CAMPI, Giuseppe
Nato a San Felice sul Panaro (Modena) il 29 sett. 1788 da Gaspare, facoltoso possidente terriero, e da Francesca Piombini, di nobile famiglia della limitrofa Cento, crebbe in ambiente conformistico e semireazionario, fino al progressivo risveglio napoleonico e antinapoleonico. Nonostante il suo non mai smentito cristianesimo, peraltro più deistico-illuministico che non propriamente cattolico-controriformistico (e tanto meno gesuitico), nonostante la sua propensione per l'umanesimo della scuola (e i successi scolastici nelle accademie locali), non mostrò mai desiderio od inclinazione per la vita ecclesiastica, che pur era la via tradizionale per un'esistenza dedicata agli studi; ed è un fatto notabile che, nonostante la sua propensione all'umanesimo, al classicismo e alla poesia, e nonostante il suo costante commercio con Dante e i classici della nostra letteratura, il C. studiasse, pur senza addottorarvisi, giurisprudenza a Bologna: finché la morte del fratello maggiore Cesare, caduto all'assalto del forte di Roxas in Catalogna, combattente dell'armata napoleonica (1808), non decise indirettamente, del suo destino. Per sottrarsi, difatti, alla coscrizione, che la morte del fratello rendeva per lui inevitabile, il C. si diede allo studio delle matematiche e si guadagnò così l'ammissione alla scuola modenese di artiglieria e genio, cui fu iscritto nel settembre del 1809. Ne uscì col grado di sottotenente di artiglieria e nel 1812 entrò, da tenente, nella 19ª compagnia d'artiglieria a piedi (lo scrisse il C. medesimo nel suo stato di servizio), "con l'incumbenza d'armare Peschiera; ed ottenne per ciò una Spada d'onore dal Viceré". L'8 febbr. 1814 partecipò con onore alla battaglia del Mincio, ma fu tosto licenziato dai reduci Austriaci e, rientrato in patria, ebbe dal restaurato duca di Modena un'annua pensione (con decorrenza 1º ott. 1814) di L. 34,54 mensili. Non mancò di rispondere all'appello di compagni ascrittisi alla carboneria e successivamente a quello del Murat, ma ne fu tosto deluso. Si restituì alla vita privata e, mentre intraprendeva l'insegnamento della filosofia, studiava per essere abilitato ingegnere civile ed esercitar la professione di perito agrimensore (1818). Nell'aprile del '19 ebbe inizio la sua attività editoriale-letteraria, perché chiamato a Padova "direttore della Tipografia e Fonderia della Minerva" (nel qual posto rimase fino al 1825 e gli successe Luigi Carrer). Singolarmente importante questo periodo della vita del C., che nel '22, od ancor prima, conobbe in Padova il Tommaseo (col quale e con le cui intraprese vocabolaristiche rimase poi sempre legato) e curò (di nome, in triumvirato con Fortunato Federici e Giuseppe Maffei, in realtà quasi solo) l'edizione del Dante della Minerva (uscito in Padova per i tipi della Minerva, appunto nell'anno 1822. I cinque volumi comprendono le tre cantiche della Divina Commedia, un quarto volume di rimario e spogli, e un quinto biografico, corredato di varie monografie illustrative, l'elenco delle edizioni a stampa del poema, ecc.). L'opera, dedicata al Monti come a restauratore dello studio di Dante (con allusione non alle forme metriche o allo stile del Monti, ma all'opera critico-filologica sua e di suo genero Giulio Perticari), si presentava come un ampliamento e rielaborazione del commento di padre Baldassarre Lombardi. In realtà, pur nel suo carattere prevalentemente compilatorio, e arieggiante le contemporanee o settecentesche edizioni dei classici cum notis variorum, fu opera nuova ed egregia, la cui utilità e il cui valore furono esplicitamente riconosciuti dallo stesso non benevolo e "concorrenziale" Tommaseo.
