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DONZELLI, Giuseppe

di Pietro Messina - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)
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DONZELLI, Giuseppe

Pietro Messina

Nacque a Napoli nel 1596.

Laureatosi in medicina, intraprese la professione. In età già matura, però, decise di tornare sui libri per dedicarsi in particolare all'approfondimento della chimica. Le motivazioni di tale scelta vanno cercate nelle sue teorie sulla scienza e nella concezione che aveva della sua professione. Il D. infatti era convinto che la medicina dovesse essere strettamente collegata alla ricerca scientifica e fu quindi uno strenuo difensore del metodo sperimentale e un fautore della scuola iatrochimica, impegnato nella più generale battaglia contro l'ottuso tradizionalismo a favore delle nuove tendenze del pensiero e della ricerca. Si dedicò dunque allo studio sperimentale della chimica e della botanica, divenendo uno dei massimi esperti della sua epoca in botanica farmacologica ed erboristeria. I suoi studi principali furono dedicati all'integrazione della medicina e della farmacologia con la chimica e la botanica. Alla fine degli anni Trenta del sec. XVII la sua fama era già consolidata e nella sua villa all'Arenella possedeva un celebre "giardino dei semplici".

In quell'epoca a Roma si accese una polemica incentrata sulle critiche mosse al medico A. Manfredi circa l'uso, da lui propugnato, dell'opobalsamo. Il Collegio degli speziali di Roma, investito della questione, chiese un parere all'analogo Collegio napoletano che, a sua volta, si rivolse al Donzelli. Questi nel marzo 1640 pubblicò a Napoli la Synopsis de opobalsamo orientali (pubblicato poi in italiano a Padova nel 1643) e, poco dopo, una seconda opera sull'argomento: l'Additio apologetica ad suam de opobalsamo orientali synopsim, in polemica con S. de Gasperi. Il D. si schierava in difesa dell'uso dell'opobalsamo; la questione aveva scatenato una querelle che coinvolse molti medici e scienziati, ed ebbe una vasta risonanza perché si inseriva nel più ampio dibattito tra fautori e avversari dell'uso della chimica a supporto della medicina e nella lotta tra fautori della tradizione e progressisti. La sua presa di posizione fu apprezzata da molti studiosi e considerata come un punto di riferimento.

Sempre nel 1640 le massime autorità mediche del Regno incaricarono il D. di comporre un Antidotario o Petitorio ufficiale, ovverosia un ricettario medico ufficialmente riconosciuto dalla legge e a cui tutti dovessero fare riferimento. Napoli ne era praticamente priva poiché ne esisteva, all'epoca, una sola redazione, risalente al 1614, ampiamente inadeguata e per di più manoscritta. Era una situazione che generava dubbi e incertezze, dando luogo spesso ad abusi, inconvenienti e polemiche. Il D. assolse l'impegno e nel 1642 pubblicò l'Antidotario napolitano. Le ricette erano accompagnate da vari commenti, spiegazioni e suggerimenti dell'autore; il ricettario era preceduto dalla pubblicazione delle Dichiarationi delli canoni di Mesue (Mesuè il Vecchio, cioè Yūhhannā ibn Māsawaih, medico siriaco del sec. IX, un classico) in quattro capitoli, anch'essi commentati e glossati dal Donzelli. Il libro fu ristampato ancora a Napoli nel 1649 e nel 1653.

Quando nel 1647 scoppiò la rivolta antispagnola, il D. si schierò con entusiasmo dalla parte degli insorti. A quell'epoca era ben consolidata la sua fama di medico e di scienziato; le sue opere erano state conosciute e apprezzate da alcuni fra i principali studiosi del tempo: da Pietro Castelli, J. Ch. Volkalmer, Baldo Baldi, Thomas Bartholin, Johann Vesling, J. van Horn (che gli dedicò l'opera De aneurismate) e, infine, da M. A. Severino, il maggior chirurgo dell'epoca, anatomista e patologo, grande ispiratore della scienza sperimentale napoletana e maestro dei Di Capua, Cornelio, D'Andrea. Forse in ciò è da ricercare uno dei motivi per cui le autorità rivoluzionarie commissionarono proprio al D. la stesura di una storia della rivolta. L'opera fu ultimata nel novembre 1647, edita a Napoli con la data 1647 [ma 16481 col titolo di Partenope liberata overo Racconto dell'heroica risolutione fatta dal popolo di Napoli per sottrarsi con tutto il Regno all'insopportabil giogo delli Spagnuoli, e narrava gli avvenimenti accaduti a Napoli fino all'arrivo del duca di Guisa in città (15 novembre).

