. Nel '74 egli fu nominato senatore del regno.
Otello, che fu dato alla Scala il 5 febbraio dell'87 con esito trionfale, forse fu, di tutte le opere di V., quella alla cui preparazione e composizione egli lavorò più lungamente. Aveva infatti cominciato a pensarci nell'80, e a concepirne e scriverne la musica lavorò dall'84 all'86.
Dall'89 si può saltare al '93, l'anno del Falstaff. Perché a confronto di quei due avvenimenti diventano quasi trascurabili tutti gli altri che si produssero nella vita di V. durante i sei anni fra essi intercorsi. Nuovi incontri e nuove conoscenze di grandi uomini? Ormai V. era stato avvicinato, per ossequio, da tutti i grandi della terra. Piuttosto si deve dire che anno per anno gli venivano a mancare persone care e amiche (la Maffei, il suo unico allievo E. Muzio, l'Arrivabene, il Carcano): onde un sempre maggior senso di isolamento e di austera tristezza. Nuovi onori? E che si poteva ormai fare, per onorarlo, di più di quel che già s'era fatto? E d'altra parte egli non era uomo da desiderare onori, e meno che meno da cercarli e sollecitarli, né era uomo da compiacersene molto. Non già che non conoscesse il proprio valore. Veramente superbo non fu mai, ma umile neppure: umile non si sentì e non fu che di fronte alla propria arte e ai grandi che l'arte avevano già prima di lui amato e servito, non mai di fronte agli uomini in genere: anzi - ed è cosa da tener presente per la comprensione di lui uomo e artista insieme - anzi fu sempre orgogliosissimo, e facilissimo ad adombrarsi di ogni atto o parola che gli paressero irriguardosi della propria altezza; ma sentiva la vanità degli onori mondani, e quanto v'è, se non di menzognero, di convenzionale nelle proteste di ammirazione e nelle lodi che gli uomini tributano agli artisti famosi, e se pur non se ne sdegnava che raramente, sempre ne sentiva quasi il fastidio o l'insofferenza. Quando, nell'89, fu celebrato il cinquantesimo anniversario dell'Oberto con una specie di nazionale protesta di ammirazione per il suo autore, più che mai vegeto e attivo e ormai pervenuto alle massime vette della gloria, dimostrazione alla quale parteciparono il re, il governo, i maggiori istituti italiani di coltura, e gli uomini più illustri in ogni campo dell'arte e della scienza, V. ne fu certo toccato e commosso, e non potendo ringraziare tutti, ringraziò re Umberto e il Carducci e pochi altri: ma ne ebbe vera gioia? Non è credibile. Forse egli ne ritrasse solamente tristezza.
Al Falstaff V. cominciò a pensare, insieme con Boito, nell'89 (a pensarci, s'intende, proprio col deliberato proposito di scriverne la musica, perché come a possibile soggetto d'opera ci aveva già pensato molte altre volte, fin da quando era giovane). E in quello stesso anno cominciò a lavorarci, anche - come era sempre stato suo costume, fra la composizione di un'opera e nell'attesa di scriverne un'altra - componendo contrappunti, fughe, e altri esercizî che appena scritti distruggeva. E continuò a lavorarci - con qualche interruzione, come quando, per le onoranze milanesi a Rossini nel primo centenario della nascita di lui, diresse, nell'aprile del '92, a quasi ottant'anni di età, lo Stabat rossiniano - fino al settembre del '92 nel quale mese l'opera fu compiuta. Rappresentato alla Scala il 9 febbraio del '93, diretto da E. Mascheroni e protagonista V. Maurel, il Falstaff fu accolto, come è noto, con applausi tali e tanti da dar l'impressione di un esito trionfale; ma quegli applausi erano rivolti al maestro glorioso e venerando, non proprio all'opera, la bellezza e grandezza e perfezione della quale non fu compresa se non da pochissimi. E V. lo sentì bene: e fu l'ultima e forse la più profonda, più crudele, più dolorosa amarezza della sua vita d'artista. Del resto si può dire che il Falstaff è rimasto incompreso non solo dal pubblico ma dai più degli stessi musicisti fino alla nuova rivelazione della sua prodigiosa bellezza e perfezione data da quel grande interprete che è Arturo Toscanini alla Scala di Milano nel 1921 e nei cinque o sei anni successivi.
