FERLINI, Giuseppe
Nato a Bologna il 24 apr. 1797, da Carlo e da Anna Sabattini, appena diciottenne fuggì di casa per dissapori con la matrigna, recandosi a Venezia da dove passò poi a Corfù. A quanto egli afferma, aveva già completato nella città natale il corso di studi in medicina, ma è lecito dubitame: in realtà doveva aver praticato negli ospedali, acquisendovi buone nozioni di medicina e di piccola chirurgia. Sta di fatto che nel 1817 egli prese servizio in Albania con la qualifica di medico (i controlli dei diplomi non dovevano essere molto severi in quel paese), nelle truppe irregolari di Ali pascià di Giannina, che stava combattendo contro il sultano dopo essere quasi riuscito a cdstituire uno Stato autonomo in Albania e nella Grecia settentrionale.
Quando quello, nel 1822, fu sconfitto ed ucciso, il F. passò in Grecia, allora nel pieno dela lotta di liberazione dai Turchi, dichiarandosi "filelleno" ed entrando nelle file dei ribelli, sempre come medico militare. Iniziò in quel tempo una relazione con una giovane ateniese che lo seguirà nei suoi spostamenti. Quando Ibrahim pascià, a capo degli ausiliari egiziani dell'esercito turco, riconquistò nel 1825 la Morea, egli riparò a Smime. Pare che in quella città abbia pubblicato una piccola monografia, la descrizione di una caverna del monte Parnaso quartier generale dei ribelli greci, distribuendone copie agli amici, e che un certo abbé Fativel, francese, se ne appropriasse, ripubblicandola a Parigi nel 1826 come lavoro suo. Nei primi mesi del 1827 il F. tornò in Grecia, dove a Salamina gli morì la compagna. Allora rimpatriò, ma solo per pochi mesi, visto che lasciò nuovamente Bologna per la Grecia il 10 ott. 1827. Tuttavia, perduta fiducia nella causa filellenica, e disgustato per il mancato pagamento degli stipendi pattuiti, s'imbarcò per l'Egitto nel settembre 1829.
Lo attirava in quel paese la crescente fama del grande Moliammed Ali, che aveva recentemente aggiunto alle sue conquiste tutto il Sudan fino all'Etiopia, e stava cercando di dare all'amministrazione e all'esercito un assetto quanto più possibile moderno. A tale scopo reclutava tutti gli ufficiali, i medici, i farmacisti, gli ingegneri e gli agronomi che riusciva a trovare, creando un'occasione straordinaria per molti avventurieri, ma anche per molti professionisti europei in cerca di sistemazione.Il F. sbarcò ad Alessandria, e passò al Cairo dove sostenne un esame di medicina e chirurgia, ottenendo di venire arruolato col grado di aiutante maggiore: fu destinato inizialmente all'ospedale di Thura, a quattro ore dal Cairo, dove venivano curati i reduci, e dove prestavano servizio molti altri europei. Quivi si scelse una nuova compagna, egiziana e maomettana, la quale fu in seguito costretta ad una rocambolesca fuga per motivi religiosi, visto che il F., a differenza di molti suoi colleghi, non divenne mai "rinnegato". Nel maggio del 1830, mai sopportando la poco avventurosa vita d'ospedale, ottenne la nomina a medico addetto al I battaglione del 1º reggimento di fanteria, ed il 6 agosto iniziò il viaggio per raggiungere la nuova sede, Sennar, capitale del'omonima provincia meridionale.
Fu un viaggio durissimo e avventuroso che durò centocinquantanove giorni, con soste a Uadi Halfa e a Khartum, sede del governatore del Sudan, dove fece acquisto di una giovane schiava etiope, la quale gli darà una figlia che però morì presto. La residenza a Sennar (dove trovò un altro italiano, il farmacista Chioldi) non si rivelò piacevole: la città, saccheggiata solo nove anni prima dalle truppe di Mohammed Ali, aveva un clima pessimo, ed il comandante egiziano intascava i fondi destinati all'ospedale. Il F. vi rimase dieci mesi, con un intervallo a Khartum per guarire dalle febbri malariche che lo avevano colpito.