Il titolo specificava poi che si trattava solo della "prima parte", ma la seconda non vide mai la luce. Nel 1970 A. Altamura curò una nuova edizione, a Napoli, della Partenope liberata, includendovi anche una "seconda parte", ma non c'è alcuna solida garanzia che il testo proposto come il seguito del D. sia autentico. Dell'intenzione di scrivere una seconda parte ce ne dà conferma lo stesso autore in chiusura del suo libro, ma dell'esistenza di un seguito della Partenope liberata ne parlerà poi, per primo, F. A. Soria solo nel 1781, affermando che una copia del manoscritto del D. era posseduta dal principe di Tarsia (Memorie storico - critiche..., p. 215). L'Altamura, nel presentare il manoscritto da lui pubblicato, non adduce altro a sostegno della sua autenticità se non qualche indizio circa la sua appartenenza all'allora principe di Tarsia Ferdinando Vincenzo Spinelli. In realtà esistono diversi manoscritti che portano il titolo di "seconda parte" della Partenope liberata; di uno di essi parla, ad esempio, D. C. Knowleton (An unpublishedmanuscript...., pp. 290 s.) e questo ha probabilità maggiori di autenticità, essendo più aderente e meglio combaciante con la "prima parte". Il testo proposto da Altamura, invece, si presenta come un'opera a sé, con un titolo proprio (Relazione della guerra di Napoli successa nella terza rivoluzione a 5 ottobre 1647), e soprattutto con una ben diversa ispirazione politica, mostrandosi, a differenza della Partenope liberata, alquanto critica verso l'operato del popolo napoletano. Ma ciò che in modo più definitivo ci fa propendere a considerare un errore quello dell'Altamura è che quel manoscritto non è affatto inedito. essendo già stato pubblicato nel 1877 da C. Minieri Riccio (in Arch. stor. per le prov. nap., II [1877], pp. 52-103), e da lui attribuito a Luigi Poderico.

Il D. aveva partecipato attivamente alla rivolta e, fin dai primi momenti, aveva tenuto un diario personale degli eventi, sulla cui base scrisse poi la sua storia. Questa è un documento molto importante, che esprime in pieno il punto di vista popolare sul drammatico avvenimento, inserendo e descrivendo in un'ottica rivoluzionaria tutte le vicende che tratta. Fra le opere filopopolari quella del D. fu la più importante ed ebbe una larghissima diffusione. Fu il prodotto di un clima rivoluzionario non ancora sconfitto né rassegnato e la si può considerare, in un certo senso, come un documento "ufficiale" della rivolta; l'opera infatti fu composta e pubblicata per iniziativa e ispirazione dei capi popolari, la licenza di pubblicazione porta la firma di Gennaro Annese e dei suoi consultori.

Qualcosa del D. scienziato permane nel D. storico. Innanzitutto nello stile, pulito ed essenziale, impiantato su una prosa disadorna e asciutta, più proprio di un uomo di scienza che di un letterato. Il racconto si svolge in modo piano, con un ritmo che nulla concede all'artificio, alla retorica o alla magniloquenza. Il D. descrive lo svolgersi degli avvenimenti della rivolta senza sbavature di sorta o considerazioni moralistiche. Il suo modo di scrivere rimane chiaro e semplice, accessibile a una vasta gamma di lettori. Il modo di impostare e di svolgere il racconto è essenzialmente "politico", in quanto i "fatti" e le loro reciproche connessioni vengono sottoposti ad un esame strettamente realistico e considerati unico paradigma della vicenda umana. Ciò mette in relazione il D. con altri storici seicenteschi, soprattutto per quel "carattere antiumanistico o antiletterario" che Croce identificò come caratterizzante la storiografia italiana dell'epoca e che spinse tanti storici a confessarsi "fuori della letteratura" (B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 106 s.): è esattamente ciò che fa anche il D. (cfr. il suo avviso "al lettore" della Partenope liberata).

