DE ROBERTIS, Giuseppe
Nato il 7 giugno 1888 a Matera da Domenico e da Maria Ruggieri, compì nella città natale gli studi ginnasiali e liceali. Nell'autunno del 1907, vinta una borsa di studio, non ancora ventenne si trasferì a Firenze per frequentare il corso di lettere presso l'Istituto di studi superiori, dove ebbe maestri quali Ernesto Giacomo Parodi, Guido Mazzoni, Michele Barbi ma soprattutto Girolamo Vitelli, alla cui scuola si formò insieme con Renato Serra, Emilio Cecchi, Carlo Michelstaedter e Scipio Slataper.
Dal Vitelli apprese il severo esercizio della filologia testuale e come gli altri compagni si fece amante del "testo" più che della "critica" del testo, distanziandosi dallo storicismo e indirizzandosi piuttosto verso uno studio tecnico, antiretorico e schivo, nella convinzione, acquisita dal maestro, che fosse necessario il fispetto scrupoloso del testo, indagato e ricostruito con amorevolezza umile e inquieta: "Quel poco che ho imparato come si leggono i poeti, io lo devo a lui [a Vitelli] ... Con quella sua voce pacata e ardente ... egli ci offriva tutte le volte una lampante prova di come non si dovesse per nulla aggredire la poesia" (Scrittori del Novecento, Firenze 1940, p. 407). Allo studio filologico il D. già affiancava la ricerca dell'inespresso e cioè di quel "valore" che vivifica la parola cristallizzandola in poesia.
Nel maggio del 1912, non ancora laureato, iniziò la sua collaborazione alla Voce, allora diretta da G. Prezzolini, con un articolo su Salvatore Di Giacomo, seguito da alcuni "consigli del libraio". Del 28 febbr. 1914 è l'importante saggio Da De Sanctis a Croce, col quale il D. si misurava con tre grandi della critica italiana: De Sanctis, Carducci e Croce. Il suo intento dichiarato era quello di svincolarsi dalla loro autorità, liberarsi da schemi che considerava ormai inattuali e "rinfrescare la sensibilità" del giudizio letterario. Il fatto che nella sua attività risentisse poi quasi necessariamente della loro lezione, non toglie che in questo periodo egli fosse del tutto intenzionato a "Procedere per altre vie", alla ricerca di nuove verità dell'arte, spinto in questo tanto dall'esperienza della tradizione classica quanto dalle suggestioni che gli provenivano dal mondo "inquieto" della nuova poesia.
Il suo giudizio sulla critica del De Sanctis, sebbene articolato, era chiaramente limitativo. ne riconosceva la grandezza innovativa ritenendola però inadeguata alle esigenze della sensibilità moderna. Ne ammirava la capacità analitica, quella facoltà che gli permetteva di rivivere dentro di sé, e drammaticamente, la letteratura e di saperne ricreare poi l'immagine in forme e figure che erano arte esse stesse ("la prosa desanctisiana è senz'altro arte"), ma in questo intravvedeva una certa incompiutezza: era insodisfatto di come a queste "escavazioni gigantesche operate nell'animo dei poeti" il De Sanctis non sapesse poi far corrispondere "il contatto della poesia come poesia", il gusto, l'assaggio della parola e del verso per quello che erano in sé e non solo per come erano risuonati in lui. Nei confronti del Croce la sua posizione fu più complessa. Di lui accoglieva certamente il concetto di autonomia del fatto artistico, e nel "saper leggere" (titolo programmatico di un intervento apparso sulla Voce del 30 marzo 1915) intendeva la forma più pura della critica, anzi senz'altro la "critica purat, svincolata da altre ragioni che non fossero quelle inerenti alla poesia stessa. Però gli sembrava inaccettabile quel mantenersi sempre neutrale, quel non compromettersi mai del giudizio crociano che, riconducendo tutto a ragione storica, si lasciava sfuggire l'essenzialità della poesia. La polemica sorta con il Croce, definito senza mezzi termini un De Sanctis freddo, senza sensibilità e commozione, e con i crociani (che - come L. Russo - non gli risparmiarono giudizi fortemente negativi) si appuntò specialmente sul metodo. Il D. riduceva il Croce nei confini di un angusto storicismo, ignorandone o fraintendendone alcuni aspetti (Scalia, Del Beccaro); ma se ricondurre la poesia alle ragioni della storia gli sembrava uno svilimento, uno snaturamento dell'arte, i crociani d'altra parte gli rimproveravano di "novecentizzare" tutti i poeti che avvicinava e di non saper concretizzare in vera critica, in giudizio fermo e fondato sulla storia, quei tentativi