Il 13 maggio 1832 consegnò l'ospedale di Sennar al suo successore P. E. Botta, figlio dello storico Carlo, e passò nel Kordofan, dove si fermò per circa un anno, trovandovi un clima anche peggiore che nel Sennar e avendo difficili rapporti col comandante locale Rostori bey. Nel 1833, essendo stato formato un nuovo corpo di medici e farmacisti per l'esercito dell'Alto Egitto, il F. fu trasferito a Khartum, come medico del V battaglione di stanza colà. In quella città riuscì a suscitare stima e simpatia nel governatore del Sudan Curschid pascià (l'inglese R. Guyon, già ufficiale austriaco), del quale ottenne la gratitudine per avergli guarito un figlio. Per il pascià il F. partecipò ad una spedizione sulle montagne del Fazolo, nell'alta Nubia, alla ricerca di giacimenti auriferi: fu allora che nella sua mente cominciò a fermentare un progetto che, anche se egli in seguito lo ammanterà di motivazioni archeologiche, certo nacque come avventuroso desiderio di scoprire i tesori sepolti della favolosa civiltà egizia.
Aveva rivolto la sua attenzione al territorio a metà strada fra Khartum e la confluenza del Nilo con l'Atbara, a valle della sesta cateratta, dove sorgevano le rovine dell'antica Meroe, sovrastate da un'eccezionale serie di circa ottanta piramidi funerarie di varie dimensioni, scoperte nel 1820-21 da F. Cailliaud, che le aveva descritte e in parte disegnate. Non fu facile tuttavia ottenere il consenso di Curschid pascià, soprattutto perché quello riteneva che.avventurarsi in tali territori significasse per il F. perdere il frutto di quattro anni di economie e forse la vita (Ducati, p. 522; Albertazzi p. 294), ma anche perché gli fu fatto notare che tale genere di spedizioni non era ben visto al Cairo; alla fine però la personale amicizia ebbe la meglio, e il "firmano" con i necessari lasciapassare fu rilasciato, a condizione che il F. s'impegnasse a retribuire secondo certe tariffe gli operai indigeni di cui avrebbe avuto bisogno. In attesa che giungesse dal Cairo un medico sostituto, egli si associò ad un mercante albanese pratico da molti anni dei luoghi, tale Antonio Stefàni, al quale promise la metà degli eventuali utili, inviandolo con 400 scudi ad acquistare cammelli e materiale ad Hussalamiah, villaggio-mercato a tre giorni da Khartum. Ingaggiò inoltre trenta giovani indigeni per la spedizione, a 2 scudi al mese più il vitto. La carovana si mise in moto il 24 ag. 1834 (altre fonti parlano dell'11 agosto).
