BOTTAI, Giuseppe
Nacque a Roma il 3 settembre del 1895, da Luigi, vinaio toscano, e da Elena Cortesia. Cresciuto nella Roma umbertina del Macao, studiò al liceo Tasso. Il suo primo articolo è del 9 genn. 1915 e fu pubblicato in un giornale giovanile di Milano, La terza Italia:in esso, ad una polemica di generazione (come il titolo stesso, Da noi, suggerisce) condotta contro i partiti si mescolano spunti nazionalistici.
La guerra colse il B. al termine del liceo; diciannovenne, anticipò volontariamente la sua andata alle armi, interrompendo gli studi; soldato semplice a Savona, allievo ufficiale a Parma, Siena e Colecchio, divenne sottotenente nell'agosto del 1915; destinato a Frosinone, fece domanda per andare al fronte, dove partecipò ad azioni di guerra sul Col di Lana, sul Carso, in Val Sugana, sul Grappa. Alla fine del 1917 passò come volontario nei battaglioni di assalto; fu ferito e decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Al termine della guerra il B. si laureò in giurisprudenza e divenne redattore dell'ufficio romano del Popolo d'Italia. Contemporaneamente si interessò, dal 1919 al 1924, delle riviste letterarie Riviera azzurra e Lo spettatore italiano.
Nel marzo 1919 il B. partecipò, insieme con E. Rocca, M. Carli, P. Bolzon e A. Businelli, alla fondazione del Fascio di combattimento di Roma. Ma nello stesso anno dichiarava il suo disaccordo con la decisione della giunta esecutiva che aveva aderito al blocco costituito da liberali, nazionalisti, arditi e volontari di guerra.
Del maggio 1919 è il suo primo scritto su Roma futurista. Fin dal giugno la collaborazione del B. si fece più attiva: egli prese tra l'altro a svolgere su quelle colonne i temi della polemica fascista contro socialisti e popolari. Dopo le dimissioni di Marinetti dai fasci per il mancato accoglimento delle sue tesi anticlericali e antimonarchiche, con una lettera del 26 febbr. 1920, il B. lasciava la direzione della rivista, di cui era entrato a far parte in nome della "semplicità primitiva dello spirito", come giustificherà più tardi (conferenza alla galleria d'arte Bragaglia, in L'ardito, 1º genn. 1921, e poi in Pagine di critica fascista, Firenze 1941, p. 145).
Il distacco dal futurismo non interruppe tuttavia l'inclinazione letteraria del B.; sono infatti del 1921 le sue pagine di poesia dal titolo Non c'è un paese (Sanremo 1921), raccolta di componimenti poetici scritti tra il 1916 e il 1920, nutrita di accenti crepuscolari e di motivi anticittadini ed arcadici: "un paese all'antica, senza lega operaia, né rossa né nera...".
Nel dicembre 1919 aveva assunto anche la direzione dell'Associazione romana arditi d'Italia, prendendo all'inizio posizioni repubblicane che lo avevano messo in contrasto con Argo Secondari (Cordova, pp. 83 ss.). Grazie ai contatti con il Carli e con il Vecchi egli riuscì a pubblicare per qualche mese un giornale degli arditi di cui fu direttore, dal titolo Le Fiamme. Dei finanziamenti di questo giornale molto si discusse: secondo alcuni venivano procurati da Mussolini, secondo altri erano di fonte giolittiana o del generale Peppino Garibaldi; una commissione appositamente nominata scagionò comunque il B. da ogni sospetto.
Il 24 maggio, dopo i fatti di Milano, il B. veniva arrestato; rilasciato, entrava nel direttorio del fascio romano, creando le prime squadre d'azione sul modello di quelle milanesi ed emiliane, e nella primavera del 1921 si presentava candidato nella lista del Blocco nazionale nei collegi elettorali del Lazio.