enfatici che restavano circoscritti nel puro calligrafismo (Russo). Il D. però percorreva consapevolmente un'altra strada, dopo aver risolto a suo modo il problema della storia, adottando una soluzione di fatto antitetica a quella dei suoi interlocutori, soluzione che del resto fu antesignana di ulteriori e fecondi sviluppi. Il suo "saper porre gli autori in armonia col quadro della storia" consisteva nel rintracciare uno sviluppo della poesia, che fosse soprattutto sviluppo dello stile, storia del muoversi della forma secondo appropriati e variabili motivi di continuità e di trasformazione del sentimento, della parola, della sintassi, della musica (Anceschi). Quel gusto alla "lettura" che il D. trovava troppo scarso nel De Sanctis era più corposamente presente e dichiarato nella lezione carducciana. Il Carducci si era accostato alla poesia con precisione di gusto e il D. sulla scorta del Serra vi ritrovava quel senso dell'arte che era senso umano e morale insieme, che teneva presente la tradizione italiana ma la leggeva e l'intendeva con chiarezza e vigore. La linea della sua critica fu dunque orientata subito nel solco privilegiato Serra-Carducci, anche se di quest'ultimo sembravano sfuggirgli altre componenti, prime fra le altre il senso della storia e l'impianto metodologico. Era infatti conforme ai principi del D. rifuggire accuratamente da qualunque sistema che lo costringesse in un orizzonte limitato, che non gli consentisse di dialogare liberamente con i suoi poeti: "per creare una critica nuova, non c'è tanto bisogno di teorie estetiche diverse, quanto di sensibilità".
Se la letteratura, centro vivo dell'interesse personale e di una passione intellettuale, lo avvinse totalmente nella sua attività il D. fu attratto particolarmente da certi esempi che gli venivano dal panorama contemporaneo italiano: lo stesso Croce, per i concetti di intuitività e immediatezza del fatto artistico; il Prezzolini per i riferimenti all'estetica; lo colpivano altresì la puntuale sensibilità di E. Cecchi e gli ardori del Soffici (Anceschi). Ma sopra tutti vale per lui la figura di Renato Serra, con cui intrecciò un dialogo fitto di intese e corrispondenze che trovavano la loro ragion d'essere nella comune (anche se nel D. solo mediata) educazione carducciana e nel vivo e inquieto sentimento dell'arte e della letteratura intese come mondi spirituali e morali. Direttamente dal Carducci proveniva ai due il gusto della critica come "lettura", che si traduceva nel D. in una posizione di programmatica irregolarità, di antiaccademismo, anzi nel sostanziale rifiuto del termine di "critico" per quello più modesto di "lettore".
Nel giugno del 1911 iniziò il rapporto epistolare con il Serra e il D. ne guadagnò subito l'amicizia e la stima: in una delle sue lettere il Serra faceva pubblicamente cenno a lui come a "un critico serio e robusto" e fu proprio il Serra che lo incoraggiò a scrivere e poi a collaborare alla Voce, restandogli sempre accanto come amico, ma anche esempio e guida. Il D. lavorò con serietà e passione alla Voce e, nonostante la giovane età, con il numero del 15 dic. 1914 ne assunse la direzione per voto unanime del consiglio, che accoglieva così la proposta del dimissionario Prezzolini (proposta sostenuta anche dagli interventi di Papini e Soffici). La Voce "bianca" (per il colore della copertina) assunse un carattere più critico e più spiccatamente letterario rispetto a quella "gialla" di Prezzolini. Esaurita la stagione dell'idealismo militante, l'arte si ripiegava su se stessa e la critica esplicava sul terreno dell'estetica quei valori morali che facevano di ogni pagina una compromissione personale e un'assunzione di responsabilità precise, nella consapevolezza e nella convinzione che la critica non potesse e non dovesse essere mai "disinteressata". Gli scritti vociani (anche se non solo quelli) del D., attentissimi alla contemporaneità e sempre improntati ad una vigoria di giudizio che, talora diventava anche animosità, sono un dialogo con se stessi, una ricerca delle proprie ragioni letterarie e morali. L'insegnamento del Serra si tradusse nel D. in un giudizio più fermo e si precisò in un'attenzione più concreta al dato stilistico, animata dal rispetto del testo, rispetto che aumentava quando si trattava di autori giovani o di contemporanei: "l'estetica diventa un'etica" (Luperini).
