CHIARINI, Giuseppe
Nato ad Arezzo il 17 ag. 1833 da Teodoro e da Leonilda Luchini (ma all'anagrafe Leonida), studiò presso il seminario cittadino ove il padre R. Pacini, insegnante del corso di retorica, lo avviò allo studio e all'amore dei classici. Trasferitasi la famiglia a Firenze nel 1850, prese a studiar filosofia presso il collegio di S. Giovanni Evangelista delle Scuole pie - correntemente detto di S. Giovannino -, dove studiava anche G. Carducci. Con questo il C. fu legato da profonda amicizia e stima fin dal 1855, quando E. Nencioni lo aveva presentato al Carducci divenuto intanto studente a Pisa presso la Scuola normale superiore.
Nel 1852, costretto da necessità economiche, il C. aveva ottenuto a Firenze il posto di apprendista nella Sopraintendenza generale alle II. e RR. Possessioni del granduca. Nello stesso impiego, dapprima alla sede di Arezzo e soltanto dal 1853 in quella di Firenze, era occupato il padre, di origine contadina, che nel 1833, alla nascita del figlio, era terzo copista nell'amministrazione economica idraulica dei beni della Corona in Val di Chiana. La carriera del C. negli uffici granducali proseguiva con la nomina ad aiuto registratore nel 1855, e a terzo commesso nel 1858, incarico che conservò anche per gran parte del 1859. Intanto, nel 1855, si era trasferito ad Arezzo per lavoro, ritornando a Firenze agli inizi dell'anno successivo. In questo periodo aveva pensato di abbandonare l'impiego per entrare nella Scuola normale superiore, ma ne era stato dissuaso dal Carducci. Nonostante le gravose incombenze del lavoro d'ufficio - oltre al giornale di amministrazione, doveva scrivere e copiare lettere dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio -, egli riuscì ad approfondire gli studi cui si era dedicato fin da quando era giunto a Firenze; e gli anni dal 1852 al 1859 furono densi di ricerche, di traduzioni dal greco e dal latino, di spogli linguistici, attività spesso condotte insieme con l'amico Carducci.
Dal 1856 al 1859 fiorì e si dissolse il sodalizio degli "Amici pedanti", tra il C., il Carducci, G. T. Gargani e O. Targioni Tozzetti, sorto dal fervore classicista, ellenizzante, patriottico e ferocemente antiromantico che animava e univa i quattro amici. I quali, per render note le loro idee, colsero l'occasione offerta dalla stampa di un volumetto di rime del livornese B. Bracci, Fiori e spine, seguite da una lettera di F. D. Guerrazzi che incitava l'autore a studiare le letterature straniere, in specie quelle tedesca, polacca, scandinava e russa.
Decisi a dar battaglia, pubblicarono l'opuscolo Di Braccio e degli altri poeti nostri odiernissimi. Diceria di G. T. Gargani a spese degli amici pedanti, Firenze 1856. La Diceria, scritta dal Gargani d'intesa con gli altri amici, suscitò violente reazioni (E Martini, giovanissimo, la definì, sul giornale umoristico fiorentino La Lente, la "su'diceria"), alle quali replicò il C. con una lettera aperta, Al Chiarissimo Signor Professore Antonio Gussalli alcuni amici pedanti, pubblicata ne La Rivista (n. 29 del 20 apr. 1856). Nella lettera al Gussalli, che era stato amico di P. Giordani, si affermava fra l'altro: "... i nostri principi son questi: il vero anzi a tutto, né tacerlo mai per qualsiasi rispetto, né mostrarci altri da quello che siamo". Nella polemica si distinse P. Fanfani per l'acredine posta nel non proibitivo compito di contrastare le acerbe argomentazioni dei quattro giovani amici. Questi, in risposta, pubblicarono la Giunta alla derrata Ai poeti nostri odiernissimi e lor difensori gli amici pedanti. Ai giornalisti fiorentini risposta di G. T. Gargani comentata dagli amici pedanti a spese degli amici pedanti, Firenze 1856, sulla quale il C. scrisse gran parte delle note al testo del Gargani inserendovi anche due sonetti, uno contro V. Hugo, l'altro contro A. Lamartine. I due brevi componimenti poetici confermavano l'avversione nutrita dal C. per le letterature e per gli autori stranieri, già manifestata in un articolo su Lo studio della lingua francese nell'adolescenza, pubblicato nell'Appendice alle letture di famiglia. Raccolta di scritti originali di educazione istruzione e ricreazione intellettuale(istruzione), II (luglio 1855-giugno 1856), Firenze 1855, pp. 707-717. Da siffatte opinioni peraltro il C. si riscattò ben presto così come dall'uso adottato di uno stile letterario derivato dal Giordani, considerato questo, insieme con G. Leopardi, il protagonista della rinascita delle lettere italiane. Il C. anzi, col trascorrere degli anni, studiò l'inglese e il tedesco riuscendo di quelle letterature egregio divulgatore.
