DONATI, Giuseppe
Nacque a Granarolo Faentino (ora frazione di Faenza, prov. di Ravenna) il 5 genn. 1889, da Severo e Domenica Baccarini, terzogenito tra cinque fratelli. Le condizioni familiari erano assai modeste: il padre era fornaciaio. la madre lavorava saltuariamente presso famiglie. Orfano del padre nel 1905, compì gli studi secondari nel seminario vescovile di Faenza e presso il locale liceo "Torricelli" conseguì, nel 1906, la licenza ginnasiale. In quegli anni il suo gracile fisico di adolescente fu colpito da una forte infezione tifoidea, cui fecero seguito serie complicazioni broncopolmonari, dalle quali non riuscì mai a guarire completamente.
Nell'autunno 1908 si trasferì a Firenze, dove si iscrisse all'Istituto superiore di studi sociali "Cesare Alfieri", entrando subito in contatto con il nucleo dirigente del movimento democratico cristiano, sorto al seguito di Romolo Murri, e con quegli ambienti di cultura laica che si riconoscevano nelle battaglie di rinnovamento culturale e politico promosse dalla Voce di Giuseppe Prezzolini.
Al movimento murriano si era accostato fin dall'autunno 1907, quando, sorta a Faenza la sezione della Lega democratica nazionale, fu tra i primi ad aderirvi. A Firenze il D. si schierò subito con quanti sostenevano che la Lega dovesse imboccare la via dell'intransigenza, come l'unica che avrebbe potuto impedire alle esigue forze democraticocristiane di disperdersi o, peggio, di confondersi con i socialisti o con i clericomoderati.
Durante il convegno toscano della Lega, tenutosi il 5 maggio 1910 a Sesto Fiorentino, egli difese tale linea, proponendo quali obiettivi immediati lo studio di un programma di riforme per le amministrazioni locali e, contemporaneamente, la definizione di una linea tattica elettorale che consentisse alla Lega di presentare nel futuro proprie candidature. In occasione del congresso di Imola, svoltosi nel settembre di quell'anno, decisivo fu l'appoggio che dalle colonne dell'Azione il D. recò alla linea propugnata da E. Cacciaguerra, da E. Vaina e da M. Tortonese contro quella di Murri. Intervenendo al convegno di "rifondazione", tenutosi a Fìrenze nel settembre 1911, e più ancora nei suoi articoli sull'Azione, che diresse dalla fine dell'anno fino al marzo seguente, egli si batté da un lato perché la Lega assumesse sulla questione religiosa una "fisionomia precisa" di ortodossa fedeltà alla Chiesa - anche se, al tempo stesso, riconosceva la necessità di tutelare alla coscienza personale "il sentimento della propria indipendenza" - e, dall'altro, perché la Lega stessa si prefiggesse come scopo primario quello di promuovere attività di formazione culturale e religiosa, intesa come condizione necessaria per preparare i laici cattolici a più consapevoli responsabilità civili e politiche. E fu su questa linea che per circa un decennio, dal 1911 al 1919, il D., dapprima insieme col Cacciaguerra, col Vaina e col Tortonese, e quindi praticamente da solo, guidò la Lega.
Oltremodo fecondo risultò per il D. anche l'incontro a Firenze con l'ambiente culturale della Voce. Al periodico di Prezzolini, di cui già a Faenza era assiduo lettore, collaborò per qualche tempo, pubblicandovi fra l'altro un saggio sulla legge Daneo-Credaro e la lotta contro l'analfabetismo nel Sud, saggio che l'anno seguente venne stampato in un quaderno della Voce sulla questione meridionale (Firenze 1912), insieme con scritti di G. Fortunato, F. S. Nitti, G. Avolio e L. Einaudi. e che lo rese subito noto ed apprezzato presso gli studiosi dei problemi sociali del Mezzogiorno. La collaborazione del D. alla Voce fu, però, di breve durata, giacché, se egli apprezzava nella rivista di Prezzolini la spregiudicatezza delle battaglie culturali e di costume e la vivacissima polemica nei confronti del conformismo della borghesia italiana di quegli anni, le proprie convinzioni culturali e religiose mai si conciliavano con alcuni costanti motivi di irrazionalismo e di irreligiosità presenti nelle pagine del periodico fiorentino. Così, una burrascosa polemica sulla opportunità di ristampare, a cura della Libreria della Voce, la Lottapolitica in Italia di Alfredo Oriani, offrì al D. l'occasione per scindere ogni legame con il gruppo prezzoliniano.