Gli scritti Collaborazione alla poesia, II, Carducci moderno (30 genn. 1915) e Saper leggere (30 marzo 1915) in questo senso sono programmatici: il critico non è un astratto osservatore ma partecipa dell'opera poetica e vi fa partecipare il lettore, anzi la fa rivivere sotto i suoi occhi. Anche se in misura meno accentuata rispetto al Serra, la critica derobertisiana resta comunque fortemente pervasa di autobiografismo e la ricerca del bello si fa in qualche tratto compiaciuto estetismo: la volontà di chiarezza sui luoghi della poesia (la "poesia pura") e della non poesia, diventa in alcuni casi privilegiato assaporamento di pochi versi e di poche terzine, quasi misticismo della parola. Il terreno privilegiato su cui si esercita una critica siffatta è infatti il "frammento", il giro breve e serrato dove si concentrano il massimo di intensità e di nitore formale e stilistico, dove il sentimento vibra all'unisono nel poeta e nel critico, originando una pagina intensa e lirica anch'essa, con periodi brevi, isolati, ritmata da un continuo interrogarsi e correggersi. La prosa critica si fa prosa d'arte. Sulla Voce derobertisiana trovano spazio le prime cose di autori che diverranno fondamentali per il Novecento italiano: Ungaretti, Campana, Bacchelli, Cardarelli e altri che conferirono non solo alla rivista ma a tutto il periodo un carattere "prezioso", di impegno squisitamente letterario e poetico, mantenendosi al di fuori di tutto quanto non fosse la ricerca del bello stile. La Voce del D. rappresentò, di fronte alla diaspora prezzofiniana, la fedeltà alla ricerca della poesia, lo scontento per l'estetica crociana, la reverenza per la serietà della cultura nella ricerca dell'opera d'arte (Garin). C'è chi ha negato l'esistenza della Voce letteraria, riducendola a "un titolo, una declinazione di temi e a una serie di collaboratori" riuniti soltanto dal nome e dall'attività del D. (Scalia). Anche se questa posizione può apparire troppo radicale, bisogna tuttavia riconoscere alla Voce "bianca" una certa eterogeneità e concludere che fu solo grazie all'opera infaticabile del suo direttore se la rivista continuò ad uscire regolarmente e mantenne un certo carattere unitario.
La direzione del D. continuò nominalmente fino a tutto il 1916 (anno in cui la rivista cessò le sue pubblicazioni), ma in realtà la sua collaborazione attiva si era esaurita con l'ultimo numero del 1915. Erano gli anni foschi della guerra e la tragica morte del Serra lo aveva colpito profondamente, anche perché egli sembra accogliere l'ipotesi del suicidio: fare poesia non sulla guerra ma in mezzo alla guerra, come aveva coraggiosamente sostenuto in precedenza, coltivare la poesia come impegno civile, combattere la propria battaglia sulla pagina se non al fronte, tutto questo non gli sembrava più praticabile. La decisione di abbandonare la Voce nacque proprio dalla consapevolezza dell'impossibilità di coltivare l'arte pura, lontana dalle incrostazioni e dalle contaminazioni del presente storico, senza deflettere dalla propria intima moralità. Questo gesto è da intendersi dunque come la constatazione del declino di un ideale, in un momento che preludeva al rondismo come ripristino dell'ordine nelle lettere. Nel 1917 il D. si laureò con una tesi su Salvatore Di Giacomo.