Giunto presso Meroe, il F. volle dapprima esplorare i dintorni dell'antica capitale. Un tempio presso Berber, ricco di decorazioni e di geroglifici, attirò la sua attenzione: lo fece liberare dalla sabbia, ne trovò l'ingresso, lo saggiò per giorni da ogni lato, ma si trovò dinnanzi muri impenetrabili che resero infruttuoso qualsiasi tentativo di raggiungerne i recessi. Dopo venti giorni, il 3 settembre, avendo cominciato a morire uomini e cammelli, la spedizione fece ritorno a Uadi-Benaga, sul fiume, dove alcuni avanzi di colonne lo indussero ad un secondo tentativo, che portò solo allo scoprimento di un povero sepolcreto, di alcuni vasi di terracotta, e di un bellissimo ma intrasportabile pilastro granitico con figure e geroglifici. Finalmente il F. si rivolse alle piramidi di Meroe (egli ne contò quarantasette), disseminate sulle colline intorno al villaggio di Es-Sour. Alcune delle più piccole vennero subito demolite, con l'aiuto di 550 operai, retribuiti con i piastra a testa al giorno, ma non furono rinvenuti che oggettini di scarso interesse. Intestardito, il F. decise di andare avanti alla disperata, finché glielo consentissero i suoi risparmi, e di attaccare la grande piramide che appariva intatta, cominciando dalla cima. Fu subito raggiunta una cella rettangolare nella quale si trovò un ricco sarcofago vuoto, coperto da un drappo bianco che si dissolse al contatto con l'aria: sotto apparve un baluginio di oggetti preziosi, tutto il corredo intatto di una dama di alto rango, parte in un recipiente di bronzo e parte al suolo. La prima preoccupazione dei F. e dello Stefáni fu di nascondere il ritrovamento agli indigeni: collocarono tutto in sacchetti di pelle che solo nel cuore della notte portarono alla loro tenda. L'albanese, che conosceva bene la popolazione locale e ne temeva l'avidità, avrebbe voluto andarsene immediatamente, ma fu persuaso dal F. a continuare le ricerche. Dopo altri quindici giorni, essendo la demolizione giunta a metà, furono rinvenute in una nicchia due situle bronzee di meravigliosa fattura, e nell'intatto vestibolo adorno di geroglifici una grande figura umana seduta su un leone, ma vana fu la ricerca dell'ipogeo funebre, ostacolata da formidabili lastroni di pietra nera nubiana. Ormai però la situazione con la mano d'opera era divenuta pericolosa: la notizia del ritrovamento era filtrata ingigantita, si erano riuniti oltre mille indigeni, e c'era da temere il peggio. Messi in guardia da uno schiavo fedele, i due europei con le loro donne e tre servitori caricarono di notte tutto il trasportabile sui cammelli e fuggirono in direzione di Berber, giungendo a imbarcarsi sul Nilo a monte della quinta cateratta.
Il viaggio di ritorno fu faticosissimo e avventuroso, ma si concluse felicemente al Cairo, dove peraltro infieriva una pestilenza. Non fu facile per il F. riuscire ad ottenere il congedo e le paghe arretrate, e solo sullo scorcio del 1836 egli poté imbarcarsi per Trieste e raggiungere di lì Bologna. Si concludeva così l'avventura archeologica del F. che, anche se i metodi con cui fu condotta non differiscono gran che da quelli di molti altri in quel tempo, nondimeno si ridusse ad un mero saccheggio, al quale invano nelle sue relazioni egli tenta di dare una giustificazione culturale e scientifica.
Tutte le gazzette di quel periodo fecero gran parlare dell'impresa dell'"avventuroso bolognese", e del suo tesoro. Dalla prima relazione da lui pubblicata, Cenno intorno alla raccolta etiope-egizia portata dalla Nubia in patria, con tavola (Bologna 1836), risulta l'esatta composizione del tesoro: una lunga collana di occhi di smalto legati in oro; sedici scarabei in oro massiccio con occhi di smalto; una vacca accovacciata, due orecchi, due sciacalli, quattro leoni, quattordici croci ansate, tutto dello stesso metallo; due noci di diaspro; dieci grossi e complessi bracciali con figure alate, il tutto d'oro; e poi argenti e bronzi. Subito il F. si recò a Parigi per mostrare gli oggetti al principe A. Demidov, nella speranza di venderglieli, ma nel 1837 il tesoro si trovava di nuovo nella sua casa bolognese di Borgo Paglia 2862, illustrato quell'anno da Cenno sugli scavi operati nella Nubia e Catalogo degli oggetti ritrovati, Bologna 1837. Nel 1838 egli lo espose a Roma, pubblicando Relation historique des fouilles operés [sic] dans la Nubie..., suivie d'un catalogue des objets ... trouvés dans l'une des 47 Pyramides aux environs de l'ancienne ville de Meroe..., Rome 1839. Gli oggetti furono esaminati dagli esperti L. Ungarelli, I. Rosellini e A. Migliarini, e vi furono trattative di vendita con la S. Sede e il governo toscano. Alla fine una parte di essi fu ceduta a Luigi I di Baviera, e si trova oggi al Residenzmuseum di Monaco, costituendo elemento importante della raccolta egizia della Festsaalbau.