Il C., d'altronde, quant'era "filologo", nel senso di spulciatore e citatore di antiche scritture, epperò assai meglio d'altri capace d'intendere, e di far intendere storicamente, la lingua di Dante, altrettanto sentivasi alieno dal tipo del letterato da tavolino. Non considerò mai le lettere, se non per necessità o per bisogno, una professione pratica; e fin dagli anni veneti affiancò alle lettere l'ingegneria forestale. Onde in una memoria del 1856, rivendicando la sua "qualità d'agronomo", ricordava: "Molte paludi ridussi felicemente a risaie nelle valli di Aquileja e di Concordia, molte nel grande Stabilimento agrario della Società Rossi e Carminati di Venezia, sito nelle basse pianure di Palmanova; molte, finalmente, nella gran tenuta del sig. Conte Alvise Dr. Mocenigo, che giace nel distretto di Portogruaro" (cfr. Cerretti, p. 19).
Rientrato nelle sue terre di San Felice, per rassestare il patrimonio fortemente assottigliato, e mentre lavorava a un poemetto satirico (inedito) in due canti, La noieide, entrò in relazione di amicizia e di affari con la celebre cantante modenese Luigia Boccabadati, della quale aveva celebrato in versi, fin dall'anno 1822, i meriti artistici. Ne divenne l'impresario e segretario, accompagnandola anche in viaggi a Napoli, a Roma e a Firenze fra il 1829 e il 1830. A Napoli conobbe il Puoti, e, se rifiutò la collaborazione al dizionario del Tramater, prese, tuttavia, contatto con vari elementi del liberalismo letterario meridionale. Fallito per gli eventi politici il progetto di seguir la Boccabadati a Parigi e a Londra, il C. rientrò nella quiete operosa della letteratura occasionale e delle cure domestiche (donde, appunto nel 1830, i versi nuziali alla marchesina Luisa Greco, sposa del nobile Luigi Ferrari-Corbelli, e l'opuscolo, indirizzato alla madre della sposa, la contessa Beatrice Cicognara in Greco, Degli uomini illustri e dei conti Greco della Mirandola, Modena 1830, in cui abilmente conserta con la storia culturale della Mirandola e dei suoi signori la storia della famiglia, originariamente ferrarese, dei Greco).
A gennaio del 1831 il C. fu, peraltro, sollecitato da Ciro Menotti, che personalmente non conosceva, ma di cui gli erano note le idee politiche e le fatali entrature a corte nonché l'intrinsichezza con E. Misley, a partecipare all'agitazione che repentinamente sboccò nel moto del 3 febbraio. Il C., che aveva provveduto a raccogliere armi e ad arruolare uomini, vi si comportò da valoroso; ferito non lievemente il primo giorno (e incapacitato, perciò, di essere presente alla sottoscrizione dell'atto di decadenza il 9 febbraio), ebbe dal governo provvisorio il grado di capitano d'artiglieria e comandò varie azioni di guerriglia fino alla ritirata e al combattimento di Rimini, frustrato, per lui e gli altri uomini agli ordini del generale Zucchi, dalla capitolazione di Ancona. Imbarcatosi sull'"Isotta" con un centinaio di altri profughi modenesi e pontifici, tutti muniti di regolare passaporto per l'espatrio chi in Francia chi a Corfù, al largo di Fermo e di Ascoli fu catturato con i compagni il 30 marzo dalla goletta austriaca "Enrichetta" al comando del capitano Bandiera.
Tradotti nelle carceri di Venezia, i prigionieri subirono lunga detenzione e pesanti interrogatori, soprattutto importando all'Austria di conoscere la parte e la responsabilità di Francesco IV nella cosiddetta congiura estense e nell'insurrezione del febbraio. Il C., che aveva assunto il nome di Ippolito Prediali (ma fu tosto scoperta, né da lui punto negata, la sua identità), fu interrogato il 13 luglio, il 30 agosto e il 26 sett. 1831; e si difese abilmente, non solo riducendo la responsabilità propria nei fatti del 3 febbraio e contestando all'Austria il diritto d'inquisire, e tanto meno di giudicare, un cittadino straniero, ma insistendo sulle vere o presunte intese di Ciro Menotti col duca e sul carattere, pertanto, in ultima analisi costituzionalistico-legalitario d'un movimento che mirava ad estendere i domini di Francesco IV dal Po ai confini del Regno di Napoli.
