COLPANI, Giuseppe
Nacque a Brescia nel 1739. Non si conoscono dati precisi relativi alla sua prima formazione anche se, probabilmente, compì gli studi nella città natale manifestando, fin dalla giovinezza una felicissima disposizione alla poesia. Tuttavia egli visse il periodo più maturo e più fertile d'attività a Milano, da dove si allontanò solo in età avanzata, per ritornare a Brescia, dove morì il 21 marzo 1822.
Proprio a Milano, infatti, strinse rapporti di amicizia con Pietro Verri e con il Beccaria, divenendo collaboratore del Caffè. Il contatto diretto con gli intellettuali che gravitavano intorno al giornale letterario rappresentò senza dubbio per il C. la possibilità concreta di avvicinarsi a quei movimenti di idee che tendevano a rinnovare dall'interno le strutture più importanti della vita civile, politica e letteraria.
L'impegno culturale del C. durante tale periodo si indirizzò essenzialmente verso l'attività letteraria, legata a temi concreti e rinnovata nel rifiuto della forma arcadica, pur nel rispetto di un canone assoluto di bellezza e di armonia. Ammiratore di Voltaire, dell'Algarotti, del Fontenelle, egli si colloca all'interno di una letteratura che risponde a un preciso intento didascalico-scientifico e che trova la ragion d'essere nell'accettazione del principio oraziano dell'insegnare dilettando e nello stesso tempo nella ricerca, tipicamente illuministica, di "concretezza" poetica, di un'equazione cioè tra verità scientifica e ipotesi letteraria, alla maniera algarottiana. Pertanto il suo impegno si realizza soprattutto nella forma del poemetto didascalico: La filosofia, Le comete, L'aurora boreale, sono opere in cui si nota un tentativo costante di sollevare la materia poetica oltre la misura di una forma classicheggiante attraverso il ricorso ad una tematica più vicina alla sensibilità illuministica. Tuttavia egli spesso non riesce a operare una sintesi armonica e oscilla così tra un riferimento manierato ai didascalici antichi, classici e rinascimentali, e un impegno scientifico che non va oltre i limiti di un'astratta esercitazione.
Ancora si può ricordare il poemetto L'Emilia e l'educazione delle donne, nel quale il C. sostiene la necessità di una migliore istruzione femminile entrando nel dibattito che si era aperto con la traduzione italiana del trattato del Fénelon del 1748 e che aveva visto gli interventi di numerosi intellettuali, fra cui Gozzi, Baretti, Verri, Trioli.
La figura del poeta-filosofo emerge più compiutamente nel poemetto L'amore, che appare caratterizzato da individuabili accenti di derivazione saviolana, soprattutto nella terminologia pastorale, nei frequenti richiami mitologici, nella attenzione a una forma molto ornata che si affida a una tecnica di costruzione progressiva, attraverso il sovrapporsi di immagini in sé concluse che creano comunque un vincolo di armonica continuità. Il poeta prende spunto da una "solitudine tranquilla" che unifica amanti e filosofi e che conduce, attraverso una "elegante e nobile tristezza" ad un "severo piacer". Da una mitica età dell'oro in cui "amore" e "mondo" costituivano due termini paralleli tra cui la vita umana scorreva il C. giunge alla proposizione di un enunciato di chiara derivazione sensistico-illuministica: "Ma come soglion nel cangiar de' tempi / Cangiar le cose e gli animi, e i costumi / degenerò dentro agli umani petti / dalla natia semplicitate Amore, / E la bella Natura arte divenne". Il C., dunque, parte dalla formulazione del concetto di "piacere" come momento primo di tensione per il conseguimento della bellezza e nello stesso tempo ipotizza i termini del contrasto. Infatti nel momento di attualizzazione nella sfera storica della categoria del bello assoluto si distanziano i due termini di natura, considerata come espressione incontaminata e quindi manifestazione di Perfezione e di amore, e di arte, legato all'idea di progresso.
