CANOFARI, Giuseppe
Nacque a L'Aquila nel 1790 dalla famiglia dei baroni di Santa Vittoria. Il padre Francesco era stato un alto magistrato al servizio dei Borboni di Napoli. Dopo aver compiuto gli studi di diritto il C. intraprese, sulle orme paterne, la carriera nella magistratura napoletana, fino a divenire, tra il 1830 e il 1831, membro della Consulta generale del Regno.
Il Rivera lo giudica in tale attività "non degenere dal padre" e afferma che pervenne alle cariche "più onorifiche e delicate". Il De Cesare lo ricorda come uomo dal carattere angoloso, austero e pieno di sé, dalla mentalità poliziesca, di buona "penetrazione", amante della vita agiata.
L'impegno che mise nel suo ufficio e la sicura competenza ebbero riconoscimento dal re Ferdinando II. Il C., infatti, nel marzo 1836 fu trasferito nei ranghi della diplomazia come aggiunto di legazione. Nel 1840 venne inviato a Londra, al seguito del principe di Castelcicala, per risolvere col governo britannico una controversia sugli zolfi. Nel 1847 fu nominato segretario di seconda classe e inviato, con tale funzione, a Londra nel febbraio dell'anno seguente. Nell'ottobre 1851 fu promosso per breve tempo incaricato d'affari a Madrid. In questi anni ebbe modo di distinguersi per gli assidui rapporti al governo, maturando pure l'esperienza necessaria a compiti più impegnativi. Nel maggio 1852 venne richiamato a Napoli e messo a disposizione. Nel luglio dello stesso anno fu inviato come incaricato d'affari alla corte piemontese. Torino resterà la tappa più importante della sua attività diplomatica, ma anche la più difficile, ove si consideri che in quegli anni maturarono i destini diversi del Regno sabaudo e di quello borbonico.
Alla corte di Torino, ossessionato dall'idea fissa dell'insidia piemontese, il C. svolse un assiduo lavoro, inviando a Napoli una gran massa di rapporti, i più di sapore poliziesco, sull'attività dei fuorusciti napoletani, attirandosi così l'odio di quella emigrazione in Piemonte.
Nel seguire la politica estera piemontese di quegli anni, il diplomatico napoletano quasi mai riuscì a penetrarne le motivazioni e i fini.
Indagò, ad esempio, nel luglio 1858, sullo scopo del convegno di Plombières con molta diligenza, ma, nel riferirne al suo governo, finì per minimizzarne l'importanza. Nel novembre dello stesso anno annunciò che il Cavour faceva circolare voci di una guerra all'Austria per la primavera seguente; raccolse notizie sull'imminente discorso d'apertura della Camera subalpina, ma personalmente restò convinto di "una conservazione indubitata della pace"; né dette il giusto peso politico-diplomatico al matrimonio di Clotilde di Savoia con il principe Napoleone Bonaparte, cugino dell'imperatore Napoleone III; sicché, quasi sorpreso dall'inizio delle ostilità fra l'Austria e i Franco-piemontesi, poté soltanto annunciare la neutralità del suo Stato.
Anche con l'avvento al trono di Napoli di Francesco II, che nessun mutamento portò nei quadri della diplomazia borbonica, il C. rimase al suo posto e più chiara gli fu la valutazione degli avvenimenti successivi.