Profittò della prigionia nel carcere veneziano di San Severo per dare sfogo alla propria animosità contro il duca, protagonista d'un poema, eroicomico-satirico-politico, in terzine dantesche, epperò in XXXIII canti (il C. non ne ritrovò successivamente fra le sue carte se non i primi XXVII), la Checcheide. Dall'inedito manoscritto il C. medesimo trasse (e indirizzò con lettera da San Felice del 18 maggio 1848 al direttore della modenese Italia centrale, dott. Giovanni Sabbatini, che tosto lo pubblicò "nel giorno anniversario del supplizio di Ciro Menotti e Vincenzo Borelli") un frammento, anche letterariamente punto spregevole, e quasi precorrimento del miglior Aleardi, sull'impiccagione di don Andreoli (cfr. Cerretti, pp. 6-9). Curioso è pur l'impasto stilistico, lavorato su Dante e sull'Ariosto (né senza frequenti echi della Commedia), mentre il fondo è tipicamente ottocentistico-romantico.
Il 31 maggio 1832 il C. e i suoi compagni di prigionia vennero, finalmente, imbarcati a Venezia sulla "Medea", sempre al comando del capitano Bandiera, e tradotti, dopo varie traversie, a Tolone: donde il C. poté l'anno seguente, sembra per l'interessamento della Boccabadati né senza l'intervento autorevole del Sismondi, sistemarsi a Parigi.
Qui fu beneficamente operoso in favore degli altri profughi e degli studi italiani. Fedelissimo a quelli, vivi e morti (onde compose pietose epigrafi per la Enrichetta Bassoli Castiglioni, morta nel carcere di Venezia, e per Luigi Tabboni, deceduto improvvisamente a Moulins, proprio allorquando il C. era riuscito a ottenerne il libero trasferimento a Parigi), sacrificò in prestiti, anticipi e donativi (dei quali profittò, serbandone grata memoria, anche il Tommaseo) il non molto che gli perveniva dalle sue terre e il pochissimo che si guadagnava con lavori letterari: spoglio (e pubblicazione) d'antichi testi italiani in codici parigini, esame e riordinamento della biblioteca del cardinal Mazzarino, giunte per la Crusca e a commenti danteschi, ecc. Testimonianza autorevole della sua modestia e generosità negli anni dell'esilio comune in Parigi offre il Tommaseo nel Diario intimo e nelle sue lettere a Gino Capponi (la prima delle quali in appoggio a un invito del C. alla Crusca di accogliere le settemila giunte dantesche agli spogli e citazioni dell'Accademia, nel mentre si riservava di usar eventuali suoi introiti o il compenso dell'Accademia medesima per recarsi in Inghilterra a collazionare codici danteschi).
Pratico del francese, il C. assisté il Delecluze nella traduzione della Vita nova, collaborò col Le Bas (e ne tradusse la terza edizione del Compendio di storia romana), ebbe contatti con l'editore Didot e tradusse altresì dallo spagnolo la Geografia della Venezuela del quasi conterraneo Agostino Codazzi (sperando gliela stampasse l'Antonelli a Venezia). Nell'aprile del 1842, rifiutate altre offerte editoriali-letterarie da Venezia e Firenze, accettò, invece, amicatosi re Carlo Alberto (e sempre più inchinevole al sabaudismo), l'invito del Pomba: e fu a Torino "alli servigj della Casa Pomba in qualità di collaboratore alla prima Enciclopedia". Presto se ne staccò, tuttavia, e intraprese, per la casa editrice Botta-Vaccarini, la versione dell'Histoire du Consulat et de l'Empire di Adolphe Thiers. Ma il primo foglio fu tanto conciato e castrato dalla censura che l'editore non ebbe l'animo di continuare: e lo stesso censore piemontese, Domenico Promis, consigliò al C. d'intendersi, per la continuazione dell'opera, con la ditta Massa e Repetti, proprietaria della Tipografia elvetica di Capolago. Il C. vi si trasferì sul finire del 1843. I primi volumi uscirono con la data del 1845; complessivamente i volumi del Thiers editi a Capolago furono undici, mentre i successivi poterono stamparsi a Torino, fino al ventiquattresimo ed ultimo, nel 1862. Il Thiers elogiò la versione, giudicandola tra le miglion di quante erano toccate alla sua Storia. E fu anche, per il C., una vittoria politica, in quanto nel suo stato di servizio ricorda "che i Gesuiti impedirono si stampasse a Torino" questa sua meritoria fatica. Alla quale contemporaneamente affiancò la traduzione dell'Histoire de la Réformation di J. H. Merle d'Aubigné per i tipi del Bonamici, a Losanna.