Chiamato alle armi all'inizio dell'anno seguente, partecipò alle ultime fasi del conflitto mondiale come sottotenente di complemento. Nel settembre del 1919 sposò Maria De Palma (da cui ebbe i figli Domenico e Maria Vita), trasferendosi a Bologna dove soggiornò per un breve periodo insegnando in un ginnasio e collaborando al Progresso. L'anno seguente tornò definitivamente a Firenze dove insegnò materie letterarie al conservatorio musicale "Luigi Cherubini", inizialmente come incaricato, poi in ruolo dal 1931. L'insegnamento comunque non interruppe gli studi che, anzi, si fecero più metodici e regolari e dei quali punto di partenza e continuo centro di riferimento diventavano Leopardi e Ungaretti. Di Leopardi preparò una scelta dallo Zibaldone, preceduta da una Introduzione (Zibaldone scelto a annotato, Firenze 1922) che costituì il primo nucleo del Saggio sul Leopardi (pubblicato prima come introduzione a G. Leopardi, Opere, Milano 1937, quindi come volume a sé, ripetutamente riveduto e accresciuto: Firenze 1944; ibid. 1946; ibid. 1960). Sono questi gli anni in cui preparò, in collaborazione con Pietro Pancrazi, alcune raccolte antologiche di prosa e di poesia destinate alla scuola (Poeti lirici dei secoli XVIII e XIX, Firenze 1923 e Le più belle pagine di V. Alfieri, Milano 1928), mentre continuava i suoi studi leopardiani che sfociarono nell'interpretazione dei Canti (Firenze 1927). Fu collaboratore e redattore di Pegaso (1929-33) e poi di Pan (1933-35), e venne chiamato a collaborare presso la casa editrice Le Monnier per la quale fondò e diresse la collana "Biblioteca di letteratura e d'arte". Per la stessa casa editrice aveva curato l'edizione delle opere di Poliziano (Le Stanze, l'Orfeo e le Rime, Firenze 1932) e, insieme con L. Ambrosini e A. Grilli, l'Epistolario di Renato Serra (ibid. 1934), seguito dalle Poesie di Parini (ibid. 1935). Per Vallecchi preparò il Fior fiore di A. Soffici (ibid. 1937). Su Ungaretti, superato un primo impatto (1919) che non lo aveva trovato particolarmente favorevole e riconosciutane poi la assoluta grandezza nel panorama della poesia italiana, intervenne a più riprese e nel 1945 curò a Milano l'edizione delle Poesie disperse, cui premise un importante saggio introduttivo (Sulla formazione della poesia di Giuseppe Ungaretti).
Di questa poesia il D. sottolineò "un certo classicismo trasparentissimo" e il ritmo interiore scandito dalla parola-silenzio, anzi restò talmente affascinato dall'azione di scavo operata dal poeta sulla parola che non mancò chi lo accusò di avere "ungarettizzato" tutta la letteratura italiana e di leggere qualunque poeta riconducendolo sempre ad un ideale di verso ellittico, frammentario e non finito (Russo). Sia pure con intento diverso, Adelia Noferi, allieva del D., si inserì in questo stesso solco quando sostenne che egli mutuò da Ungaretti la ricerca dell'assoluto, della verità in un'ansia continua di perfezione. A certo che con questo poeta intrattenne un rapporto intenso fondato sulla vivissima stima e sull'affetto fraterno, di cui si conserva traccia nel carteggio. È con la poesia postsimbolista francese e con quella di Ungaretti in particolare, che in Italia si cominciò ad avere un diverso approccio al testo poetico, con un'attenzione più precisa al fattore tecnico-espressivo, ai valori formali, in un'indagine tutta tesa al recupero della "parola" assoluta: è l'inizio - secondo d'Arco Silvio Avalle- della critica formalistica, che in Italia troverà solo molto più tardi compiuti sviluppi e più precise teorizzazioni. Questo tipo di analisi condusse anche ad un diverso rapporto con l'insieme del materiale poetico e il D., lavorando sulle varianti, ricostruì le diverse fasi della poesia, ne ripercorse la genesi, ne rivisse lo sviluppo, auscultandone i movimenti più segreti. Il fascino e la magia di questo pazientissimo lavoro vennero pienamente in luce negli studi su Leopardi, iniziati nel '22 e continuati per oltre un ventennio. Il gusto penetrante e intuitivo della lettura, lenta e assaporata, assorta nella meditazione della bellezza poetica, si arricchì e si amplificò nell'analisi delle varianti che concorrono quasi in praesentia l'una con l'altra a dilatare il piacere del verso. Nel loro esame il D. riconferma la sua insofferenza per ogni schema troppo vincolante che mortifichi l'individualità creatrice del poeta per appiattirlo all'ossequio di necessità che non siano solo quelle della sensibilità poetica, anche se col tempo questo si è rivelato l'aspetto più fragile del suo lavoro, come si può intendere dal cordiale dissenso che gli manifesta Gianfranco Contini proprio a proposito delle varianti di ASilvia.
