CAMPANILE, Giuseppe
Scarse notizie biografiche rimangono di questo poligrafo salernitano del sec. XVII, prevalentemente derivate dalla Biblioteca napoletana del contemporaneo Nicolò Toppi. Nacque a Diano, in Principato Ultra; la data di nascita non è nota: peraltro un ritratto, pubblicato nel frontespizio dei suoi Dialoghi morali, suggerisce che nel 1666 doveva essere in età vicina ai cinquanta anni. Visse a Napoli e fu ascritto all'Accademia degli Oziosi ("accademico Umorista e Ozioso" si definisce egli stesso nei suoi Dialoghi morali).
Se le notizie biografiche scarseggiano, molto dice della personalità del C. la sua produzione letteraria, peraltro non immeritamente dimenticata. La sua prima opera a stampa fu, a quanto pare, Lettere capricciose, dove si raccontano le varietà degli huomini di bel humore, e diversi avvenimenti succeduti all'autore o a' suoi amici, Napoli 1660, raccolta futile e letterariamente mediocre di "casi curiosi" e di arguzie deprimenti, in cui per la prima volta si esprimeva, in una prosa baroccamente contorta e gonfia di ovvie reminiscenze classicistiche, la "vena satirica" che poi il Toppi, consapevole del funesto approdo della vicenda letteraria dell'autore, avrebbe rimproverato come il carattere prevalente del Campanile.
In realtà, più che il mediocre omaggio reso dal C. alle convenzioni della novellistica barocca, con gli artifici narrativi, il periodare pomposo e la vacua ostentazione moralistica, tipici di questa letteratura di intrattenimento, va rilevata qui l'intenzione maligna dell'autore, cui doveva premere non la ricerca di valori letterari e la ricognizione di casi moralmente esemplari, ma piuttosto di denigrare con la satira, con la pubblica esposizione di episodi grotteschi, personaggi che le sue allusioni dovevano rendere facilmente riconoscibili ai rissosi e pettegoli adotti napoletani del tempo: col risultato di compiacere ad una parte del suo pubblico (ed infatti numerosi nobili e letterati gli attestarono la loro amicizia), ma d'altra parte facendosi sin dai suoi esordi letterari vaste ed irrimediabili inimicizie. A queste egli stesso fa cenno nella dedica delle Prose varie a Francesco Carafa, principe di Belvedere, ringraziandolo per esserne stato difeso contro non pochi "cagnacci invidiosi".
Questa seconda operetta, pubblicata a Napoli nel 1666, raccoglie varie orazioni lette dal C. all'Accadeinia degli Oziosi od in altri salotti napoletani, nelle quali l'autore ricalca, con esemplare mancanza di immaginazione, temi e moduli cari alla trattatistica politica e morale barocca.
"Qual sia l'officio del vero principe, acciocché le repubbliche felicemente siano governate" ripete fedelmente la distinzione delle forme politiche aristoteliche, optando con ovvia puntualità di suddito per la monarchia ("l'imperio di un solo non resta luogo al dubio che sia fra gli stati politici il primo e lo più autorevole, in quella guisa a punto che un Dio ha la monarchia del mondo"), e definendo nei termini più scontati del tacitismo la figura ed i compiti del buon principe, devoto al pubblico bene, riluttante alle avide pressioni degli interessi privati. Altri quesiti di prevedibilissima soluzione sono quelli se "più gloriosi sono i principi per l'esercizio della clemenza o per la fama delle vittorie", e "chi meglio esprimesse l'umana condizione, se il riso di Democrito o il pianto di Eraclito". Ma anche qui l'adeguarsi del C. ai canoni ideologici e letterari dominanti nasconde una più pressante preoccupazione, la ricerca cortigiana del buon padrone per la via maestra dell'adulazione, ed in quella sola direzione che i tempi ormai consentono al letterato servile: "se dobbiamo maggior grazie alla Santità di Urbano Ottavo - così suona un altro poco enigmatico dilemma del C. - nell'haver dato Arcivescovo di Napoli il cardinale Ascanio Filomarino per la prudenza o per lo zelo".