Gli ultimi anni della vita di V., dal '93 al 27 gennaio del 1901, giorno della sua morte, avvenuta a Milano, in una camera dell'albergo Milano, furono quasi del tutto tristissimi. Fece ancora, V., qualche viaggio (andò ad assistere a parecchie prime rappresentazioni del Falstaff, in città italiane e a Parigi), ma furono tutti viaggi di breve durata: sempre più lunghe, invece, le soste a Sant'Agata, a Genova, a Milano. Scrisse ancora i Pezzi Sacri (Te Deum, Laudi alla Vergine, Stabat), eseguiti per la prima volta a Parigi nell'aprile del '98, e poi a Torino il 26 maggio di quello stesso anno. Ma ormai egli sentiva la vecchiaia, e il declinare giorno per giorno delle forze, e la solitudine sempre maggiore. Tremenda, inconsolabile solitudine dal 14 marzo del '97, da quel giorno cioè in cui gli mancò la compagna di quasi tutta la sua vita, Giuseppina Strepponi, che egli aveva amato più di qualsiasi altra creatura al mondo, e che dopo avergli dato, da giovane, bellezza, amore e assistenza spirituale e morale discretissima e potentissima insieme, gli aveva dato poi sempre, fino all'ultimo respiro, il conforto di una devozione senza limiti.
Uno degli ultimi atti di V. uomo (ma pensato già dall'89) fu, come tutti sanno, un atto di carità: la fondazione di quella Casa di riposo per musicisti che già in questi trent'anni dalla sua fondazione è stata l'ultimo tranquillo asilo di tanti e tanti professionisti ridotti in vecchiaia all'indigenza. Di atti di pietà benefica, di carità generosa, V. ne aveva compiuti già molti, nella sua lunga vita, verso i familiari, verso amici sfortunati (per esempio verso la famiglia del Piave, quando questi fu colpito da paralisi) e verso i suoi conterranei, per i quali aveva fatto costruire nell'82 un ospedale capace di parecchi letti. Ma la fondazione della Casa di riposo per musicisti, alla quale lasciò quasi tutta la sua ingente fortuna e i futuri proventi delle sue opere, fu il suo atto benefico più grandioso e più significativo.
In ossequio alla volontà di V. stesso, il trasporto della sua salma dall'albergo al camposanto avvenne (il 30 gennaio) alle sei del mattino e in silenzio. Ma il 26 febbraio successivo la salma veniva traslata dal camposanto alla Casa di riposo per musicisti. E furono allora decine e decine di migliaia di persone che l'accompagnarono, reverenti e commosse.
L'arte di V.: spiriti e forme. - Le sommarie definizioni che seguono dell'arte verdiana potranno dimostrare la fondatezza di questi concetti:1. che V., figlio di una terra austera, figlio del popolo, nato in povertà e dalla povertà ammaestrato, di carattere rude, ma schietto, buono e onesto, e nato col genio della musica, è il primo musicista italiano che operi in quanto artista come egli vive in quanto uomo, secondo una coscienza morale continuamente vigile e intransigente, artista di sì rara e pura coscienza morale - cioè umana in senso assoluto, e dunque anche civile e nazionale - da poter essere considerato anche in quanto tale un maestro; 2. che l'arte verdiana andò concretandosi in opere di sempre maggior valore e significato in conseguenza della progressiva conquista di un linguaggio via via più ricco, più esteso, più preciso, corrispondente a una sempre maggiore comprensione di umanità. S'intende bene che questa affermazione esclude l'accettabilità della divisione dell'opera verdiana - da altri proposta e da moltissimi accettata - in opere di tre o più maniere".
