MODIGLIANI, Giuseppe Emanuele
– Nacque a Livorno il 28 ott. 1872, da Flaminio e da Eugenia Garsin, in una famiglia della borghesia ebraica, primogenito di quattro fratelli, l’ultimo dei quali, Amedeo, fu il celebre pittore. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pisa, ebbe come docenti E. Ferri e A. Zerboglio, la cui influenza fu determinante nell’avvicinare il M. al socialismo.
Tra i fondatori, nel 1894, della sezione livornese del Partito socialista, fu eletto l’anno successivo consigliere comunale della sua città, quindi segretario della Federazione socialista toscana. Laureatosi in giurisprudenza, mise l’attività professionale al servizio della battaglia politica, difendendo nel 1896 i dirigenti della Camera del lavoro di Livorno accusati di incitare all’odio tra le classi. Iniziò a collaborare con la stampa di partito e nel 1898 fu chiamato a Piacenza per dirigere il settimanale socialista La Montagna ma, appena giunto nella città emiliana, fu arrestato. Trasferito a Firenze fu portato davanti al tribunale militare, che lo condannò a nove mesi di carcere.
Al VI congresso socialista (Roma, 8-11 sett. 1900) il M., schierato con la corrente riformista di F. Turati, presentò un ordine del giorno che dava il via libera ad alleanze locali con altre formazioni di sinistra.
A Livorno i socialisti aderirono al blocco popolare che vinse le elezioni ed espresse una giunta di cui il M. fece parte come assessore al dazio consumo, ma nel gennaio 1903, delusi dall’esperienza amministrativa, ritirarono il loro sostegno. Contrario a tale scelta il M. si trovò in minoranza e nel 1904 non fu delegato all’VIII congresso nazionale, che vide prevalere la sinistra intransigente e rivoluzionaria. Lo scontro interno al Partito socialista italiano (PSI) assunse a Livorno toni particolarmente aspri sulle pagine dei settimanali L’Azione socialista, diretto dal M. ed espressione dei riformisti, e La Parola dei socialisti, voce delle correnti rivoluzionarie.
Il riformismo del M. aveva caratteri originali, distinguendosi da quello che egli definiva «piccolo operaio» legato al mondo sindacale o cooperativo. Pur avendo maturato una significativa esperienza sindacale come organizzatore dei «bottigliai» (nel 1901 condusse la categoria alla conquista del contratto collettivo nazionale, il primo sottoscritto in Italia) il M. assegnava al partito il primato nella rappresentanza degli interessi generali della classe lavoratrice.
Al congresso di Firenze (19-22 sett. 1908), allorché i riformisti tornarono alla guida del partito, il M., pur senza rompere con la corrente d’appartenenza, assunse tuttavia una posizione distinta, trovandosi d’accordo con G. Salvemini su una serie di punti: dalla battaglia per il suffragio universale al rifiuto del riformismo «corporativo», dall’opposizione al sistema giolittiano al rilievo dato alla questione meridionale. L’XI congresso (Milano, 21-25 ott. 1910), che confermò i riformisti alla guida del PSI, rese però evidenti le divisioni al loro interno tra i seguaci di Turati, la sinistra guidata dal M. e la destra di L. Bissolati.
A scompaginare ulteriormente le file riformiste intervenne la guerra di Libia, che provocò l’uscita di Salvemini dal partito e, con motivazioni opposte, l’espulsione di Bissolati, I. Bonomi e A. Cabrini decisa dal XIII congresso (Reggio Emilia, 7-10 luglio 1912). In quella sede il M., dissentendo dalla linea prudente di Turati, auspicò un’opposizione più dura contro il governo.
Eletto alla Camera il 26 ott. 1913 nel collegio di Budrio-Molinella, già nel corso della sua prima legislatura il M. emerse come una delle figure di spicco dell’aula, in virtù degli oltre cento interventi svolti e di una perfetta conoscenza del regolamento e delle prerogative parlamentari. La sua voce si levò contro l’impresa libica e quindi contro l’intervento dell’Italia nella guerra mondiale, denunciando le speculazioni affaristiche, gli errori del governo e dei comandi militari e la dura disciplina imposta ai soldati al fronte. Il M. fu uno dei protagonisti delle iniziative pacifiste del movimento socialista europeo.
Il 27 sett. 1914 partecipò alla conferenza socialista italo-svizzera di Lugano, che denunciò la guerra come strumento del capitalismo per conquistare nuovi mercati e opprimere il proletariato. Fu estensore, insieme con C. Rakovskij e L. Trotskij, dell’ordine del giorno approvato dalla conferenza dell’Internazionale socialista di Zimmerwald (5-8 sett. 1915), e alla successiva conferenza di Kienthal (24-30 apr. 1916) condannò il comportamento di quei partiti che avevano fatto prevalere la propria ragion di Stato sulla solidarietà internazionalista. La sua posizione non gli impedì di partecipare alle due conferenze socialiste dei paesi alleati sui problemi della pace, che si tennero a Londra nel 1918.