Vengono indicate le cause della rivolta nell'iniquità e nell'insostenibile peso del sistema fiscale, con la denuncia della nobiltà e dei grandi appaltatori, che da quel sistema traevano ricchezza e potenza, nell'inadeguatezza di un sistema di governo monopolizzato proprio dai ceti parassitari, attraverso quella che il D. era convinto essere stata un'usurpazione e una degenerazione dai vecchi meccanismi, che un tempo avrebbero garantito ben diversi equilibri politici fra le classi. Le accuse all'oppressione spagnola si accompagnano, e prendono anzi ragione e valore, proprio con queste fondamentali denunce dei ceti feudali e delle cricche degli speculatori. Troviamo quindi la rivendicazione delle riforme del sistema tributario e dell'amministrazione politica della città e del Regno, e la piena rivendicazione della violenza popolare a loro sostegno, scatenata contro nobili, appaltatori e banditi. Viene criticata la malafede degli Spagnoli che - commettendo secondo il D. un grave errore politico - scelgono di schierarsi con la reazione feudale e con gli interessi più colpiti dalla protesta popolare. Tale scelta rende inevitabile una politica indipendentista, che il D. abbraccia e presenta con entusiasmo, in particolare chiamando a sostegno dell'ideale repubblicano consolidate tradizioni culturali. Impernia la sua critica agli Spagnoli sull'accusa di avere rinunciato a un accordo con il popolo. Accanto e più della loro cattiva coscienza, che li ha spinti a tradire i giuramenti, critica la loro sordità alle profonde istahze di rinnovamento e di riforma, in nessun caso risolvibili nell'ambito del vecchio quadro istituzionale. Egli è convinto che aver mancato tale occasione è stato per essi un errore politico fondamentale che li ha condotti alla perdita del Regno.

Non è possibile sapere se la sua entusiastica adesione all'idea dell'indipendenza fu immediatamente susseguente alla constatazione dell'impossibilità di ogni accordo. Forse essa, in un primo momento, si sacrificò volentieri all'idea di un significativo successo che sembrava raggiungibile sia pur nell'ambito della dipendenza asburgica, ma forse la si può anche considerare come punto di arrivo di una maturazione politica realizzatasi sotto l'urgere degli avvenimenti. Si noti infatti che sia l'esaltazione dell'indipendenza e della repubblica sia i temi della riforma hanno nel D. una radice comune. La sua fede repubblicana cerca la sua forza nella tradizione che voleva la città di Napoli essersi retta per tremila anni in forma di autonoma repubblica; parimenti, in simile tradizione storiografica - diffusa e accreditata largamente nella cultura napoletana, benché sostanzialmente infondata - affondavano in gran parte le loro radici i grandi temi della riforma agitati nell'estate del 1647. Ci sono, dunque, insieme, continuità ed evoluzione nelle posizioni politiche del D., che culminano nelle dichiarazioni di fede ideale di una memorabile pagina della Partenope liberata, dove parla del "dolce suono della voce di Republica" e dove esalta la libertà, come "una delle più nobili prerogative dell'huomo; e un cibo tanto soave e di così perfetta sostanza, che col solamente odorarlo, ha facoltà di nutrire" (Partenope liberata, p. 205). Dando un più ampio respiro nazionale al vecchio patriottismo cittadino, il D. è convinto che il Regno tutto debba costituirsi in repubblica e si fa strenuo propugnatore delle sue capacità, e insieme della necessità e possibilità, di contare solo sulle proprie forze. Alla luce di queste considerazioni non si può pensare al D. come a un partigiano del duca di Guisa. La dedica del libro al duca è puramente formale, e avvenne in un periodo in cui effettivamente sul Guisa si appuntarono le speranze e le aspettative di molti. Ben presto però il Guisa mostrò di propendere per una politica personalistica, incentrata su velleità monarchiche e sulla ricerca dell'accordo con i nobili. Del resto le stesse pagine a lui dedicate nella Partenope liberata appaiono sostanziate solo dalla retorica di rito e prive di ogni più profondo contenuto morale o politico. Né parimenti convince l'idea di un D. filofrancese: tale filofrancesismo sussiste, più che altro, solo nelle accuse, tanto virulente quanto generiche, del Capecelatro (Diario, II, I, p. 269).