Musicisti grandi e grandissimi l'Italia ne aveva avuti molti anche prima di V.: superfluo nominarli. Ma se i grandi polifonisti della musica sacra fino a tutto il '500 avevano espresso e cantato, in opere mirabili per intimo fervore e stupende per magistero di costruzione, il sentimento religioso della fede cristiana e della grandezza della Chiesa cattolica come essi e i loro contemporanei lo sentivano, avevano così espresso un sentimento che, essendo al disopra della vita, è in un certo senso fuori della vita; e se i grandi maestri dell'arte strumentale, e specialmente i creatori della sonata per violino e delle forme da essa derivate, avevano creato opere di altissimo lirismo, avevano con esse cantato aspirazioni e sentimenti del tutto personali, e ognuna di esse, più che espressione di un senso di vita suscitato da simpatia e comprensione umana, era stata quasi, come oggi s'usa dire, una evasione dalla vita; e in quanto poi alle opere dei musicisti del teatro, eccettuate in parte quelle del Monteverdi ed eccettuati frammenti sparsi di altri musicisti, lampeggiamenti senza continuità e senza seguito, erano sempre state, per tutto il Seicento e il Settecento e fino a quasi tutto Rossini, opere alla vita non del tutto estranee o contrarie, ma da essa del tutto superate, anche quando non erano state concepite per puro passatempo, divertimento, piacere. Le prime manifestazioni di quel senso di umanità collettiva, universale (anche se espresso attraverso i sentimenti di un personaggio singolo) onde l'arte verdiana doveva poi trarre la sua principale ragion d'essere e le ragioni del suo divenire, del suo progressivo arricchirsi e trasformarsi, si trovano nel Guglielmo Tell di Rossini. Nel Tell palpita, sia pure saltuariamente, un senso di umanità che nelle precedenti opere rossiniane non s'era ancora manifestato sì profondo e potente: e v'è dunque l'espressione di un nuovo senso morale (e dunque il senso del dramma). Nella storia dell'opera italiana, anzi della musica italiana, il Guglielmo Tell è insomma la prima manifestazione di quel senso di umanità per il quale erano stati proclamati quarant'anni prima i droits de l'homme et du citoyen.
Fra l'ultima opera di Rossini e quelle di V. ci furono quelle - per nominare solo i grandi - di Bellini e di Donizetti. Ma se l'arte di Bellini nasce da un profondo senso umano, e dunque con caratteri drammatici, subito si sublima, per suo destino ed elezione, in arte puramente lirica, s'innalza, s'inciela, e rapisce con sé e in sé l'animo di chi l'ascolta: arte superatrice della realtà drammatica, che può come nessun'altra dare il senso della bellezza perfetta, ma arte che, appunto per essere al disopra dell'umanità ancora tormentata e sofferente, è meno universale di quella dell'ultimo Rossini o di quella di V., è meno vicina a tutti gli uomini, e dunque meno generosa di consolazioni e di conforti umani. E se Donizetti ebbe non di rado una facoltà di comprensione umana onde gli nacquero pagine di una sostanza umana universale e di vera e propria essenza drammatica, troppe altre volte operò, come gli operisti del '700, da musicista del tutto estraneo alla vita circostante, per mero piacere e divertimento suo e altrui, da puro edonista.
V. non avrà mai toccato, ammettiamo, l'altezza lirica raggiunta da Bellini; ma la sua fu un'arte che - or più or meno riuscita - volle sempre trarre dalla vita umana la sua ragion d'essere e la sua sostanza, e volle sempre parlare a tutti, soffrire con tutti, cantare con la voce di tutti per amore di tutti. E non fu mai perciò pensata e scritta per divertire chi la scriveva o chi l'avrebbe ascoltata. "Divertirsi" scrisse V. una volta "è parola che nella mia gioventù mi faceva montare il sangue alla testa e mi metteva in tutti i furori". E se quando scriveva il Falstaff egli disse più volte: "Scrivo per mio divertimento", lo disse quasi per pudore: perché a quell'età gli pareva doversi scusare di pensare ancora all'arte, al teatro. "V., musicista del popolo", è stato detto più volte, e giustamente: ma non già perché egli abbia mai voluto parlare quel linguaggio povero e sciatto che secondo certuni sarebbe il solo da potersi definire popolare, ma perché egli trasse dal cuore del popolo - cioè dalle aspirazioni, emozioni, passioni del popolo, dell'umanità in genere - la ragione e la sostanza e gli accenti della sua arte.
