DEZZA, Giuseppe
Nacque a Melegnano (Milano) il 23 febbr. 1830 da Baldassarre e Carolina Magnani, agiati proprietari terrieri. Terzogenito di otto figli (tra i quali Francesco, 1836-1903, per molti anni sindaco di Melegnano), nel 1839 si iscrisse al ginnasio "S. Maria" di Milano, dal quale fu espulso per indisciplina e mandato per tre anni in collegio a Parabiago. Terminato il liceo a Milano, il 4 nov. 1847 s'iscrisse all'università di Pavia per conseguire la laurea in ingegneria, osteggiato dai suoi che lo volevano avvocato, poiché speravano nell'appoggio dello zio Rebuschini, presidente di Corte d'appello.
Le prime avvisaglie dei moti risorgimentali portarono, nel dicembre '47, alla chiusura dell'università e all'espulsione degli studenti non pavesi che, dopo una breve dimostrazione a Milano, furono costretti a rientrare nelle loro famiglie. Con la rivolta delle Cinque giornate il D. si arruolò nel I battaglione degli studenti lombardi volontari, e venne nominato sergente della 5ª compagnia. Dopo la sconfitta dei Piemontesi a Sommacampagna (23 luglio 1848), raggiunse Garibaldi a Luino dopo un avventuroso viaggio compiuto attraverso la Svizzera, ma dopo l'armistizio Salasco fu congedato e rientrò a Melegnano (20 agosto).
Conseguita la laurea in ingegneria nel '50, fece tre anni di pratica presso lo studio Manzi di Milano, frequentando, nel contempo, la scuola di perfezionamento di Brera, dove ottenne nel '53 il diploma di ingegnere-architetto. Impiegatosi presso l'amministrazione del censo, si occupò di perlustrazioni e rilievi topografici. Nel '59, avvicinandosi lo scontro tra Franco-Piemontesi e Austriaci, il D. riuscì a passare in Piemonte e si arruolò nel 3º reggimento dei Cacciatori delle Alpi, comandato da N. Ardoino.
In virtù delle sue conoscenze tecniche, gli furono presto affidate opere di fortificazione, come nel caso dei sistemi difensivi di Vercelli e Varese. Il 27 maggio, in occasione del combattimento di Como, meritò la medaglia d'argento e la promozione a sottotenente. È a quest'epoca che risale la sua lunga amicizia con Nino Bixio: temperamenti risoluti e poco disposti a transigere, i due presentavano anche notevoli affinità politiche. Uomini d'ordine, interessati essenzialmente alla vita militare, interpretarono entrambi il garibaldinisino in senso moderato, divenendo dopo l'Unità tenaci assertori della monarchia e degli orientamenti politici della Destra.
Terminata la guerra, il D. si dimise da ufficiale e tornò al suo impiego presso l'ufficio del censo, ma richiamato dal Bixio rispose con entusiasmo all'idea della spedizione dei Mille. imbarcandosi come volontario nella 1ª compagnia. Tenuto in grande considerazione, oltre che dal Bixio, da Garibaldi e da S. Türr, fece una rapida carriera militare. Promosso capitano la sera stessa della battaglia di Calatafimi (15 maggio 1860), al termine della quale Garibaldi ebbe parole di grande apprezzamento per lui, alla metà di giugno fu nominato comandante del I battaglione Cacciatori delle Alpi della brigata Bixio. Più tardi, col nuovo ordinamento delle truppe garibaldine (20 luglio), passò alla divisione Türr e quindi il 31 agosto, con il grado di luogotenente colonnello, gli venne affidato il comando della I brigata della 10ª divisione comandata dal Bixio. Il D. dette ampia prova delle sue capacità militari soprattutto in occasione della battaglia del Volturno (1-2 ott. 1860).