Nel saggio del '37 il D., che nella lettura del Leopardi aveva maturato e perfezionato la sua stessa educazione, sciolse compiutamente il suo discorso critico: la sua prosa si fa "lettura totale", tesa a svelare l'intimità del suo poeta secondo modi nati dalla curva delle parole nel puro senso di valori e rapporti che alle più insistite interrogazioni si sostengono da ogni pagina (Anceschi).
Nel novembre del 1938 gli venne conferito l'incarico di insegnamento alla cattedra di letteratura italiana presso la facoltà di lettere di Firenze, quella stessa da cui Momigliano era stato allontanato in seguito alle leggi razziali. In quell'anno curò, con la collaborazione di A. Grilli, gli Scritti di R. Serra. Nel 1939 fu nominato professore ordinario di chiara fama, tenendo la sua prolusione sul tema Linea della poesia foscoliana: mentre uscivano i suoi Scritti con una noterella (Firenze 1939) e l'anno seguente Scrittori del Novecento (ibid.).
Fu poi per qualche tempo collaboratore del Corriere della sera. All'inizio del 1943 fu richiamato alle armi. Non aderì alla Repubblica sociale e nel febbraio 1944 fu arrestato dalla polizia fascista e rilasciato dopo qualche giorno. Dello stesso anno è il volume Studi (Firenze 1944). Gli anni successivi alla guerra lo vedono intento ad ampi studi su Manzoni, Foscolo e Ariosto, mentre non si affievoliva la sua frequentazione del Leopardi. Nel 1945 vide la luce a Milano l'Apparato critico, delle varianti de "L'Allegria", del "Sentimento", delle "Poesie disperse", con unostudio su Giuseppe Ungaretti. Manteneva una regolare collaborazione a riviste e giornali (tra gli altri al Tempo, alla Nazione e al Nuovo Corriere) per i quali scrisse soprattutto di letteratura contemporanea.
Nel febbraio del 1947 venne confermato nel suo ruolo di insegnamento universitario da una commissione ministeriale, in conformità con il provvedimento che sottoponeva ad un accertamento dei meriti effettivi quanti erano stati chiamati alla cattedra per chiara fama.
Offertagli la presidenza di un gruppo culturale intitolato a Renato Serra e fondato da Felice Del Beccaro e Arnaldo Pizzorusso, il 1º febbr. 1947 il D. tenne il discorso inaugurale. Nel 1949 uscirono a Firenze i Primi studi manzoniani e altre cose. Alla fine del '50 compì l'ultimo viaggio a Matera: nonostante se ne fosse allontanato giovanissimo, vi tornava spesso con il pensiero e considerava quella la "sua" terra, l'alma mater che continuava a vivere dentro di sé, diletta su tutte le altre.
Al termine dell'anno accademico 1957-58 lasciò l'insegnamento. Nel 1962 uscì, presso la casa editrice Le Monnier, Altro Novecento.
Il D. morì a Firenze il 7 sett. 1963.
Postumi videro la luce gli Scritti vociani, a cura di E. Falqui, Firenze 1967; Studi II, a cura di D. De Robertis, Firenze 1971; G. Ungaretti-G. De Robertis, Carteggio 1931-1962, a cura di D. De Robertis, Milano 1984.
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