Nel 1858 gli Amici pedanti decisero di fondare un mensile di studi, Il Poliziano; riuscirono nell'intento, ma della pubblicazione videro la luce soltanto sei fascicoli; dal gennaio al giugno 1859. La cessazione del periodico fu anche dovuta ai grandi eventi nazionali che premevano - il 27 apr. 1859 il granduca abbandonava la Toscana - e alla partenza del Gargani per la seconda guerra d'indipendenza. Il sodalizio, di cui il C. era stato animatore, ebbe così fine.
Nell'agosto del 1859, circa un anno dopo la morte di sua madre, il C. sposava Enrichetta Bongini, avendo per testimoni il Carducci e il Targioni Tozzetti. Dal matrimonio nacquero nove figli: Nella, Cino, Piero, Carlo, Leonilda, Caterina, Luigi, Bice e Dante (che recavano lo stesso nome di due figli del Carducci); gli ultimi due morirono l'una di appena un mese nel 1875, l'altro non ancora diciannovenne nel 1879. Dopo le nozze si trasferì a Borgo Imperiale e, sul finire del 1859, sollecitato da L. G. Cambray Digny, chiese di essere assunto presso il ministero dell'istruzione Pubblica del governo provvisorio di Toscana dove, con decreto del 25 novembre, fu nominato secondo commesso. Il 22 febbr. 1861, entrato nel ruolo amministrativo dell'Istruzione Pubblica del Regno d'Italia con la qualifica di segretario di seconda classe, il C. si stabilì a Torino, e tornò a Firenze soltanto nel 1865 allorché insieme con la capitale vi si trasferiva la sede del ministero. Le sue doti culturali e le qualità morali lo fecero ben presto apprezzare, e fu stretto collaboratore dei ministri M. Amari, L. Natoli, C. Correnti e D. Berti. Nel 1863, frattanto, gli era stata affidata la direzione della Rivista italiana di scienze ed arti colle Effemeridi della Pubblica Istruzione che, dopo il trasferimento a Firenze e la fusione con altri periodici, divenne L'Ateneo italiano. Giornale di scienze,lettere ed arti con le effemeridi del pubblico insegnamento, pubblicato fino a maggio del 1866.
Con decreto del 17 febbr. 1867 il C. fu nominato direttore del liceo "Niccolini" di Livorno dove, con delibera del comune, gli venne anche affidata il 25 febbr. 1868 la direzione del ginnasio. A Livorno fondò ed animò - insieme col Targioni Tozzetti che insegnava materie letterarie nello stesso liceo - il Circolo filologico, rapidamente impostosi come centro di promozione e di vita culturali, e vi diresse Il Mare. Gazzettino estivo, divenuto dall'ottobre 1862 Il Mare. Giornale letterario mensile. I diciassette anni trascorsi a Livorno - tranne il breve soggiorno ad Arolsen, in Sassonia, dove si recò nell'estate del 1866 per motivi di salute - furono di intensa operosità. Attratto da molteplici interessi, si dedicò alla ricerca erudita e allo studio dei classici, pur mirando nello stesso tempo al contatto con più ampie zone di lettori attraverso la pubblicazione di articoli su vari giornali; tra l'altro su La Nazione nel 1872 apparvero suoi scritti per caldeggiare Livorno come la sede più idonea ad ospitare la costituenda Accademia navale.
Si delineavano intanto i suoi orientamenti politici; democratico e anticlericale, il C. si affiliò alla massoneria, nella quale ascenderà al grado di 33 presso la loggia "Propaganda massonica" di Roma. Fu definito massone rigido ed esemplare, e le sue Memorie della vita di Giosue Carducci raccolte da un amico (Firenze 1903) sono dedicate ad A. Lemmi che della massoneria era gran maestro. Fervente repubblicano, il C. non si recò ad ossequiare Umberto I e la regina Margherita in visita a Livorno il 9 nov. 1878, al contrario di quanto aveva fatto il Carducci cinque giorni prima a Bologna. Della sua avversione alla monarchia resta anche la testimonianza di alcuni versi: In memoriam (Imola 1875).