Ancora di notevole importanza è il poemetto Il gusto, dove il poeta, partendo dalla identificazione del "bello" e del "giusto", afferma che ambedue hanno origine dalla natura. Infatti si manifesta "la vera natural bellezza" solo quando si risveglia all'improvviso "un delicato sentimento e vivo" che anticipa il momento del giudizio. La sensazione, dunque, con preciso riferimento alla poetica sensistica, precede il momento riflessivo e costituisce il principio incontrovertibile del riconoscimento del "bello estetico" in ogni settore artistico. Nella musica, per fare un esempio, ciò che l'uomo coglie è la "dolce melodia" e prima che "delle note volubili e fugaci / Le varie leggi a parte a parte intende". Così anche nel campo della scultura e dell'architettura "la vaga forma, che dal tutto nasce / Già l'occhio alletta e l'animo riempie". Il "bello estetico" dunque è tutto contenuto nelle espressioni della "eterna legge" della natura ed è riassumibile in un precetto assoluto. Attraverso un linguaggio poetico ricco di riferimenti storici, letterari, mitologici, il C. ripercorre con eleganza equilibrata e un verseggiare limpido e scorrevole la parabola ascendente e discendente del principio del gusto. L'analisi si ferma sul mondo greco ("prima sede, ov'egli sorse e crebbe") che vide lo sviluppo armonico di tutte le arti e dove il gusto "fiorì per lunga etate", finché la discordia civile non turbò l'equilibrio e "dai pensieri della vera gloria / Ad altre cure gli animi rivolse". L'eredità del mondo greco passò quindi a Roma che divenne la fedele interprete del "bello" fino alla morte del "grande Augusto" che segnò il periodo della ignoranza e della barbarie. Il C. prosegue poi con un excursus veloce attraverso i secoli, ricorrendo a numerose esemplificazioni per giungere fino ai contemporanei, e il testo si chiude con l'augurio che il gusto possa di nuovo trovare degna sede nella "ridente Italia".
Maggiore successo raccolsero le opere in cui appare una polemica a volte sfumata, a volte più intensa con il Parini. Così, per esempio, nel poemetto Il commercio, dedicato a Pietro Verri, il C. ribalta la fisiocratica visione pariniana dello scambio, visto come elemento negativo e segno della corruzione dei tempi, in contrapposizione all'immagine idillica della vita agreste che pone l'uomo in una condizione di naturale benessere. Egli, riproponendo le ipotesi del Verri, del Genovesi, di Voltaire, lo esalta invece come segno di progresso e possibilità di contatto tra i popoli e tra le regioni più civili d'Europa. In tal modo il C. mostra di aderire a quel dibattito intellettuale che vedeva in una oculata politica economica, che prevedesse l'unificazione dei mercati e quindi lo sviluppo del commercio e dell'industria, lo strumento primo per realizzare, attraverso la "ricchezza nazionale", la pubblica felicità.
Ancora un approfondimento di tale tematica appare nel poemetto La toletta dove si nota un preciso richiamo ai versi del Parini. Il C., infatti, respinge la visione della moda come "vezzosissima dea" e arbitra della vita e ne restituisce una valutazione positiva, in quanto favorisce, perfino nelle lontane terre della Cina e del Giappone, la fabbricazione di tutto quanto serve alla toletta della donna e del "cavalier servente". Pur non giungendo quindi alle tesi secondo cui il "bene di lusso" si trasforma in "bisogno di commodo", tuttavia ne sottolinea l'importanza, alla maniera del Genovesi, secondo cui il lusso altro non è che "un mezzo da propagare, perfezionare, sollecitare l'arti, lo spirito, e la politezza della nazione".
L'intera produzione del C. venne raccolta in sei volumi pubblicati a Brescia nel 1817, a cui si aggiunse un settimo edito nel 1824.
Bibl.: Nouv. biogr. gén., Paris 1855, ad vocem; D. Gnoli, Studi letter., Bologna 1883, p. 83; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1964, pp. 26, 44, 135; II, pp. 40, 101, 439; W. Binni, Il Settecento, in Storia della letter. ital., Milano 1968, p. 525.