Sconfitta la rivoluzione, la repressione si abbatté sul Donzelli. I magistrati proibirono la Partenope liberata, le cui copie furono bruciate, e "contro a lui fu eccitata una rigorosa inquisitione" (Soria, p. 214). Quando nel settembre del 1648 ricomparve l'armata francese, temendo per la sua persona egli fu costretto a rifugiarsi a Roma, città dove era già stato per motivi di studio e dove aveva conoscenze. Tornò a Napoli solo dopo qualche tempo, ma ci visse poi indisturbato fino alla morte, avvenuta nel 1670.

Poté contare sulla tolleranza del viceré Oñate, impegnato in una politica di stabilizzazione moderata e contrario agli eccessi che avrebbero potuto favorire la nobilta più oltranzista; forse fu aiutato anche dal suo prestigio scientifico. Il D. infatti tornò ai suoi studi e al suo impegno in questo campo. Nel 1663 pubblicò un nuovo Petitorio napolitano, composto l'anno precedente.

Il libro - che fu ristampato più volte, a Napoli, contandosi nel 1668 cinque edizioni -, oltre a contenere alcune parti nuove, testimonia una nuova tendenza che da ora in poi si manifesterà negli scritti del D.: uno spirito pedagogico che sembra voler animare la sua attività scientifica. L'opera infatti, oltre a contenere il ricettario ufficiale, vuole essere anche soprattutto uno strumento di istruzione, che introduca al sapere scientifico. L'autore si augura che il libro aiuti il lettore a muovere i primi passi nel campo della conoscenza medica farmaceutica. È quindi un'opera divulgativa, rivolta a un ampio pubblico.

Il libro fu anche un'anticipazione del Teatro farmaceutico dogmatico e spagirico, l'opera che da molto tempo il D. andava progettando. Il Teatro farmaceutico, forse già ultimato nel 1663, uscì a Napoli nel 1667 ed è la sua opera scientifica più importante, un ampio trattato che raccoglie una quantità di ricette, di procedimenti chimici e farmaceutici, di osservazioni botaniche, farmacologiche e di erboristeria. Copie del Teatro furono pubblicate in latino perché potesse diffondersi anche all'estero; il libro, riedito anche a Roma nel 1677 con le aggiunte del figlio dell'autore, Tommaso, ebbe molte edizioni, contandosene ventidue (a Roma, Napoli e Venezia) fino al 1763.

Anche questo libro voleva essere uno strumento di studio e di diffusione della scienza in cerchie sempre più vaste. Il D. fu sempre contrano a un'immagine e a una pratica della conoscenza scientifica come monopolio di pochi dotti. L'impegno per il trionfo della scienza sperimentale fu in lui strettamente connesso anche alla volontà di allargare i confini della comunità scientifica e il numero dei fruitori del sapere. Egli distingueva fra chimica e alchimia, criticava gli autori che usavano "termini oscurissimi"; e anche nelle scelte linguistiche manifestava questo suo impegno, giustificando la "bassezza dello stile, e della lingua" e proclamandosi fautore dell'uso della (dingua nativa" rispetto a ogni altra lingua dotta (nell'indirizzo "agli studiosi lettori" del Teatro). Nello stesso tempo riprendeva con vigore la polemica contro i tradizionalisti e i conservatori, difensori dell'aristotelismo e del galenismo, a cui lanciava accuse veementi.