Più profondo e duraturo fu il rapporto che in quel periodo il D. strinse con Gaetano Salvemini, docente di storia presso l'Istituto "Cesare Alfieri". Sotto la sua guida il D. aveva già svolto quelle ricerche sull'analfabetismo nel Mezzogiorno i cui risultati erano apparsi sulla Voce. All'indomani, poi, della sua rottura con Prezzolini, partecipava al primo comitato di redazione de L'Unità salveminiana, insieme con R. Palmarocchi, A. Anzillotti e A. Muñoz. Fu una breve collaborazione, ché i quattro giovani redattori vennero ben presto a dissentire dal Salvemini, a motivo del dialogo che questi era ancora incline a mantenere col partito socialista. E su una vicenda particolare, la pubblicazione di una lettera aperta scritta da Salvemini a Gino Luzzatto il 30 dic. 1911, a proposito di Tripoli e del socialismo, il primo comitato di redazione de L'Unità si sciolse.
Con gli stessi amici - i "quattro giovani turchi", come egli stesso li definì - il D. tentò allora di dar vita a un nuovo periodico. Nacque così a Firenze, nel maggio 1912, sotto la direzione del Palmarocchi e con la laboriosa partecipazione del D., Il Risorgimento, rivista mensile di cultura politica, che concluse le sue pubblicazioni nel dicembre dello stesso anno e di cui apparvero solo sei fascicoli.
Questi insuccessi spinsero il D. a dedicare ogni sua cura alla vita della Lega, della quale intendeva accentuare l'impegno volto alla formazione sociale, culturale e religiosa dei suoi aderenti, escludendo al momento ogni attività direttamente politica. Coerente con tali posizioni fu la scelta "interventista" che, grazie anche all'opera svolta in tal senso dal D., venne condivisa dalla maggioranza degli aderenti alla Lega nel congresso di Bologna del gennaio 1915: fu una scelta dettata anche dall'aspettativa che il conflitto europeo sarebbe stato in grado di far precipitare la crisi in cui volgeva la società italiana e, quindi, di favorire una rigenerazione della vita morale, civile e politica del paese.
Con questi sentimenti, ribaditi più volte in articoli apparsi sull'Azione e nelle lettere alla fidanzata, Vidya Morici, il D. partì volontario per il fronte, con il grado di sottotenente. Rimasto seriamente ferito a un braccio nel genn. 1916, gli venne conferita una medaglia d'argento al valor militare. Ricoverato nell'ospedale militare di Firenze, fu curato dalla sua stessa fidanzata, samaritana della Croce rossa. Durante la convalescenza, il D. riprese gli studi più volte interrotti e nel giugno 1916 si diplomò con lode presso l'Istituto "Cesare Alfieri". Poco dopo, l'8 luglio, sposava la Morici. Tornato al fronte, venne chiamato all'ufficio stampa del quartier generale da Ugo Ojetti.