Della parte restante, poi, ebbe curiosamente ad occuparsi Giuseppe Mazzini, allora a Londra, che aveva accettato di fare da agente al F. dedicatosi all'antiquariato in genere, il quale gli aveva spedito, oltre a quelli di Meroe, nove casse di oggetti rinascimentali (lettere del Mazzini alla madre del 16 febbraio e del 6 apr. 1842). Il rapporto durò circa un anno, e finì in una rottura (tre lettere mazziniane del gennaio 1843 a P. Rolandi, nuovo agente del F. a Londra). Il resto del tesoro fu impegnato a Londra per 200 sterline, perché il British Museum, interessato, non volle acquistarlo avendolo alcuni suoi esperti giudicato falso. Ma il Mazzini l'aveva mostrato al famoso egittologo tedesco K. R. Lepsius, che lo stimò autentico, onde E. Gerhard ne fece infine acquisto per il Neues Museum di Berlino. Al Museo egizio di Torino si trovano i facsimili dei bronzi e degli ori, offerti dal F. a Vittorio Emanuele II in occasione della sua visita a Bologna nel maggio 1860.
Il F. conosceva il greco, l'albanese, l'arabo e l'inglese, e da quest'ultima lingua fece traduzioni per M. Minghetti. Invecchiando divenne un personaggio un po' patetico: si faceva fotografare in costume turchesco, girava per Bologna con una gran medaglia dei filelleni appesa al collo, ottenne nel 1864 un brevetto per la conservazione delle carni, che aveva sperimentato in Africa e che voleva vendere all'esercito. Si sposò due volte, e dalla seconda moglie ebbe, una figlia, Clitennestra, sposata Boldrini, che rimase in possesso dei suoi molti cimeli e delle sue carte, fra le quali sembra fosse interessante un manoscritto dal titolo Scene dell'interno dell'Africa. Aveva perso la vista; la recuperò grazie all'oculista F. Magni che lo operò con tecniche nuove nel 1870, ma per breve tempo, ché morì a Bologna il 30 dic. 1870 (non 1876 come riportato dalla maggior parte delle fonti).
Fonti e Bibl.: Molte informazioni sono fornite dagli opuscoli sopracitati da lui pubblicati. Inoltre quasi tutti i giornali europei diedero notizia del suo ritorno col tesoro di Meroe, nel 1836e 1837. Notizie diverse. Nuova invenzione, in La Monarchia italiana, 3 maggio 1864; Gazzetta ufficiale del Regno d'It., 22 ott. 1864; Il Monitore di Bologna, 16 nov. 1870; P.Amat di San Filippo, Biografia dei viaggiatori italiani colla bibliogr. delle loro opere, Roma 1882, pp. 554 ss.; Id., Gli illustri viaggiatori italiani, con una cronologia dei loro scritti, Roma 1885, pp. 417 ss.; A. Albertazzi, Un bolognese esploratore a Meroe, in Il Secolo XX, 10 maggio 1920, pp. 289-97; C. Rossetti, G. F., in IlGiornale d'Italia, 26 luglio 1935; P. Ducati, Un avventuroso italiano nel Sudan e in Egitto, in Rassegna italiana di pol., lett. ed arte, s. 3, LIII (1940), pp. 515-26; G. Mormino, G. F. e le sue scoperte nel Sudan, in Riv. militare, XVI (1960), pp. 402-408;M. P. Cesaretti, G. F. e il "tesoretto di Meroe": la corrispondenza con L. M. Ungarelli, I. Rosellini e A. M. Migliarini nella Biblioteca della "Fameja Bulgneisa" di Bologna, in Atti e mem. della Dep. di storia patria per le prov. di Romagna, n. s., XXXVII-XLI (1987-1990), pp. 169-199. Per i rapporti d'affari con G. Mazzini, cfr. Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini. Scritti editi ed inediti, Indici, II, 1, ad vocem.