Il '48 (scrisse in una sua del 1860)"fui alle barricate di Milano, e poscia nominato Capitano sopraintendente d'artiglieria. Ma veggendo ch'ivi nulla si operava... corsi a Modena a sollecitarvi l'unione al Piemonte". Avverso forse già allora (e più per la successiva sua esperienza svizzera) al federalismo di Cattaneo e Ferrari, mentre i concittadini lo nominavano direttore dell'Archivio segreto degli Estensi, il C. subito propugnò la fusione col Piemonte, anche e soprattutto per poter contare contro duchisti e sanfedisti superstiti sull'efficace presenza repressiva delle truppe regie. Se, ancor prima del rimpatrio, stampò anonimo un opuscolo poetico L'Anno 1848. Pensieri di un esule italiano (Capolago 1848), probabilmente dedicato a Giacomo Ciani, si adoperò senza indugio per l'intesa con Torino, cui recò a fine giugno l'atto di annessione, e vi ebbe colloqui con i ministri Balbo e Ricci, tornando quindi a Modena insieme col r. commissario di governo, il conte Ludovico Sauli d'Igliano. Ma non era lontano il ritorno degli Austro-estensi, che il C. prevenne rifugiandosi a Firenze (quivi godette, fra l'altro, l'amicizia di Atto Vannucci e di Vincenzo Salvagnoli). Critico e del "piemontesismo" e dell'antipiemontesismo, rifiutò asilo negli Stati sardi quando gli Austriaci restaurarono il granduca di Toscana, e tornò, invece, in Svizzera, precettore a Lugano delle figlie d'una signora comasca, Luigia Riva vedova Casati. Ma, per dissapori, lasciò presto il posto in cui lo sostituì Francesco Dall'Ongaro e tornò a lavorare per l'Elvetica di Capolago. Curò l'edizione italiana della Federazione repubblicana, della Filosofia della rivoluzione, fors'anche degli Opuscoli politici e letterarii di Giuseppe Ferrari; curò l'edizione francese, e la traduzione italiana, di Rome et le monde (1851) di N. Tommaseo, che se ne dolse in lettere di allora al Vieusseux e del '72 al De Gubernatis. Invitato nel 1851 ad allontanarsi da Capolago e minacciato di espulsione dalla Svizzera, fu ospite della famiglia Bernasconi nella limitrofa Riva San Vitale, quindi autorizzato a rimanere, perché in possesso di regolare passaporto sardo. La crisi dell'Elvetica indusse, o costrinse, tuttavia il C. ad emigrare in Piemonte, per curarvi la pubblicazione dei Thiers presso la tipografia di Chieri (1853). Due anni dopo, fallita la tipografia e non perfezionato ancora l'accordo con l'Unione tipografica editrice, il C. accettò la presidenza del collegio-convitto di Chieri. "Ivi dettò un Corso di Commercio, e ne' dì feriali diede lezioni di lingua e letteratura francese". Tentò nel 1856 la costituzione d'una società per lo sfruttamento agricolo e zootecnico della Sardegna (e profittò del suo soggiorno nell'isola per esaminarvi codici cagliaritani): il progetto da lui presentato agli azionisti della costituenda società (Cerretti, pp. 17 ss.) stupisce piacevolmente per la competenza e la modernità di vedute di questo (a giudicarne solo dagli scritti a stampa) cruschevole filologo all'antica. Il quale nel 1857 conseguì, nel suo campo, il proprio successo maggiore, perché invitato dall'U.T.E.T. a collaborare (son parole sue) "al gran Dizionario italiano che stampavasi a Torino diretto dal Tommaseo". Questi esplicitamente riconobbe i meriti e i contributi del C., al quale rendeva omaggio poco di poi anche il giovane Carducci, recensendo nel '61, su La Nazione, il primo volume del Vocabolario. Era, per il C., anche un modo di campar la vita, avendo ottenuto dall'editore che il compenso gli fosse corrisposto sotto forma di vitalizio annuo di lire 1.200 "per cessione delle varianti sulla Divina Commedia... e delle giunte (circa 40 mila) e correzioni al vocabolario della Crusca". Così, a illustrazione del contratto perfezionato il 22 ott. 1859, il Canevazzi.