Il suo pensiero scientifico si collegava per un verso alla tradizione naturalistica rinascimentale (egli infatti riconosce Paracelso fra i suoi maestri, e da lui mutua il principio dell'"archeus"), ma è evidente nelle sue opere la rottura con ogni concezione ermetica e iniziatica della scienza. Il D. appartiene a quella generazione di studiosi e intellettuali meridionali che, accogliendo e meditando la lezione di Galilei e di Bacone, e innestandola sulle precedenti tradizioni, posero le basi per la crescita e l'apertura all'Europa della cultura napoletana nella seconda metà del Seicento. L'impegno del D. per una nuova scienza, a favore dell'osservazione sperimentale, trascendeva l'ambito meramente tecnico scientifico e si innestava nel più ampio dibattito a favore dello sperimentalismo e dell'innovazione, che permeava profondamente tutte le nuove correnti del pensiero meridionale. Uno dei circoli culturali più significativi di tale temperie intellettuale fu l'Accademia degli Investiganti, cui il D. aderì probabilmente sin dal suo primo formarsi nel 1649. È da ritenere poco credibile la notizia, riferita per la prima volta dal Soria, che vorrebbe il D. membro dell'Accademia dei Discordanti. Tale accademia aveva un indirizzo galenico e di contrapposizione frontale agli Investiganti e alla iatrochimica. Questa notizia, ripresa acriticamente da moltì autori, è finalmente scomparsa nelle opere più recenti. La presenza del D. fra gli Investiganti nei primi momenti di formazione dell'accademia è confermata dal Fuidoro. Egli sicuramente la frequentò e, seppure non ne fu forse membro ufficiale, fu amico e collega dei suoì princìpalì rappresentanti, condividendone, ciò che è l'essenziale, l'impostazione culturale e le idee scientifiche. Per l'educazione del figlio Tommaso volle tra i maestri alcuni dei principali membri degli Investiganti, quali L. Porzio e S. Bartoli - il principale bersaglio dei Discordanti - e il figlio stesso fu poi esponente di rilievo dell'accademia. Il Teatro farmaceutico è dedicato all'investigante G. B. Cappuccio e tipicamente "investigante" è l'impegno scientifico che in esso risulta, condividendo gli stessi toni che si rinvengono in T. Cornelio, in Porzio e in D'Andrea.

Sotto alcuni aspetti si possono trovare in nuce nell'opera del D. quegli sviluppi probabilistici e gassendiani che avranno poi una parte di rilievo nella cultura della seconda metà del secolo. La sua critica alla medicina tradizionalista non rifiuta in blocco tutti i vecchi insegnamenti, ma piuttosto attacca, da posizioni scettiche, la difesa bigotta e conservatrice del tradizionalismo a tutti i costi. Il D. non rifiuta affatto tutti i contenuti della tradìzione, ma rigetta sostanzialmente il dogmatismo pregiudiziale; pensa che medicina e chimica non si fondino su alcuna certezza assoluta e che, pertanto, l'unica bussola per lo studioso debba essere il metodo basato sull'esperienza. Tali posizioni verranno poì riprese e sviluppate a fondo da L. Di Capua e da suo figlio Tommaso.

Il D. fu dunque compagno di strada dei Cornelio, dei Di Capua, dei D'Andrea, dei Bartoli, e contribuì a formare e diffondere quello "spirito invesfigante" che con i suoi pregi e i suoi limiti informò a fondo il clima culturale napoletano nella seconda metà del XVII secolo: rivendicando la necessità di nuovi metodi di indagine e di pensiero, difendendo lo sperimentalismo e l'induttivismo, eleggendo l'osservazione scientifica a naturale unica fonte di ogni speculazione, rifiutando, infine, ogni metafisica. Un nuovo spirito che ebbe tanta parte nell'apertura alle grandi correnti del pensiero europeo da parte della cultura meridionale, con l'accoglimento e la critica assimilazione del pensiero prima di Malebranche, Cartesio, Gassendi e, poi, di Newton, Spinoza, Locke.