È stato anche detto e ripetuto più volte che V. fu il cantore dell'indipendenza nazionale italiana. Se si voglia intendere che V. scrisse le sue opere, sino al 1859, col deliberato proposito di servire la causa dell'indipendenza nazionale, la definizione non è accettabile. Ma V. fece di più: egli, sentendo intorno a sé il fervore di amor patrio che infiammava i petti degli Italiani più puri e più degni, e quasi ascoltando i fremiti di quei cuori fraterni, cantò l'amore di patria e della propria terra e le più nobili, più alte aspirazioni umane e la bellezza e santità del sacrificio per ogni nobile causa, cosicché la sua voce, le sue parole, i suoi canti, poterono essere da tutti gl'Italiani sentiti come corrispondenti a quelle intenzioni, a quei sentimenti e propositi che essi nutrivano nell'intimo col loro sangue più puro e più generoso.
E passiamo finalmente a considerare il linguaggio verdiano, cioè le opere di V. nelle loro intenzioni, nella loro realtà e nel loro significato e valore.
Dire che V. ebbe il senso del teatro come forse nessun musicista, non solo in Italia, l'aveva mai prima avuto, è dire una cosa che dicono tutti: ma si corregga la definizione in "senso del dramma" e si sarà data così la più propria definizione della natura artistica del maestro. Ma bisogna aggiungere che a sviluppare quel suo senso del teatro da tradizioni e formule estetiche che lo irretivano, e al possesso e all'uso di esso, egli non doveva pervenire che grado per grado, via via che attraverso l'osservazione dell'umanità poté conquistare una sempre più larga e profonda comprensione dell'anima umana e delle passioni umane e un linguaggio ad essa comprensione corrispondente.
Del verdiano senso del teatro sono dimostrazione validissima non solo i soggetti delle opere da lui composte - quasi tutti - ma anche quelli che egli considerò come possibili inspiratori di opere che poi non scrisse (Fedra, Medea, Amleto, Re Lear, per citarne solo alcuni). Ma ne sono non meno valida dimostrazione i carteggi fra lui e i suoi librettisti, da A. Somma a S. Cammarano, a F. M. Piave, ad A. Ghislanzoni, ad A. Boito.
Bellini diceva: "Datemi buoni versi e vi darò buona musica", che era una giustificazione quasi fanciullesca del proprio dono di cantare, ma che, in un certo senso, esprimeva il gusto di lui per le forme euritmiche, armoniose, perfette di quantità e di suono. V. invece chiedeva ai suoi librettisti parole sceniche". Non diceva neanche "versi", ma parole"; cioè chiedeva espressioni verbali che del dramma, dei sentimenti e passioni dei personaggi fossero proprio quelle che potevano parere le più necessarie e potenti e incisive: eleganti o sgraziate, aristocratiche o plebee, composte in versi armoniosi o contorti, poco gl'importava: l'importante era che le parole dette da quel tale personaggio in quel dato momento esprimessero senza possibilità di equivoco, di dubbio, d'incertezza, quel tale sentimento, quel tale impeto di passione.
Ma pure, si dirà, egli accettò e fece sue le forme del melodramma italiano quali Rossini e Bellini e Donizetti avevano creato. Certo, né avrebbe potuto fare altrimenti: prima di tutto perché si era formato, in quanto musicista, sulle opere di quei grandi; e poi perché quelle forme, in quanto tali, cioè in quanto forme di lirica musicale, erano belle e seducenti; e infine perché per spezzarle e rifiutarle o sostituirle con altre bisognava che egli altre ne inventasse, e non poteva trovarne prima di averne trovato la ragione, di averne sentito la necessità.