Nell'inverno 1917, in previsione dei profondi mutamenti che la fine delle ostilità avrebbe prodotto nella vita sociale e politica del paese, il D. cominciò a porre all'interno della Lega il problema di una sua trasformazione in un vero e proprio partito con programma democratico cristiano. Fu, tuttavia, solo nel settembre 1918 che, in una riunione a Bologna, questa proposta, grazie all'appoggio di Marco Ciriani e di Giuseppe Fuschini e nonostante la decisa opposizione del Cacciaguerra, fu accettata dal consiglio direttivo della Lega, che incaricò il D., oltre che della direzione dell'Azione, anche di reggere il segretariato fino al futuro congresso nazionale. Questo, svoltosi a Bologna nell'aprile 1919, decise di dar vita al Partito democratico cristiano (PDC), sulla base di una linea di intransigenza che respingeva ogni forma di collaborazione con altre forze politiche e che, al tempo stesso, postulava l'autonomia dei cattolici nell'azione politica. Nei mesi successivi il D. condusse nei confronti del Partito popolare italiano (PPI) una polemica molto aspra, rimproverando ad esso di essere fortemente condizionato dalla consistente presenza al suo interno di elementi clericoconservatori e di aver frainteso il principio dell'aconfessionalità dei credenti nell'azione politica fino a mostrare una pressoché totale assenza di ogni "sincera passione religiosa". Tuttavia, le elezioni generali del novembre 1919 costituirono per il PDC una pesante sconfitta, soprattutto alla luce dell'inatteso successo ottenuto dalle liste popolari. A nulla valse la prudenza usata dal D. e dai suoi amici nel concentrare i loro sforzi lì dove più consistenti erano sempre state le adesioni al programma democratico cristiano, presentando cioè, sotto il simbolo dell'aratro, le candidature del D. e di Ciriani nel collegio di Udine-Belluno e in quello di Ravenna. Si riuscì, con i resti, a conquistare un solo seggio in Parlamento.1 seggio che venne attribuito al Ciriani, deputato uscente, il quale aveva riscosso il maggior numero di preferenze. Di fronte a così cocente sconfitta la prima reazione dei democratici cristiani fu quella di rimproverare agli avversari il ricorso a mezzi scorretti durante la campagna elettorale. Ma ben presto ebbe inizio un irreversibile processo di avvicinamento al PPI che culminò nel novembre 1920 con il congresso di Bologna, il quale decise l'autoscioglimento del PDC, su proposta dello stesso Donati. Questi, infatti, era ormai fermamente persuaso che "la Democrazia Cristiana come compito politico e sociale autonomo aveva finito".
Al termine del conflitto il D. aveva assunto, presso il Comune di Venezia, l'incarico di direttore dell'ufficio del lavoro e della commissione comunale di avviamento al lavoro. Candidato, in occasione delle elezioni generali del maggio 1921, nella lista popolare per la circoscrizione di Venezia-Treviso, non risultò eletto, ma nel giugno successivo venne nominato segretario provinciale del partito. In tale veste, organizzò il III congresso nazionale del PPI, che ebbe luogo a Venezia dal 20 al 23 ott. 1921, al termine del quale fu eletto membro del Consiglio nazionale. Da quel momento Sturzo gli venne affidando incarichi sempre più delicati.
Su sollecitazione di Sturzo, infatti, durante la prima metà del 1922 egli condusse un'inchiesta sul salariato agricolo nel Cremonese, cioè nella zona di G. Miglioli; nel giugno dello stesso anno, su incarico della direzione nazionale del partito, risolse una grave vertenza sorta a Volta Mantovana fra popolari e fascisti; nel febbraio 1923, infine, partì per Faenza, dove riuscì a stabilire una tregua tra popolari e fascisti locali.
Nel frattempo veniva maturando il progetto della nascita di un nuovo quotidiano che fosse espressione della linea politica perseguita dalla segreteria nazionale del PPI.
Fu una vicenda molto travagliata, a causa delle forti resistenze che l'iniziativa incontrò in quegli ambienti del mondo cattolico e in quei settori del partito politicamente e culturalmente legati alle passate esperienze clericomoderate. Furono esercitate le più vive pressioni perché Sturzo non ne affidasse la direzione al D., del quale a tutti erano noti il passato, le amicizie nel mondo liberaldemocratico e il profondo sentire religioso congiunto a una laicità con venature radicaleggianti. Sturzo, però, fu irremovibile: non gli sfuggiva, infatti, il vero significato di quelle pressioni, che se da un lato miravano a impedire la creazione di un autonomo strumento di lotta, libero da condizionamenti esterni, dall'altro costituivano le prime avvisaglie di una più ampia e lunga battaglia politica che aveva per oggetto reale i modi e la sostanza stessa della collaborazione popolare col governo Mussolini.
Finalmente, il 5 apr. 1923, firmato dal D. quale gerente responsabile, apparve nelle edicole Il Popolo, che in breve tempo divenne il vero portavoce del partito, anche se non ne fu, all'inizio, l'organo ufficiale. Lo diverrà solo il 9 ott. 1924, dopo un anno e mezzo di vita, che aveva visto crescere il suo peso politico, grazie alle battaglie pubblicistiche che il D. vi aveva intrapreso contro il regime fascista e che culminarono nei due momenti della denuncia contro E. De Bono per l'assassinio di Matteotti e del processo fra Italo Balbo e la Voce repubblicana per l'uccisione di don Minzoni.