Garibaldi, che aveva schierato le truppe lungo un ampio semicerchio intorno a Caserta, aveva affidato alle forze del Bixio, che comprendevano 5.500uomini e 6 cannoni, l'importante postazione di Maddaloni. Questa, all'alba del 1º ottobre, venne attaccata dalle truppe del generale borbonico Luka von Mechel, che disponeva di 3.000svizzeri e bavaresi e sei cannoni da montagna, e che riuscì a superare in breve gli avamposti sia dell'ala destra sia dell'ala sinistra dello schieramento garibaldino, occupando rispettivamente le postazioni di monte Caro, dove si trovava il D., e dei Ponti della Valle. Mentre il Bixio decideva allora di ritirare le truppe su Villa Gualtieri per proteggere la strada di Caserta, il D., con la sua brigata, volle tentare un'azione disperata per riprendere monte Caro. Ottenuti rinforzi (parte dei battaglioni Menotti e Taddei), attaccò risolutamente i Borbonici attestati sul monte, dando ordine al Taddei di coglierli di sorpresa alle spalle. Gli assalti si ripeterono più volte e furono assai violenti, anche perché i garibaldini si trovavano minacciati da una colonna sul loro lato sinistro. Tuttavia alla fine le truppe borboniche furono ricacciate dal monte e, costrette a rovesciarsi sulla valle retrostante, furono sottoposte, oltre che al fuoco degli uomini del D., alla carica dei reparti del Bixio, che nel frattempo aveva trovato modo di riorganizzarsi. Dopo un'ora e mezzo al von Mechel non restò altro che ordinare la ritirata: aveva perduto un centinaio tra morti e feriti, mentre più gravi furono le perdite tra i garibaldini. Per l'importanza dell'azione compiuta il D. fu promosso colonnello e successivamente incaricato del comando della I brigata della 18ª divisione e gli venne conferita la croce di ufficiale dell'Ordine militare dei Savoia.
Sempre nel corso della spedizione dei Mille il D. fu, con il Bixio, tra gli artefici della repressione dei moti contadini avvenuti nell'agosto nella piana di Catania. Il Bixio si recò a Bronte, il D. a Cesarò. Resosi conto della situazione, non esitò ad ordinare lo stato d'assedio, lo scioglimento della guardia nazionale e la destituzione del sindaco. Operò anche diversi arresti, che rimise al tribunale di Catania. La sua repressione fu forse meno spietata di quella operata dal Bixio, ma muoveva dagli stessi presupposti: dal punto di vista militare, avere ordine e quiete nelle zone retro e circostanti; dal punto di vista politico, avere come interlocutori la borghesia e la proprietà agraria per la loro attendibilità amministrativa.
Terminata l'impresa garibaldina, entro nell'esercito regolare con il grado di colonnello. Un anno dopo, in sostituzione del Bixio, fu chiamato a far parte della commissione che esaminava le benemerenze militari e le qualità civili dei garibaldini in vista di un loro inserimento nell'esercito regio. Il D. si trovò a dover fronteggiare situazioni assai difficili, come quando fu sfidato a duello da un tal Fazzari, caporale borbonico passato nelle file garibaldine, che egli stesso aveva fatto condannare per gravi insolvenze pecuniarie. Ripetutamente provocato, finì con l'accettare il duello che si svolse a Cannobio, Nino Bixio padrino: il D. rimase leggermente ferito ad una mano e, in seguito all'episodio, una circolare ministeriale proibì i duelli per cause di servizio.
Nell'aprile '65 sposò a Pavia Maria Pellegrini che, nata a Montesano di Filighera il 9 maggio 1837, morirà a Milano in tardissima età il 26 genn. 1934. Dal matrimonio, ufficiato da un fratello dello stesso D., Gaspare, nacquero nel '68 Maria, nel '70 Ugo e nel '78 Pia.
Nel '66 partecipò alla guerra quale comandante del 29º reggimento fanteria di Pisa.