Sue opere minori furono il Catalogo overo Calendario de' santi medici, pubblicato in appendice al Teatro farmaceutico e riedito poi singolarmente a Napoli nel 1899, e alcuni scritti rimasti inediti, elencati nell'edizione del 1677del Teatro farmaceutico: la Disquisitio medicochymica adversus misochymicos, & chimicomasticos, un'opera In materia del vetriolo, e de suoi presidij medicinali, cavati per arte chimica e un trattato di dietetica scritto per i monaci di S. Martino: il Cibario, quadragesimale corretto a preservatione, e cura de r. r. padri certosini.

Fonti e Bibl.: Roma Bibl. d. Accad. d. Lincei, Carteggio C. Dal Pozzo, VII, ff. 337-357. N. Toppi, Bibl. napoletana, con le addizioni di Leonardo Nicodemo, Napoli 1678, pp. 171 s.; L. Di Capua, Parere..., Napoli 1681, pp. 579 s.; F. Capecelatro, Diario dei tumulti del popolo napoletano, a cura di A. Granito, I, Napoli 1850, passim; II, 1, ibid. 1852, pp. 29, 48, 269; II, 2, ibid. 1853, p. 474; I. Fuidoro, Giornali di Napoli dal MDCLX al MDCLXXX, I, a cura di F. Schiltzer, Napoli 1934, p. 206; G. Gimma, Elogi accademici, II, Napoli 1702, pp. 129 s.; G. B. Tafuri, Delle scienze e delle arti inventate, illustrate, ed accresciute nel Regno di Napoli, Napoli 1738, p. 24; P. Troyli, Istoria generale del Reame di Napoli, IV, 4, Napoli 1751, p. 341; G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1754, p. 147; T. Fasano, Lettere villeresche scritte da un anonimo ad un amico, Napoli 1779, pp. 58S; F. A. Soria, Mem. storico-critiche degli storici napol., I, Napoli 1781, pp. 213 ss.; G. Minieri Riccio, Cenno stor. delle accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. napol, IV (1879), 2, pp. 390 s.; D. C. Knowleton, An unpublished manuscript on the rising of 1647-1648 in Naples, in American historical review, VIII (1903), pp. 290-293; F. Galiani, Del dialetto napol., a cura di F. Nicolini, Napoli 1923, pp. 258 s., 267; M. Schipa, Masaniello, Bari 1925, ad Indicem; F. Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico (1668-1700), Bari 1932, ad Indicem; T. Siciliano, G. D. medico e farmacologo partenopeo..., Napoli s.d.; B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, Bari 1953, ad Indicem; N. Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano 1961, ad Indicem; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del Viceregno napoletano (1656-1734), Roma 1961, ad Indicem; A. Copparoni, Icoralli e le perle nella terapia di G. D., in Atti del XVIII Congr. italiano di storia della medicina San Remo 1962, pp. 425-428; L'arte degli speziali in Napoli, Napoli 1966, pp. 47, 49 s.; M. H. Fisch, L'Accademia degli investiganti, in De homine, XXVII-XXVIII (1968), ad Indicem; B. De Giovanni, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del '600 e la restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, VI, 1, Napoli 1970, pp. 414 s., 426; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, I, Firenze 1982, ad Indicem; R. Villari, Appunti sul Seicento, in Studi storici, IV (1982), pp. 745, 750; V. Conti, La rivoluzione repubblicana a Napoli e le strutture rappresentative, Firenze 1984, p. 34; P. Messina, G. D. e la rivoluzione napoletana del 1647-1648, in Studi storici, I (1987), pp. 183-202.

Vedi anche
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donzella donżèlla s. f. [dal provenz. donsela, lat. *dom(ĭ)nĭcĕlla; v. donzello]. – 1. letter. Donna in giovane età, non maritata (corrisponde a giovinetta o signorina del linguaggio com.): Donne e d. amorose (Dante); più onesto che una...
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