I suoi incarichi, adempiuti con scrupoloso zelo, non ne limitarono l'impegno nel campo della letteratura. Conformandosi ai procedimenti del metodo storico, largamente affermatosi e congeniale alla sua stessa formazione, il C. si dedicò alla ricerca e alla pubblicazione di antichi manoscritti inediti. Non tralasciò peraltro i classici, e dopo aver curato la pubblicazione de Il Saggiatore di G. Galilei (Firenze 1864), presentò in edizione assai corretta, in tre volumi, I Paralipomeni, le Poesie e le Operette morali di G. Leopardi (Livorno 1869-1870). Nel 1868 intanto, dopo i primi saggi giovanili, aveva ripreso a scriver versi, quasi sempre dai fini moralistici e traendo non di rado lo spunto da avvenimenti di cronaca. Prima di dare alle stampe le rime era solito inviarle al Carducci per averne suggerimenti, ottenendone, e il più delle volte accogliendoli. Il Carducci stesso, d'altra parte, chiese spesso il parere del C. prima di pubblicare proprie opere, e si giovò sovente dei suoi consigli.
In una lunga lettera diretta al Carducci, posta a prefazione della raccolta definitiva delle proprie Poesie (Bologna 1903), il C. enunciò i suoi convincimenti sulla poesia e sulle sue finalità. Nel far ciò polemizzava cortesemente col Carducci, per affermare che quando si ammette che scopo dell'arte è la rappresentazione del vero - si ricordi la lettera al Gussalli al tempo degli Amici pedanti, - il poeta ha il diritto di far versi che sembrino prosa, distinguendosi questa dalla poesia soltanto per il metro o per il ritmo che l'autore ha ritenuto di adottare per raggiungere una maggiore efficacia. Per il C. hannovalidità poetica anche i versi che per loro intrinseca natura non possono sopportare "l'intonazione montata almeno di un grado su la prosa", come voleva il Carducci. Altro principio al quale costantemente si ispirò è che i libri "debbono proporsi di fare un po' di bene, o non hanno ragione di essere". Costretto entro gli angusti limiti di questi canoni, raramente il C. riuscì poeta. Molti suoi versi volti ad. esprimere e a suscitar sdegno contro le ingiustizie sociali appaiono fredde esercitazioni; avviene però talvolta di trovarvi squarci lirici, sorretti da una vena di autentica poesia che viene in soccorso di sentimenti e commozioni sempre sinceri. Gli accenti poeticamente più validi e intensi restano affidati alle pagine a lui ispirate dagli affetti familiari e dall'angoscia che gli procurò la morte dei figli. Qui, sopraffatto dal dolore ogni intento moralistico, la poesia sorge spontanea, in rime e ritmi che nella loro varietà sono mediata espressione della sofferenza ispiratrice, ed i versi si fanno commossi e commoventi. Il C. peraltro era giunto alle definitive conclusioni teoriche sulla poesia non senza contraddizioni; in un saggio su Percy Bysshe Shelley, apparso prima in Nuova Antologia (16 luglio 1879, pp. 258 ss.) e più tardi inserito in Ombre e figure (Roma 1883), aveva affermato che, ponendo in versi più o meno ritmici o rimati la realtà della vita, si può riuscire a scriver versi o strofe, ma non a fare poesia.
Dopo la pubblicazione delle Odi barbare del Carducci il C. intervenne nell'aspra polemica suscitata da quella raccolta con l'ampio saggio I critici italiani e la metrica delle Odi barbare. Discorso di G. Chiarini (Bologna 1878).
Il saggio, ben articolato, offre una dettagliata testimonianza della polemica. Il C. non soltanto pone in luce l'inconsistenza e la superficialità delle critiche mosse al Carducci, ma con argomentazioni convincenti sostiene che le Odi barbare avevano recuperato alla poesia italiana forme e ritmi che le erano tradizionali e nei quali il Carducci aveva saputo infondere nuovo sentimento.
Ancora al periodo livornese appartengono le traduzioni da E. e R. Browning, da A. Tennyson, da A. C. Swinburne, da W. Wordsworth, da P. B. Shelley, e soprattutto da H. Heine, del quale fu interprete sensibile riuscendo felicemente a renderne lo spirito e gli umori. Nel 1882 intanto, dopo un decennio di lavoro, pubblicava l'edizione critica delle poesie di U. Foscolo, restituendo un testo filologicamente emendato dalle intrusioni operate da precedenti curatori.
Nel 1883 una nuova polemica agitava il mondo letterario italiano, e a suscitarla fu il C. che nella prefazione alla sua traduzione delle poesie di H. Heine aveva lanciato una violenta invettiva contro G. D'Annunzio, del quale era apparso Intermezzo di rime.