Nella prima vicenda il D. svolse un ruolo decisivo, in quanto fu la sua denuncia contro De Bono che consentì di mettere pubblicamente sotto accusa, di fronte al Senato costituitosi in Alta Corte di giustizia, il torbido ambiente che attorniava il quadrumviro e lo stesso Mussolini; ma anche nella seconda vicenda, quella del processo per l'uccisione di don Minzoni, le sue deposizioni, suffragate dalla documentazione che produsse, inchiodarono a tal punto Balbo quale mandante, da costringere il tribunale giudicante a emettere una sentenza di assoluzione per sola insufficienza di prove. Nelle condizioni in cui si era ormai ridotta la lotta politica in Italia, l'azione svolta dal D. fu "il solo atto di coraggio personale (temerario quanto si vuole, ma coraggio) che sia stato fatto nella campagna per l'affare Matteotti, mentre i deputati antifascisti si tenevano imboscati sull'Aventino" (Salvemini, in IlMondo, 3 maggio 1952).
Ma del limite della propria battaglia, cioè dell'impossibilità di poter ormai sconfiggere il fascismo sul terreno politico, si rendeva chiaramente conto lo stesso D., il quale nei suoi scritti denunciava l'inanità della logica aventiniana. Cominciò ad impegnare parte delle sue energie in direzione della lotta clandestina, operando in collegamento con il socialista unitario Tito Zaniboni e con i fratelli Garibaldi.
Il progetto era quello di stabilire stretti rapporti con quegli ambienti politici che intendevano la lotta antifascista in modo diverso dagli aventiniani, quali alcune logge massoniche, i gruppi di Italia libera e di Patria e libertà e gli stessi dissidenti fascisti, con il proposito di costituire in varie città italiane delle squadre d'azione antifascista. I capi dell'Aventino, venuti a conoscenza delle trame clandestine che Zaniboni e il D. avevano incominciato a tessere, imposero a entrambi di troncare immediatamente ogni iniziativa.
In vista della pubblicazione della sentenza del processo a De Bono, e di fronte agli accresciuti attacchi della stampa fascista contro il D., di cui R. Farinacci sulle pagine di Cremona nuova chiedeva la messa al bando, i dirigenti popolari, preoccupati della sua incolumità fisica, cominciarono ad esercitare sul D. insistenti pressioni perché si allontanasse, almeno temporaneamente, dall'Italia. In tal senso pesarono anche considerazioni di carattere politico, che riguardavano gli interessi generali del partito, il futuro del giornale e, in genere, la necessità di togliere, con la partenza del D., ogni forma di pretesto per violenze fasciste. Analogo interesse a favorire con ogni mezzo il suo allontanamento dall'Italia aveva il ministro dell'Interno, L. Federzoni, il quale nutriva qualche preoccupazione a causa delle reazioni che tutta l'attività, legale o sovversiva, promossa dal D. poteva provocare negli ambienti fascisti più intransigenti. Così, il 18 giugno 1925, con un passaporto in bianco rilasciato dal Federzoni in mezz'ora, il D. abbandonò l'Italia fra mille incertezze, per nulla persuaso che la sua vita fosse realmente in pericolo, convinto invece che il suo allontanamento fosse nell'interesse del giornale e del partito.
Giunto il 2 novembre nella capitale francese, accompagnato da Guido Armando Grimaldi, un giovane redattore del Popolo, anch'egli "compromesso", il D. riprese subito la sua attività di oppositore della dittatura mussoliniana. Due restarono, anche in esilio, i terreni sui quali egli continuò a condurre la sua battaglia antifascista: da un lato, un'incessante attività giornalistica, dall'altro, la lotta anche armata al regime, da promuovere e finanziare all'estero, ma da introdurre, organizzare e sviluppare clandestinamente in Italia.