Dalle sue Memorie traspare l'approssimazione e l'indecisione che contraddistinsero l'operato degli alti comandi italiani in quella circostanza. Il D. si trovò a dover fronteggiare spesso difficili situazioni, dalle quali riuscì a districarsi soprattutto grazie alle sue notevoli capacità tattiche, eredità del trascorso garibaldino. La sua abilità emerse in particolare il giorno della battaglia di Custoza (24 giugno), allorché, deceduto il generale O. Rej di Villarej e feriti i generali Dhò e E. Cerale, gli fu affidato il comando della 1ª divisione, ormai disordinata ed in rotta. Con grande sforzo riuscì in gran parte a ricomporla e a realizzare un'abile ritirata dividendo gli uomini in vari tronconi che, a turno, dovevano tenere impegnate le truppe nemiche. Particolarmente significative furono le cariche da lui ordinate alla Campagna Rossa e a Monte Cricol, nel corso delle quali fu posto un serio argine all'irrompere delle forze austriache. Per la condotta tenuta gli furono assegnati la croce di commendatore dell'Ordine militare dei Savoia e il comando effettivo della brigata Pisa come colonnello brigadiere.
Dal 1872 al '77 fu aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, e con tale titolo accompagnò il re alle corti di Vienna e di Berlino nel '73, visite volute dal Minghetti per dimostrare che l'Italia, chiusa la parentesi rivoluzionaria, tornava ad essere fedele alleata dei più antichi monarchi d'Europa.
Dal resoconto di viaggio del D. affiora una certa stanchezza. Uomo d'armi più che di corte, non nascondeva la sua insofferenza per le questioni diplomatiche. "Veduta Berlino desidero finire questa vita che a dirti il vero è troppo pesante", scrisse alla moglie il 22 agosto; tuttavia il senso del dovere e la profonda lealtà verso il sovrano e le istituzioni lo indussero a conservare la carica.
Nel gennaio '74 fu artefice di un incontro a Roma tra Vittorio Emanuele e Garibaldi, da lui ricordato con molto orgoglio. I repubblicani erano in quel momento alla testa di un'agitazione contro il rincaro del prezzo del pane e, saputo dell'arrivo di Garibaldi, speravano di trarlo dalla loro parte in funzione anti-governativa. Per scongiurare tale eventualità il D. si adoperò per l'incontro, che andò esattamente nella direzione da lui auspicata in quanto non solo scongiurò un possibile moto popolare, ma servì anzi a rafforzare, agli occhi dell'opinione pubblica, il traballante governo Minghetti.
Nell'80 gli fu con insistenza offerto da B. Cairoli il ministero della Guerra in sostituzione del dimissionario C. Bonelli, ma rifiutò sia per ragioni strettamente militari ("le cose per l'Esercito - scrisse alla moglie l'8 luglio - vanno malissimo e io non mi sento di fare da capro espiatorio"), sia per precise motivazioni politiche: aveva accordato le sue preferenze alla Destra parlamentare e non intendeva derogare da tali posizioni. Uomo essenzialmente dedito alla vita militare, divenne nell'82 aiutante di campo di Umberto I e nell'86 generale di corpo d'armata. Fu con tale grado dapprima ad Ancona, quindi a Palermo, a Bologna e dal '93 a Milano. Deputato di Codogno nelle legislazioni XIII e XIV e senatore dal 1889, si occupò soprattutto di questioni militari, divenendo nel '78 presidente della commissione parlamentare per l'esercito.
Nel '95 lasciò il servizio per raggiunti limiti di età. Morì a Milano il 14 maggio 1898.
Le sue memorie, pubblicate di recente, G. Dezza, Memorie autobiografiche e carteggio (1848-1875), pref. di F. Catalano, introd. e note di G. Marino, Milano 1963, scritte senza intenti letterari (del resto lontani dall'indole del D.), risultano di notevole interesse, sia perché offrono una particolare lettura delle vicende cruciali del Risorgimento, sia perché sono testimonianza di quella corrente piuttosto cospicua che da posizioni garibaldine giunse a schierarsi con la monarchia una volta compiuta l'Unità. Ma esse sono anche documento della serietà e dell'impegno che contraddistinsero l'operato del D. in ogni frangente.
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