Proprio il C., in un articolo pubblicato nel Fanfulla della domenica del 2 maggio 1880, aveva per primo presentato al pubblico il giovanissimo D'Annunzio autore di Primovere, si era poi intrattenuto in corrispondenza con lui, lo aveva ricevuto e gli era stato prodigo di consigli. I documenti essenziali della polemica - nella quale intervennero E. Nencioni ed E. Panzacchi in garbata anche se non totale difesa del C., e F. Lodi a sostegno del D'Annunzio -, sono raccolti nel volumetto - sommarughiano Alla ricerca della verecondia (Roma 1884), dove peraltro, poiché vi furono inseriti soltanto scritti editi, non è traccia di due lettere che il Carducci indirizzò al Lodi e al C. nelle quali mostrava di condividere pienamente la sostanza delle critiche avanzate dal C. stesso (G. Carducci, Epistolario [ed. naz.], XIV, n. 3115, p. 174; n. 3125, p. 183). La polemica, se colse un nodo fondamentale nelle vicende dell'arte e del costume, non servì né a scioglierlo né a districarlo. Il C., cui preparazione culturale e buon gusto non difettavano, muoveva dal preconcetto che un'opera non fosse bella se non fosse apprezzabile anche sotto il profilo morale, e che il giudizio positivo su uno scrittore non potesse prescindere dalle qualità dell'uomo. Questa posizione preconcetta, se rifletteva stimabili doti di rigidezza di carattere, di austerità di costumi, di inflessibile senso della moralità, limitava il C. sul piano del giudizio estetico e storico. La polemica antidannunziana, sulla quale tornò talvolta, ne offre l'esempio più evidente.
Nel 1884 il C. si trasferì a Roma, dove era stato nominato preside del liceo "Umberto I". Qui, dopo aver rifiutato nel dicembre la direzione della Domenica letteraria, che A. Sommaruga, tramite il Carducci, gli aveva offerto con promessa di cospicuo compenso, assunse quella di un nuovo settimanale, La Domenica del Fracassa. Allorché il 15 febbr. 1886 se ne dimise per altri impegni di lavoro, la proprietà decise di cessarne la pubblicazione.
Dal 1885 al 1886 ebbe l'incarico dell'insegnamento di letterature moderne alla facoltà di lettere dell'università di Roma, e nei due anni successivi quello di letterature moderne comparate. Rassegne e saggi relativi alle letterature straniere il C. pubblicò sulla Nuova Antologia, della quale fu assiduo collaboratore essendovi apparsi, dal 1877 al 1907, oltre cinquanta suoi scritti. Nel 1889 poi, insieme con R. Bonghi e altri, promosse la costituzione della Società Dante Alighieri che, proponendosi la diffusione della lingua e della cultura italiane all'estero, si inseriva nel contesto di motivazioni irredentiste, e ne redasse il Manifesto agli italiani (luglio 1889), destinato a far conoscere all'opinione pubblica gli intenti della società. Nel 1892 F. Martini, divenuto ministro della Pubblica Istruzione, volle presso di sé il C., che ebbe nel 1893 il grado di capodivisione. Nel 1894 e 1895 egli ebbe, rispettivamente, la nomina a ispettore generale e a ispettore capo; dal 1896 al 1901 infine divenne direttore generale per l'istruzione secondaria classica e tecnica, tranne nel 1900 quando resse la direzione generale per l'istruzione superiore e le biblioteche.
Sulla base di una larga esperienza acquisita nel campo della scuola, sia come preside sia come alto funzionario, propose l'istituzione di una scuola unica - della durata di tre o quattro anni - che seguisse agli studi elementari e da cui si accedesse alla scuola classica, a quella scientifica o a quella professionale, a seconda delle attitudini. Chiedeva che si abolisse lo studio del latino nelle prime classi del ginnasio, introducendovi invece quello dei diritti e dei doveri del cittadino; che si rendesse facoltativo nella scuola classica lo studio del greco, rendendovi obbligatorio l'insegnamento delle lingue moderne; auspicava inoltre l'accesso all'università anche per gli studenti provenienti dalle scuole ad indirizzo scientifico, ritenendone assurda la esclusione per non aver studiato il latino. Si batté infine per un più equo stato giuridico degli insegnanti: per la valida opera svolta in loro difesa, G. Pascoli lo chiamò "nostro buon protettore".