In questo secondo aspetto della sua battaglia contro il regime fascista il D., privilegiando oltre misura il conseguimento del fine, cioè il crollo anche violento della dittatura mussoliniana, su ogni altro problema politico e organizzativo connesso a un programma cospirativo di tale portata, non si fece scrupolo di stabilire contatti con elementi equivoci che largamente prosperavano in seno all'emigrazione italiana, e che spesso si rivelarono essere agenti al soldo del governo fascista. Si colloca in tale quadro la clamorosa vicenda delle Legioni garibaldine: organizzate in territorio francese da Ricciotti Garibaldi quale corpo di spedizione da introdurre clandestinamente in Italia per favorire il crollo del regime fascista, risultarono un'abile messinscena nascostamente pilotata dai servizi segreti di Mussolini al fine di screditare sia i fuorusciti sia il governo di Parigi agli occhi dell'opinione pubblica internazionale. E, tra i fuorusciti, il D. fu certamente la figura di maggior spicco che più si compromise nell'impresa.
Anche nell'altro aspetto della sua lotta contro il regime, quello della battaglia pubblicistica, il D. dimostrò di non possedere quella severa prudenza necessaria nel promuovere imprese di tale natura in condizioni ambientali così difficili, quali quelle dell'esilio politico. Partito dall'Italia anche con l'intento di proseguire più liberamente la lotta giornalistica già sviluppata con Il Popolo, egli cercò subito di realizzare tale progetto. Così il 28 genn. 1926 uscì a Parigi il primo numero di un nuovo giornale: IlCorriere degli Italiani, al quale collaborarono, oltre al D. che ne fu il direttore, il vecchio socialista Oddino Morgari e i repubblicani Carlo Emanuele a Prato e Mario Pistocchi (che nel dopoguerra si scoprì essere nelle liste degli informatori dell'OVRA [Opera vigilanza repressione antifascista]). Se vani furono allora i tentativi del governo fascista di impedire l'uscita dei giornale, non si può dire che fallirono, invece, le più nascoste manovre di alcuni agenti fascisti per impadronirsi del foglio e per farlo miseramente fallire. IlCorriere, infatti, disponendo di esigue risorse finanziarie, fu costretto di continuo a peregrinare da una tipografia all'altra, da un finanziatore all'altro, sino a sfuggire del tutto al controllo del gruppo antifascista che lo aveva fondato, per finire - dimessosi ormai il D. dalla direzione - nelle mani di Carlo Bazzi e del suo giro di informatori e agenti dell'OVRA.
Cessato il suo lavoro al Corriere degli Italiani, il D. collaborò per qualche tempo, su invito di Filippo Turati, alla Libertà, organo della Concentrazione antifascista, occupandosi prevalentemente di seguire e commentare gli avvenimenti relativi alla vita del mondo cattolico italiano. Nel dicembre 1928, poi, insieme col socialista Dandolo Lemmi, diede vita a un quindicinale, Il Pungolo, che durò poco più di un anno, ebbe vita stentata, ma rappresentò una fra le più significative riviste del fuoruscitismo democratico.
Ad essa, infatti, collaborarono intellettuali e politici di diversa estrazione culturale - da Salvemini a Crespi, da Landini a Salvadori, da Sturzo a Ferrari -, tutti accomunati dal desiderio di contribuire alla elaborazione di una nuova cultura democratica, chiaramente antifascista, ma consapevole dei limiti e degli errori dell'Italia liberale e delle responsabilità delle stesse forze antifasciste nell'avvento del regime mussoliniano.
A interrompere, tuttavia, queste fragili iniziative di collaborazione fra esuli popolari e antifascisti democratici di altra ispirazione ideologica venne, ai primi di febbraio del 1929, la notizia dei patti del Laterano. Mentre pressoché tutti gli altri ambienti del fuoruscitismo respinsero duramente tali patti, nei quali sostanzialmente videro un mutuo accordo fra la Chiesa e il regime, oggettivamente difficile si fece la posizione di quei cattolici che, in Italia e in esilio, credevano fermamente nella possibilità di conciliare la loro fede religiosa con i moderni principi di libertà, di democrazia e di progresso sociale. A differenza di don Sturzo, il quale si mantenne in uno stretto riserbo, anche a motivo della sua condizione di sacerdote, e di F. L. Ferrari, che aveva fin dall'inizio assunto una pubblica posizione di aperta critica degli accordi, il D., pur protestando per la chiara preferenza che in tal modo la Chiesa - a suo dire - avrebbe manifestato a favore di un regime dittatoriale, dichiarava pubblicamente che negli accordi del Laterano erano presenti aspetti positivi: e, in primo luogo, l'evento storico della conclusione, da tutti auspicata, della "questione romana" sulla base del reciproco riconoscimento dello Stato unitario italiano e della Chiesa cattolica.