Un passaggio del suo intervento nel quale auspicava «una pace qualunque» fu preso a pretesto dai suoi avversari politici per attaccarlo e per far votare, in sua assenza, dal Consiglio comunale di Livorno, un ordine del giorno che esprimeva «il più profondo disprezzo» verso quanti, invocando, come in Russia, una «pace di servi» deprimevano lo spirito pubblico. Indignato per l’attacco, il 3 maggio 1918 il M. si dimise dal Consiglio, ma tornò a farne parte dopo le elezioni del 7 nov. 1920 con le quali i socialisti conquistarono per la prima volta il Comune, confermando il successo ottenuto l’anno prima alle politiche.
La lotta contro la guerra aveva accresciuto la popolarità del M., che tornò alla Camera riportando il maggior numero di voti nel collegio Pisa-Livorno. Di lì a poco il suo ruolo fu però messo in discussione dalla crescente influenza nel Partito socialista dei massimalisti e dei gruppi anarchici.
La suggestione degli eventi russi, i moti contro il caro vita, l’occupazione delle fabbriche concorsero a determinare il distacco dal gradualismo del M. di parti importanti del movimento operaio e socialista livornese. All’interno di un partito quasi interamente sedotto dalla prospettiva rivoluzionaria il M. si ostinava a battersi per un’aggregazione delle forze progressiste intorno alla formula «Costituente e Repubblica». La sua proposta cadde nel vuoto mentre egli stesso veniva additato da Lenin come uno dei dirigenti riformisti di cui occorreva liberarsi per poter creare in Italia il partito rivoluzionario.
Vittima di due aggressioni squadriste – il 20 luglio 1920 a Roma e il 1° maggio 1921 sul treno Pisa-Viareggio – il M. fu tra i patrocinatori del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti del 3 ag. 1921 e fautore di un’intesa di governo tra il PSI e le forze della borghesia laica e cattolica in funzione antifascista. Questa linea «collaborazionista» fu censurata dal XIX congresso del PSI (Roma, 1-4 ott. 1922), che decise l’espulsione dei riformisti. Il 4 ottobre il M., con Turati, C. Treves e G. Matteotti, diede vita al Partito socialista unitario (PSU).
Il 16 novembre 1922 il M., interrompendo B. Mussolini che aveva definito «sorda e grigia» l’aula di Montecitorio, insorse al grido di «Viva il Parlamento!». Dopo le elezioni del 6 maggio 1924 denunciò la violazione del regolamento, compiuta a suo avviso dal presidente della Camera convalidando in blocco gli eletti nel «listone» di maggioranza. Durante la secessione dell’Aventino si adoperò per realizzare le più ampie intese tra le forze antifasciste.
Avvocato di parte civile nella fase istruttoria del processo Matteotti, il M. fu oggetto di ripetute intimidazioni, fu ancora aggredito dai fascisti ed ebbe la casa devastata. Decise allora d’intraprendere la via dell’esilio, stabilendosi per un breve periodo in Austria, accolto dai leader socialdemocratici O. Bauer e F. Adler. Raggiunse poi la numerosa comunità di esuli antifascisti italiani di Parigi, dove divenne direttore del quindicinale Rinascita socialista, organo ufficiale del Partito socialista dei lavoratori italiani (denominazione assunta dai riformisti in esilio, che il M. rappresentò in seno alla Concentrazione antifascista). Dopo essersi battuto per la riunificazione tra riformisti e massimalisti, raggiunta nel luglio 1930, fu ostile al Patto di unità d’azione con i comunisti, sottoscritto nell’agosto 1934.
Fedele allo spirito di Zimmerwald, non condivise la tesi della guerra democratica sostenuta da P. Nenni e G. Saragat e la loro solidarietà alle potenze alleate. Ribadì l’idea della guerra come scontro tra imperialismi a danno dei popoli in un documento presentato nel 1941 a un convegno socialista a Tolosa, che può essere considerato il suo testamento politico.
Con l’invasione tedesca della Francia il M., obbligato a denunciarsi come ebreo, si trovò esposto ad alti rischi, cui si sottrasse fuggendo, insieme con la moglie Vera Funaro, in Svizzera. Internato e successivamente liberato rientrò in Italia nell’ottobre 1944 per riprendere il suo posto nelle file del Partito socialista. Membro della Consulta e dell’Assemblea costituente, l’11 genn. 1947 partecipò alla scissione di palazzo Barberini promossa da G. Saragat e aderì al nuovo Partito socialista dei lavoratori italiani.
Il M. morì a Roma il 5 ott. 1947.
Fra i suoi scritti si ricordano: La fine della lotta per la vita tra gli uomini, Milano-Palermo 1900; Dietro la facciata di un combattente. Lettere di G.E. M. ai genitori e alla sorella, Roma 1971; Discorsi parlamentari, ibid. 1975.
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