Nel 1900 assunse la direzione della Rivista d'Italia. Nell'estate del 1901N. Nasi, divenuto ministro della Pubblica Istruzione, riformò l'ordinamento dell'amministrazione centrale, abolendo la direzione generale per l'istruzione superiore e le biblioteche e quella dell'istruzione secondaria classica; in conseguenza di ciò il C. fu collocato a riposo. Si dedicò allora interamente ai suoi studi letterari. Oltre alle ricordate Memorie della vita di G. Carducci del 1903, uscirono La vita di Giacomo Leopardi (Firenze 1905), e postuma La vita di Ugo Foscolo (ibid. 1910), a cura del genero G. Mazzoni, ma dal C. pressoché interamente ultimata.
Sono opere di ampio respiro, nelle quali le ricerche minuziose si fondono in una prosa viva e agile pur di vario livello, e sono ancor oggi utili per la accurata informazione e documentazione. Specie le Memorie sulla vita del Carducci, che utilizzano spesso notizie e ricordi diretti, e che contengono interessanti elementi autobiografici, si snodano con una esposizione spedita, col piglio sicuro di chi rievoca avvenimenti dei quali è stato quasi sempre partecipe e talvolta protagonista. Nella biografia del Leopardi, che coronò lunghi anni di studi appassionati, il giudizio obiettivo - nessun appiglio di carattere etico poteva qui offuscare la serenità del critico - si accompagna al risultato delle pazienti indagini sui manoscritti leopardiani. La vita del Foscolo, pur nella sua informazione rigorosa, è inficiata dai criteri moralistici del giudizio critico del C.: la genialità del Foscolo, il suo mondo poetico, l'ambito culturale e politico nel quale visse e operò non hanno perciò sufficiente caratterizzazione.
Nel 1907 la salute del C. cominciò a declinare. Morì a Roma il 4 ag. 1908.
Fonti e Bibl.: Per la carriera del C. negli uffici granducali in Toscana si vedano i volumi dell'Almanacco toscano dal 1853 al 1859; per le notizie sugli incarichi avuti nell'ambito dell'amministrazione dello Stato, fino a quando rimase a Livorno, si veda il fascicolo personale presso l'Arch. centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione,Personale, busta n. 430; per il periodo in cui fu funzionario del ministero, cfr. i voll. del Calend. gener. del Regno d'Italia. Ampio ma non sempre dettagliato, però con la completa e accurata bibliografia del e sul C., è A. Pellizzari, G. C.: la vita e l'opera letter., Napoli 1912. Per gli scritti del C. è ancora utile la bibliografia di A. D'A. [Alessandro D'Ancona], in Rass. bibliogr. della lett. ital., XVI(1908), 10-12, pp. 345 ss. Un interessante apparato bibliografico comprendente anche gli scritti sul C. e gli epistolari è posto al termine dell'ottimo saggio di E. Caccia, G. C., in Letteratura italiana,I Critici, I, Milano 1969, pp. 661-686. Sulla collab. data dal C. alla Nuova Antol., cfr. Indiceper autori e per materie della Nuova Antol. dal1866 al 1930, a cura di L. Barbieri, Roma 1934, pp. 62 ss. Sul sodalizio degli Amici pedanti si veda O. Bacci, G. Carducci e gli "amici pedanti", in Rass. contemporanea, I (1908), 6, pp. 449-477; M. Parenti, Gli amici pedanti visti da un bibliofilo, Firenze 1950; V. Schilirò, Il romanticismo e gli amici pedanti, Bronte 1912. Sul C. e la massoneria, oltre alle notizie riportate in A. Luzio, La massoneria e il Risorg. italiano, Bologna 1925, II, pp. 212, 220, 227, potrà essere consultata la Commemorazione dei Fratelli defunti(10 apr. 1909).Discorso pronunciato nel gran Tempio di Pal,Giustiniani dall'ill. F. Achille Levi, in Rivista massonica, XL (1909), 7-8, pp. 148-156; sul manifesto della massoneria in occasione della morte del C. si veda La Tribuna del 7 ag. 1908. Interessanti notizie relative alla vita e all'opera del C. emergono, infine, dalle lettere che gli indirizzò il Carducci, per le quali si rimanda all'edizione nazionale. Fra i lavori dedicati al Carducci, dove più ampiamente sono esaminati i suoi rapporti col C., specie da giovani, è da citare A. Evangelisti, Giosuè Carducci col suo maestro e col suo precursore, Bologna 1924. Lemalevole congetture ivi contenute nei riguardi delC. sono state ampiamente confutate nella dettagliata e documentata recensione che ne fece F. C.Pellegrini, in Giorn. stor. della lett. ital., LXXXV(1925), pp. 339 ss.