Ora, se tali affermazioni dimostravano ancora una volta l'indubbio coraggio del D. nel manifestare pubblicamente le proprie opinioni, nel clima di acceso anticlericalismo che improvvisamente divampò in seno all'antifascismo in esilio a seguito della notizia degli accordi, le sue parole parvero a molti fuorusciti, se non una vera e propria provocazione, il segno evidente dell'impossibilità di condividere gli stessi ideali di libertà e di democrazia con quanti si professavano cattolici.
E il D. pagò con l'emarginazione l'onestà intellettuale di aver espresso la sua opinione sui patti del Laterano: venne, infatti, espulso dall'Unione tra i giornalisti italiani "G. Amendola" e dalla Lega italiana dei diritti dell'uomo, che aderiva alla Concentrazione.
Tale isolamento contribuì certamente anche ad abbattere il suo morale, sul quale già influivano negativamente il pensiero per la famiglia rimasta in Italia, le precarie condizioni di salute e la difficoltà di trovare un lavoro con il quale mantenere se stesso e inviare qualche aiuto alla famiglia. Di quando in quando Sturzo gli spediva qualche somma di denaro. I pochi guadagni provenivano per lo più da piccoli e saltuari lavori che dall'America gli commissionava Salvemini, da alcune lezioni private che gli amici gli procuravano, da qualche lavoro tipografico per l'editore Carozzo, nonché dal modesto servizio di cameriere che spesso svolgeva presso il ristorante gestito dall'amico Stragliati. Fu allora che Sturzo, al fine di procurargli una stabile occupazione che gli consentisse di vivere dignitosamente e di poter aiutare la famiglia, ma anche per allontanare il suo giovane amico dall'atmosfera del fuoruscitismo parigino per lui ormai divenuta soffocante, riuscì a ottenergli, con l'aiuto del conte C. Sforza e di Angelo Crespi, un posto d'insegnante di italiano nel collegio cattolico "S. Edoardo" di Malta.
Giunto nell'isola ai primi d'ottobre del 1930, il D. vi soggiornò fino al giugno successivo, alternando l'insegnamento con la stesura di scritti in difesa della civiltà italiana a Malta, scritti inviati anonimi e tutti pubblicati come articoli di fondo su di un giornale locale, di orientamento fascista. Tuttavia, il clima riarso e l'aria salmastra dell'isola peggiorarono le sue condizioni di salute, riacutizzando l'antica affezione broncopolmonare.
Ai primi di luglio, approfittando della interruzione estiva delle attività scolastiche, tornò a Parigi, dove prese nuovamente dimora presso lo Stragliati.
Qui, dopo alcune settimane di ricorrenti crisi respiratorie, il D. si spense cristianamente il 16 ag. 1931.
Degli scritti del D. vanno ricordati gli innumerevoli articoli, pubblicati soprattutto su i seguenti giornali e periodici: La Voce, L'Azione democratica, L'Azione, Il Risorgimento, La Rivolta ideale, L'Unità, L'Azione cristiana, La Nuova Libertà, Politica nazionale, Libertas, Le Battaglie del Mezzogiorno, Il Popolo, Il Corriere degli Italiani, Il Dovere, La Libertà, Il Pungolo, Malta, Dovere Agence.
Alcuni dei principali articoli sono stati ristampati nella raccolta Scritti politici, a cura di G. Rossini, Roma 1956; nell'antologia La terza pagina de "Il Popolo": 1923-1925, a cura di L. Bedeschi, ibid. 1973, e nel reprint de IlPungolo, a cura di E. Camurani, Bologna 1977.