Tutte le opere di V., dal Nabucco all'Aida, e anche, se si vuole, all'Otello, constano di pezzi lirici - cioè pezzi strofici, arie a una voce, e duetti, terzetti, pezzi d'insieme, cori - alternati a recitativi, come le opere dei melodrammisti suoi predecessori. Ma quali differenze fra le arie di costoro e le arie verdiane! V. è un lirico, certo: tant'è vero che canta sempre, anche quando dà suono a due sole parole; ma è un lirico che, salvo rari casi ("Lassù nel ciel" del Rigoletto, "O terra addio" dell'Aida), non perde mai la coscienza della realtà che l'ha commosso e lo fa cantare. I rapimenti, i voli eterei non sono in lui né frequenti né durevoli: e perciò non si trova in tutta la sua musica una melodia sì immateriale, aerea, divina, come la "Casta Diva", ma non vi si trova però mai neanche una melodia che per incielarsi si disperda e vaporizzi nel nulla. È un lirico, insomma, che canta col presentimento immanente del dramma. E le differenze tra l'aria verdiana, istintivamente drammatica, e quella, più propriamente lirica, di Rossini (anteriormente al Tell) e più ancora di Bellini e pur di Donizetti, sono evidenti sia nel disegno melodico sia negli accompagnamenti. La melodia di un'aria, per esempio, di Bellini, nasce, sì, dal sentimento espresso dalle parole, ma fiorisce quasi indipendentemente da esse: la melodia dell'aria verdiana nasce dalle parole e vi rimane aderente; e se si può dire che anch'essa, in quanto aria, è antidrammatica, perché arresta o ritarda il divenire del dramma, e se si può dire che in quanto musica pura è povera di disegno (il suo svolgimento consta generalmente di reiterazioni e conferme dello spunto iniziale), bisogna anche dire che nella sua povertà di svolgimento lineare, nella sua insistenza di movenze, è la riprova dell'istintivo senso drammatico verdiano. V., insomma, prima che musicista puro è, per istinto, un drammaturgo. Il suo errore, involontario, è di scrivere arie, pezzi, per definizione, antidrammatici: ma una volta trovata l'espressione per un determinato momento o sentimento drammatico, egli non può più modificarla o svolgerla come pura musica: troverà nuovi motivi e accenti musicali solo quando il dramma, svolgendosi, esigerà da lui nuove parole.
E queste osservazioni valgano anche per gli accompagnamenti delle arie: che in Rossini e Donizetti e più ancora in Bellini sono generalmente atmosfera favorevole e nulla più, ondeggiamenti di arpeggi, per lo più di ritmo ternario, non ad altro intesi, si direbbe, che a tenere sospesa nell'aria la nuda melodia; ma in V. gli accompagnamenti delle arie, per lo più a note o accordi ribattuti, in ritmi incisivi e talvolta risultanti da vari disegni sovrapposti, sono sempre intesi a rappresentare, sia pure come espressione complementare, un momento dell’azione, o i luoghi e le circostanze di essa.
Ma più ancora delle arie, e dei pezzi strofici in genere, valgano i recitativi a dimostrare quale fosse, più che il senso del teatro, l'istinto e il genio drammatico di V. Si dice recitativi perché così si usa chiamarli, e perché in verità molte volte non son proprio niente altro che recitativi quei passi di parlato o declamato che si trovano tra un'aria e un'altra delle opere di V. Ma s'intende bene che i recitativi verdiani hanno valore drammatico quando non si possono più definire come tali. Non sono melodia, non sono declamazione, ché la declamazione non ha nulla a che fare col dramma. Sono musica drammatica, semplicemente, e quale non ne avevano composto che rarissimamente i maestri predecessori di V., e quale egli sempre più seppe comporne dalle prime opere all'ultima. Musica drammatica: che in un punto può consistere di una sola nota ritmata dall'emozione del personaggio, e quella nota ribattuta essendo la sola espressione necessaria, essa è completa, perfetta; e in un altro punto può essere frase melodica (senza essere melodia vera e propria) di grande ampiezza di disegno. Si leggano, per es., della Traviata la breve scena del 2° atto tra Violetta e Alfredo, che segue a quella tra Violetta e Germont; del Trovatore l'ultimo quadro; del Don Carlos l'inizio della scena tra Filippo e Rodrigo e la scena tra Filippo e l'Inquisitore: e, lasciando da parte il "fuoco di gioia" e il "brindisi" e simili altre vanità, si legga l'Otello.