Non maggiori sorprese letterarie riserva una raccolta di Poesie liriche, Napoli 1666 e 1674, vacuo omaggio alla moda concettistica, ed ancora meno i Dialoghi morali, dove si detestano le usanze non buone di questo corrotto secolo, pure pubblicati a Napoli nel 1666, nei quali l'adulazione plateale e la beffa ingiuriosa sono sempre le coordinate nelle quali si colloca la squallida imitazione barocca del Campanile.
L'autore, sotto lo scoperto pseudonimo di Lampineca, chiama al dialogo - su temi che ripetono con irrilevanti variazioni quelli delle Lettere capricciose e delle Prose varie - alcuni noti personaggi napoletani del tempo - il giurista Gerolamo Borgia, Francesco Sersale, gentiluomo "noto per le sue puntualissime azioni alla Patria", il principe di Ottaiano Giuseppe Medici, il principe di Supino Carlo Della Leonessa, l'astronomo e filosofo Paolo Cocorullo, su ciascuno dei quali sparge a piene mani gli improbabili fiori della sua adulazione. Essi contendono sul tema "se la pazzia sia felicità", irridono alla "scienza detta divinatoria", deplorano "alcune corruttele del secolo" (e qui dovevano essere perfettamente individuabili per i contemporanei le disavventure, rievocate con grossolana salacità, di un vecchio lascivo, chiamato ad esempio di "chi inerme ardisce azzuffarsi in battaglia amorosa"; e altrettanto riconoscibili le intemperanti eleganze di quei "nostri cittadini, i quali apparano la foggia del vestire a tutti i popoli del mondo"); insomma illustrano senza la mimina perplessità i luoghi comuni del moralismo secentesco, non risparmiandosi neanche la scontatissima invocazione ai "benedetti... Signori veneziani, a' quali cangiare le antichissime loro usanze viene interdetto".
Nei Dialoghi morali il C. si lascia andare a una confessione presaga: "il mio destino quando io mi fossi una cicala, mi forza a scoppiare cantando": fu infatti quello che gli capitò con l'ultima sua opera, Le notizie di nobiltà, pubblicata a Napoli nel 1672. Sin dal 1666 il C., annunziando di volersi fare editore degli Annali dello pseudo Matteo Spinelli di Giovinazzo - una presunta cronaca ducentesca, circolante manoscritta da decenni e più tardi riconosciuta come un falso del secolo XVI - aveva manifestato l'intenzione di aggiungervi un'appendice di notizie genealogiche sulle famiglie della nobiltà napoletana. Abbandonò il progetto di pubblicazione della pseudocronaca spinelliana, non l'altro, che anzi gli andò crescendo sino a prevedere la pubblicazione di due volumi. In realtà riuscì a pubblicarne uno soltanto, e non dipese da lui se l'opera rimase incompleta.
Introducendo le Notizie il C. chiariva di essersi voluto guadagnare piuttosto benemerenze erudite che non artistiche; ed a sua volta la presentazione di un fra' Bonaventura d'Alessandro, napoletano dei minori conventuali, garantiva "il tutto purgatissimo e fondatissimo": invece l'opera, che si proponeva come una vera mappa della nobiltà del Regno, su basi rigorosamente erudite, risultò una grossolana falsificazione, del tutto conforme ai propositi adulatori e denigratori della precedente produzione letteraria del Campanile. Lo stesso mansueto Toppi doveva poi riconoscere che le notizie pubblicate dal poligrafo salernitano erano "molto aliene e contrarie a tutte quelle da me ritrovate ne' regi e fedeli archivi ed appresso approbati autori". Questa volta la "indiscreta e critica penna" del C. aveva imprudentemente passato il segno, avventurandosi senza le necessarie cautele nel territorio estremamente pericoloso del prestigio e degli interessi della feudalità; sicché "alcune e nobilissime famiglie" chiesero ed ottennero contro di lui l'intervento delle autorità.
Il C. fu imprigionato nelle carceri della Vicaria e qui morì - a quanto pare prima che fosse celebrato il processo - il 24 marzo del 1674.
Fonti e Bibl.: N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 169; E. Aar, Gli studi storici in Terra d'Otranto, in Arch. stor. ital., s. 4, XV (1885), p. 283; G. De Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri... salernitani, Salerno 1937, p. 18; F. Nicolini, Saggio d'un repert. biobibliografico di scrittori nati e vissuti nell'antico Regno di Napoli, Napoli 1966, ad Indicem.