Fonti e Bibl.: Lettere e documenti del D. sono custoditi a Roma presso gli eredi. Altro materiale documentario è rinvenibile, sempre a Roma, nell'Archivio dell'Istituto L. Sturzo e nell'Archivio centrale dello Stato, Min. Interno, Dir. gen. di P. S., Casellario politico centrale, fasc. n. 86823: Donati Giuseppe. Alcune lettere sono conservate presso il Centro studi "G. Donati" di Faenza, presso la famiglia Fabiani a Perugia e nel Fondo Salvemini, custodito a Firenze presso l'Archivio dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana. Tale ricca documentazione può in parte utilmente rinvenirsi in L. Sturzo, Scritti inediti, II, 1924-1940, a cura di F. Rizzi, Roma 1975; III, 1940-1946, a cura di F. Malgeri, ibid. 1976, ad Indices; G. Donati, Lettere da Malta, a cura di A. Benelli, Ravenna 1981; Id., Scritti inediti e familiari, a cura di V. Cervone, Napoli 1983; G. Salvemini, Carteggi, II, 1912-1914, e III, 1921-1926, a cura di E. Tagliacozzo, Bari-Roma 1984-1985, ad Indices; F. L. Ferrari, Lettere e documenti inediti, voll. 2, a cura di G. Rossini e S. Trinchese, Roma 1986, ad Indicem.
Fra i numerosi scritti commemorativi apparsi sulla stampa vanno essenzialmente ricordati quelli compresi nei numeri speciali de Il Popolo, del 28 novembre e 5 dic. 1971, nonché del 14 agosto e 3 ott. 1981.
Sul D. si vedano le voci apparse nell'Encicl. dell'antifascismo e della Resistenza, II, Milano 1971, pp. 123 s., e nel Diz. stor. del movimento cattolico in Italia..., II, I protagonisti, Casale Monferrato 1982, pp. 181-190. Alla bibliogr. ivi citata si possono aggiungere: M. Bergamo, D. o dell'esilio, Paris 1931; A. Parini, G. D., in Avanti!, 17 ag. 1944; E. Lussu, G. D., in L'Italia libera, 19 ag. 1944; Y. De Begnac, G. D., in ABC, 15 marzo 1958; L. Bedeschi, Icattolici disubbidienti, Roma 1959, ad Indicem; U. La Malfa, Con Sturzo e con Ferrari D. ha riscattato molti errori del mondo cattolico, in La Voce repubblicana, 12 febbr. 1959; G. Berneri, L'homme à la gabardine, in IlMondo, 6 febbr. 1962; L. Bedeschi, G. D. e il concordato, in Il Resto del carlino, 25 febbr. 1969; Ilmodernismo toscano. Variazioni e sintomi, a cura di L. Bedeschi, in Fonti e documenti, X (1981), pp. 88 s.; G. Prezzolini e il dibattito modernista, a cura di A. Botti, ibid., pp. 312 ss., 316 s., 367; XI-XII (1982-1983), pp. 81-84, 173-214, 253-259, 277-284; P. Grassi, E. Cacciaguerra e G. D. contro il patto Gentiloni (1913) a Cesena e a Faenza, in Romagna. Arte e storia, I (1981), pp. 113-121; F. Traniello, Il fascismo nelle interpretazioni cattolico-democratiche dei popolari in esilio, in Appunti di cultura e di politica, 1981, n. 12, pp. 21-27; L. Bedeschi, G. D. e la polizia fascista, in IlPonte, XXXVIII (1982), 1-2, pp. 97-108; G. Campanini, Cultura e ideologia del popolarismo (Micheli-Ferrari-D.), Brescia 1982, ad Indicem; R. Manzini, Unità dei cattolici, Roma 1982, ad Indicem; La questione modernista e il protestantesimo italiano, a cura di L. Giorgi, in Fonti e documenti, XI-XII (1982-1983), pp. 478 s.; G. D. tra impegno politico e problema religioso, Atti del Convegno nazionale di studi, Faenza, 2-4 ott. 1981, a cura di R. Ruffilli - P. Scoppola, Milano 1983; P. Ziller, La sfida coraggiosa di un vero "popolare", in Terza Fase, 1983, n. 12, pp. 63-66; M. Tesini, Per una reinterpretazione di G.D., in Bollettino dell'Istituto regionale "A. De Gasperis" [Bologna], giugno 1984, pp. 1014; P. Grassi, Il PPIin Emilia-Romagna, II, I protagonisti, Roma 1987, pp. 102-119; G. Ignesti, Laici cristiani fra Chiesa e Stato nel Novecento, Roma 1988, ad Indicem.