Avvertì la fase decrescente del favore napoleonico per una restaurazione murattiana a Napoli e la posizione inglese contraria ad ogni intervento straniero in Italia; segnalò, già nel settembre 1859, le intenzioni di Garibaldi per una spedizione in Sicilia e fece al riguardo rimostranze al Cavour per le "mene" piemontesi; parve tranquillizzarsi solo quando il Dabormida lo assicurò che non ci sarebbe mai stato un tentativo garibaldino appoggiato dal governo sardo. Registrò con amarezza, nel novembre 1859, il fallimento del tentativo della diplomazia napoletana di impedire le annessioni nell'Italia centrale; riferì sul colloquio avuto a corte con Vittorio Emanuele II, al ricevimento del nuovo anno 1860, in cui il sovrano aveva espresso riserve sull'utilità del congresso auspicato dal Regno di Napoli e per contro aveva giudicato possibile una nuova guerra; suggerì al suo governo di lanciare l'idea di un Regno dell'Italia centrale per contrastare le mire piemontesi su un'eventuale espansione nelle Marche e nell'Umbria; protestò nuovamente col Cavour per la tolleranza mostrata nei confronti dei fuorusciti napoletani.Promosso frattanto, il 17 genn. 1860, inviato straordinario e ministro plenipotenziario, il C., all'atto della partenza dei Mille, denunziò il fatto con energia al Cavour, invitandolo a inviare navi da guerra sulle tracce dei piroscafi garibaldini. Rinnovò la protesta quando Garibaldi proclamò di aver assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II. Mentre la posizione dei diplomatici napoletani a Torino era diventata difficile a tal punto che lo stesso Cavour lo pregò di assentarsi dalle cerimonie ufficiali, il C., ancora fiducioso, si adoperò, agli inizi di luglio, per far accogliere una missione straordinaria inviata da Napoli per compiere un tentativo di alleanza col Piemonte. Il 28 luglio 1860 egli fu trasferito e accreditato presso la corte di Parigi. L'11 ott. 1860 un decreto dittatoriale garibaldino lo destituì dal servizio, ma il C. continuò a prestare fedelmente la sua opera al sovrano borbonico sia nel ministero di Gaeta sia in quello costituito in esilio, reggendo prima il dicastero degli Esteri, poi quello della Giustizia. Operò per la restaurazione: ebbe contatti con agenti borbonici e frequenti colloqui col ministro degli Esteri francese. Quando poi furono chiuse le legazioni all'estero dall'esule Francesco, il C. rimase a Parigi a vita privata, "bene accolto nel mondo legittimista per il suo carattere elevato e sicuro" (cfr. Thouvenel).
Nella capitale francese morì tragicamente il 19 sett. 1872, buttandosi, nel tentativo di salvarsi, da una carrozza che rovinava a briglia sciolta in piazza della Concordia. Fu commendatore dell'Ordine di Francesco I, di S. Ludovico di Parma, di Carlo III, cavaliere dell'Ordine costantiniano e ufficiale della Legion d'onore.
Sul C. un duro giudizio espresse il De Cesare, il quale lo definì un tipico esemplare di quella diplomazia napoletana, che nascose la propria impotenza "dibattendosi fra uno scetticismo convenzionale e una certa aria di petulanza, studiosa solo di non incorrere nelle disgrazie del re con l'attenuare le difficoltà o giudicandole con inverosimile leggerezza". E aggiunse che il C. non capì quanto maturava in quegli anni, né seppe penetrare il pensiero di Cavour. Il che invero non fu cosa facile neanche per politici di ben altra tempra. Più equanime il giudizio dello Zazo, che ne ha rivalutato l'attività successiva alla seconda guerra d'indipendenza.
Fonti e Bibl.: I documenti diplomatici italiani, s. 1, I, 8 genn-31 dic. 1861, a cura di W. Maturi, Roma 1952, pp. 297, 369; L. Thouvenel, Le secret de l'Empereur, II, Paris 1889, p. 482; G. Rivera, Memorie biografiche degli scrittori aquilani trapassati dal 1828 al 1892, L'Aquila 1898, pp. 42 s.; R. De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello 1909, I, pp. 66, 105, 218; II, pp. 12, 343 ss.; P. Calà Ulloa, Un re in esilio, Bari 1928, pp. 142, 170 s.; A. Zazo, La politica estera del Regno delle Due Sicilie (1849-1860), Napoli 1940, pp. 5-7, 36-39, 84, 155, 165 s., 195 s., 267, 284-286, 305, 316, 343, 421; R. Moscati, Il ministero degli Aff. Esteri (1861-1870) Milano 1961, p. 92; R. Mori, La questione romana 1861-1865, Firenze 1963, pp. 479 s.; Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone,Inventario sommario, I, Roma 1961, ad Indicem;II, ibid. 1972, adIndicem.