L'arte verdiana è generalmente semplicista e quasi elementare: ci si riferisce, s'intende, sia ai personaggi delle opere verdiane come furono creati e come appaiono, e alle situazioni sceniche come sono interpretate ed espresse, sia al linguaggio musicale in quanto, per così dire, vocabolario e forme, e alle costruzioni polifoniche. Specialmente per quel che riguarda le costruzioni polifoniche (della musica lineare si è già detto) si può affermare che V. aveva scarso il senso della coralità multivoca, della concordia discors. Che sentisse il fascino della polifonia e il desiderio di possederne l'arte è certo, e basterebbero a provarlo i frequenti esercizî di composizione polifonica che si imponeva, e la composizione del Quartetto e della Messa. Ma egli era veramente un artista che sentiva per sintesi e non poteva esprimersi che per sintesi (per sintesi successive la psicologia complicata di un personaggio: e forse perciò non scrisse un Amleto o un Re Lear): quando tentò la polifonia, far nascere da due voci una terza non meno viva di quelle due, e da tre voci una quarta, e così via, non riuscì che a costruzioni volontarie e fredde; per non parlare del Quartetto, che in quanto scritto da V. è un'opera insignificante, anche la Messa non è da porre tra le sue opere più grandi: anzi non è un'opera veramente grande.
Fu invece, V., un creatore vero e proprio in quanto orchestratore delle sue opere. La sua orchestrazione non è mai artificiosa, né decorativa, né mai fredda: appunto perché in quanto orchestratore egli poté rimanere quel che intimamente era e si sentiva, uomo di teatro, drammaturgo. Considerata per sé stessa la sua orchestrazione potrà parere talvolta elementare, talvolta rozza, e molto meno interessante di quella di altri musicisti di quel tempo: ma l'errore è di considerarla per sé stessa, come pura musica, e non nel dramma e in rapporto al dramma.
Gli anni apparentemente meno fecondi di V. furono i più ricchi di osservazioni sul mondo e sugli uomini e di meditazioni sull'arte. Ciò è già bastantemente dimostrato dalle ultime opere di V. se si confrontino a quelle precedenti. Ma vi sono anche dichiarazioni, affermazioni, confessioni sue che possono dare ragione di quella sua ascesa di drammaturgo, per cui dal Nabucco pervenne, attraverso il Rigoletto, la Traviata, il Trovatore, il Don Carlos, l'Aida, sino all'Otello e al Falstaff.
Nel 1869 egli si adira contro il pubblico, che non applaude, e gli esecutori, che non sanno far valere se non arie e romanze, e proclama che al disopra delle arie e delle romanze v'è il "dramma musicale" (lo concepiva in modo confuso e approssimativo, ma lo presentiva e ci pensava); negli anni intorno al '70 discute più volte, in lettere al suo amico Arrivabene, di melodia e armonia e recitativo, e scrive queste auree significative parole: "Nella musica vi è qualcosa di più della melodia, qualcosa di più dell'armonia. Vi è la musica"; le quali, completate da altre che in quelle lettere ognuno può andare a cercare, significano che la musica non era per V. un'arte per sé stante, ma egli non poteva sentirla e concepirla che in funzione di espressione drammatica, vale a dire che V. non si sentiva - e non lo era - un musicista puro, ma un drammaturgo.
È di quel tempo - fra il 1870 e il 1871 - anche la famosa frase verdiana che fraintesa, in buona o mala fede, da tanti storici e critici e anche artisti, è stata causa di tante sciocchezze dette e scritte sulla musica: "Torniamo all'antico: sarà un progresso". Ma V. - che invece di tornare indietro andava avanti, e che aveva allora appena scritto l'Aida, e avrebbe scritto ancora Otello e Falstaff - scrisse quelle parole di seguito a queste altre: "Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere e sono belli talvolta in teatro: in Conservatorio no". Volle cioè dire: Tornate a studiare la grammatica o voi tutti che non la sapete più! E in tal senso furono parole giustissime che anche oggi gioverebbe a molti musicisti tener presenti: ma altro senso quelle parole non volevano avere e non hanno.