A quella data il C., rimpatriato, non solo aveva ripreso il suo posto alla direzione dell'Archivio estense, cui lo comandò il Farini, benché il C. si schermisse per l'età e la competenza sua tanto minore di quella dei concittadini ed amici Giuseppe e Cesare Campori, ma aveva ottenuto, quale deputato per il collegio di San Felice, 620 voti su 640 votanti.
L'indirizzo di ringraziamento agli elettori (pubblicato sulla Gazzetta di Modena del 19 ag. 1859) riafferma la sua fede sabauda e i propositi annessionistici: i quali andavano già allora non pur alla prossima, sebbene ancora lontana, unità, sì anche, e in primo luogo, alla difesa del paese; ond'egli non solo, come scrisse poco di poi al ministro della Guerra, "a proprie spese percorse il Mantovano cispadano, il Ferrarese, e la Romagna per prepararvi l'annessione" ma, ben conoscendo i luoghi e quasi deprecando i rovesci del 1866, consigliò (sono ancora parole d'una sua lettera al Berti) "ma indarno..., di far fortemente occupare tutta la destra del Po, unica linea strategica, riva abbandonata dagli Austriaci, ed occupazione che non sarebbe stata distrutta dalla Convenzione di Villafranca" (cfr. Cerretti, p. 30).
L'ultimo decennio del C., insignito prima del cavalierato poi della commenda "nell'Ordine della Corona d'Italia", per deliberazione del ministro Lanza, vide un curioso e commovente contrasto fra le autorità governative e il C., il quale insisteva a voler rassegnare le dimissioni (perpetuamente rifiutate) da direttore dell'Archivio, sempre che, in virtù dell'onorevole suo passato militare e dei suoi gradi e comandi nel 1814 e nel 1831, gli fosse accordato dal ministero della Guerra il "soldo di ritiro". E questo, invece, gli negarono sempre, in quanto il C. sembra non fosse in grado di poter produrre, com'è assai spiegabile per le molte traversie della sua vita (mentre par quasi incredibile che nella capitale non gli si credesse o sulla parola o sulla testimonianza di suoi compagni di battaglia, di prigione e d'esilio), i documenti e certificati comprovanti il suo stato di ex ufficiale italiano. quindi ben comprensibile che il C. si facesse critico acuto del dilagante piemontesismo, nel mentre rivendicava il più aperto liberalismo nei confronti dei servitori dei passati regimi. A commemorazione di Marc'Antonio Parenti e nell'affidarne le carte all'Accademia di Modena, dichiarò nel '65: "Protessi gli affezionati del cessato Governo, quando li seppi calunniati, imprigionati, vittime di grette e basse vendette, e li difesi a viso aperto; né mi commosse l'esserne mormorato dai sussurroni".
Né tacque, da archivista, le benemerenze degli Estensi nel raccogliere, serbare e tramand le carte di Stato, delle quali discorse sull'Archivio storico (s. 3, II, 1 [1865], pp. 224 ss.). come si conveniva a un conterraneo del Muratori, la ristampa dei cui Rerum consigliò già nel '42 al Pomba e suggerì nel '52 al Repetti (di concerto col non amato, ma rispettato, Cattaneo). Trasse dall'Archivio estense anche documenti notevoli, quelli, ad es., che (tipici, in ogni caso, d'un "mito" letterario diffuso e fecondo nell'Ottocento) gli parvero confermare la follia del Tasso, ma anche la sua reale, e probabilmente ricambiata, passione per Eleonora d'Este (cfr. Cerretti, pp. 40-42). La modestia e la malferma salute l'imprigionarono sempre più fra l'Archivio di Modena e San Felice; rifiutò cariche pubbliche, onori accademici: anche di assistere, nel 1865 con o senza mandato ufficiale, egli dantista, alle feste secentenarie in Firenze. Si vantava di lavorare per rassettar il dissestato patrimonio domestico nell'interesse dei nipoti (ex fratre) suoi eredi, ai quali nel testamento ingiungeva "funerali... semplici e modesti, e della minor spesa possibile" (né "iscrizione lapidaria"), ma l'obbligo di far "la limosina con secretezza e senza ostentazione, secondo la possibilità loro". Così nel testamento olografo del 17 sett. 1871, quasi due anni dopo che egli era stato colpito da un attacco di congestione cerebrale.
Ebbe ancora la lucidità necessaria ad ottenere che lo supplisse, ed eventualmente lo sostituisse, alla direzione dell'Archivio di Modena, dall'aprile del '71 il Foucard, che il 23 maggio 1873 lesse l'elogio del suo predecessore dinanzi al feretro del C., spentosi la vigilia nella sua San Felice.
Fonti e Bibl.: Le carte del C. si conservano all'Archivio di Stato di Modena; negli Atti e Memorie della cui Deputaz. di storia patria, T. Casini pubblicò un elenco (incompleto) degli scritti del C. (s. 4, X, 1 [1900]). Su materiale autobiografico, e con larghe citazioni da lettere, discorsi, memoriali, ecc., è lavorato (e rimane perciò capitalissimo) l'opuscolo di C. Gerretti, Commemorazione dell'ingegnere comm. G. C., Modena 1889, mentre per la parte biografica vale assai più il saggio di G. Canevazzi, Un patriota filologo e bibliofilo, G. C., Lucca 1917 (e in Miscell. di st. stor. in onore di G. Sforza, Torino 1923, pp. 573-599). Essenziali testimonianze di contemporanei offrono, anzi tutto, gli scritti di N. Tommaseo: il Diario intimo, Torino 1946, ad Indicem; il Carteggio con Gino Capponi (anche per le preziose note onde lo corredarono gli editori I. Del Lungo e P. Prunas), specialmente I, Bologna 1911, ad Indicem e III, ibid. 1920, pp. 62 s.; Lettere inedite a Emilio De Tipaldo, a cura di R. Ciampini, Brescia 1953, p. 60 (24 apr. 1835); nonché la lettera del 10 luglio 1872 ad A. De Gubernatis, edita da quest'ultimo ne' suoi Ricordi biografici, Firenze 1873, p. 139; quindi A. Vannucci, I martiri della libertà italiana, Milano 1887, ad Indicem, spec. II, pp. 157-159. Il giudizio di G. Carducci, in Opere (ed. naz.), XXVI, p. 130. Per la partecipazione del C. ai moti del '31, si veggano i suoi costituti in G. Ruffini, Lacongiura estense…, in Rass. stor. d. Ris., XII (1925), pp. 616-633 e, in genere, A. Sorbelli, L'epilogo della rivoluzione del 1831, Modena 1931, ad Ind., specie pp. 109, 111 s., 130 (con ulteriore bibl.). Per l'attività del C. a Capolago, cfr. R. Caddeo, La tipografia elvetica di Capolago, Milano 1931, pp. 38, 254, 342; Le edizioni di Capolago, Milano 1934, pp. 70, 236 s.