Più memorabile invece, fra i molti pensieri espressi da V. in quegli anni, questo: "L'artista che rappresenta il suo paese e la sua epoca diventa necessariamente universale, del presente e dell'avvenire". Un pensiero che potrebbe essere posto a conclusione di questa breve trattazione per ciò che esso significa e per l'insegnamento che ci dà, e perché esprime bene quella interezza di V. uomo e artista che fa di lui una delle figure più grandi e più pure dell'arte italiana e della storia italiana. Ma la conclusione qui vuol essere un'altra, che riguarda non solo V. ma il teatro italiano e la storia del teatro in genere.
Molte volte è stato affermato che l'Italia non ha mai avuto un suo grande teatro, come l'hanno avuto la Spagna con Lope de Vega e Calderón, l'Inghilterra con i drammaturghi elisabettiani e soprattutto con Shakespeare, la Francia con Corneille e Racine e Molière, la Germania con Lessing, Goethe, Schiller: poeti drammaturghi ai quali non sono paragonabili il nostro Goldoni e il nostro Alfieri. Sulla inammissibilità del paragone non è il caso di discutere. Ma si vuol affermare che il teatro italiano grande, grande e italiano, bisogna cercarlo altrove, cioè nella musica. I grandi maestri, i primi grandi creatori del teatro italiano sono Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi. L'Ottocento ha dato all'Italia, con le opere loro, quel teatro italiano che l'Italia non aveva ancora avuto e che non avrebbe forse potuto avere diverso, essendo esso, il teatro di poesia e musica insieme, l'espressione più propria e caratteristica del genio drammatico italiano. Se l'Italia non poté avere prima dell'Ottocento un teatro suo e grande, è perché la concezione estetica dei suoi operisti precedenti era stata una concezione meramente edonistica. L'opera teatrale acquistò valore essenziale e grandezza man mano che gli artisti, di genio, operarono in virtù di un senso umano che diventò senso del dramma, di una coscienza umana e morale che diventò coscienza del dramma.
E se dei quattro grandi operisti del teatro italiano dell'Ottocento, Rossini, Bellini e Donizetti possono essere considerati, dal punto di vista del dramma, piuttosto quali profeti e annunziatori che quali creatori consapevoli - in quanto che in essi il musicista puro prevalse sul drammaturgo -, V. può essere considerato come il primo drammaturgo italiano: il primo maestro che attraverso sue progressive esperienze e conquiste concepì e creò opere di quell'arte drammatica, il cui linguaggio, apparentemente composito ma nella realtà estetica unitario, è la poesia essenziale che per esprimere la vita umana degna di essere rappresentata ed espressa si intona e si fa musica. (V. tavv. XXXVII e XXXVIII).
Bibl.: Non quanto potrebbero essere, ma già la storia e la critica verdiana sono ricchissime di pubblicazioni di varia mole. Preziosissimi i contributi documentarî alla biografia, pubblicati da scrittori italiani, e particolarmente I copialettere di G. V. pubblicati dal Cesari e dal Luzio (Milano 1913), e tutti gli scritti di storia verdiana del Luzio stesso, e il V. intimo di A. Alberti (Milano 1931) e la Cronistoria delle opere di V. alla Scala di Milano, compilata dal Ciampelli (ivi, Museo della Scala, 1929). L'opera biografico-critica di C. Gatti (ivi 1931), ha grandissima importanza. Da citare, fra i libri di scrittori italiani dedicati a V. e all'opera sua: M. Mila, Il melodramma di V., Bari 1933; A. Della Corte, Guide musicali all'Aida, all'Otello, al Falstaff, Milano 1923-25. E fra le opere storico-critiche di stranieri o pubblicate all'estero: F. Bonavia, V., Londra 1930; Fr. Toye, V., ivi 1931; C. Bellaigue, V., Parigi 1922; A. Weissmann, V., Stoccarda 1922. Cfr. inoltre, I. Pizzetti, La musica italiana dell'800, in L'Italia e gli Italiani del sec. XIX, Firenze 1930.