Dinnanzi alla presa di posizione di Mussolini sul carattere "tendenzialmente repubblicano" del fascismo (maggio 1921), il B. assunse un'"atteggiamento mediano", improntato a cautela; eletto deputato e segretario del gruppo parlamentare, alla prima riunione del Consiglio nazionale dei fasci, composto dai membri del comitato centrale e dai deputati neoeletti (Milano, 2 e 3 giugno 1921), votò per l'ordine del giorno, non approvato, con il quale si proponeva di non partecipare alla seduta reale. Nell'inverno 1921-22, nella discussione circa i rapporti con i nazionalisti, si dichiarò a favore di accordi con essi (L'impostazione dottrinale dei rapporti fra il fascismo e il nazionalismo, in L'idea nazionale, 6 dic. 1921; poi in Pagine di crit. fasc., p. 171). Era intanto stato eletto membro della commissione esteri della Camera, il che lo portò a fare un giro di conferenze negli Stati Uniti; ma nel 1922, a tredici mesi dall'entrata in carica, la sua elezione a deputato veniva annullata dalla Giunta elezioni, essendo egli, con Grandi e Farinacci, tra i deputati "minorenni", per non aver raggiunto l'età prescritta.
Il B. intensificò allora la sua attività giornalistica e politica. Riprese a lavorare nella federazione laziale sabina, riprese il suo posto di corrispondente del Popolo d'Italia, oltre a dirigere La Patria, organo settimanale dei fasci laziali, e a collaborare alla mussoliniana Gerarchia. Nell'agosto 1922 capeggiava la controffensiva fascista allo "sciopero legalitario", e, nominato ispettore generale di zona per le Marche e gli Abruzzi, partecipava al convegno di Napoli e alla marcia su Roma come comandante della colonna abruzzese-marchigiana. Nel novembre era tra i fondatori della sezione romana del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, mentre ampliava il raggio delle sue collaborazioni pubblicistiche assumendo la direzione dell'ufficio romano del Resto del Carlino e prendendo a scrivere sul Giornale di Roma, sul Corriere italiano, sul Mercantile, sulla Gazzetta di Puglia, e sul Popolo di Trieste.
Era intanto entrato in polemica con gli organi del partito, per essere stato privato della carica di ispettore generale ed essersi vista rifiutare - lamentandosene personalmente con Mussolini - quella di commissario politico del Lazio, a cui era stato preferito il Calza Bini, per vedersi assegnare invece quella di commissario per la questione terriera laziale. Ma le elezioni del 1924 lo riportarono alla Camera, dove doveva rimanere fino alla XXX legislatura. Reintegrato nella carica, il versatile e intelligente letterato e giornalista acquisterà sempre maggiore peso politico, così da trovarsi, negli anni seguenti, al centro delle maggiori controversie e discussioni del regime, dalla polemica sulla "normalizzazione" e sulla riforma "costituzionale", al corporativismo, al tema dell'intervento statale nell'economia, all'urbanesimo, alla riforma scolastica e alla regolazione dei beni culturali.
La polemica sulla normalizzazione, che vide contrapposti "intransigenti" e "revisionisti" favorevoli ad una svolta legalitaria, e che tenne il campo delle discussioni interne al movimento fascista fin dal 1923, è stata acutamente messa a fuoco dal De Felice; questi nota come le posizioni dei revisionisti furono appoggiate da Mussolini fino agli ultimi mesi del 1923, quando, lasciando cadere le loro preoccupazioni, soddisfece le posizioni più intransigenti, fino alla sconfessione dei primi. L'appoggio ai revisionisti aveva avuto un significato esterno, volto a fornire garanzie ai settori moderati, e uno interno al movimento fascista, volto a costituire un freno e un controllo sui gruppi intransigenti.
Il B. fin dal 1923 si mosse su posizioni sostanzialmente revisioniste, intervenendo con una critica, talora aspra, contro la "violenza fascista" e l'"illegalismo", e a favore dello smantellamento delle organizzazioni di partito che costituivano un duplicato di quelle statuali (cfr. Critica fascista, 15 giugno 1923, poi in Pagine..., p. 263). Una polemica che, se nel complesso si muoveva all'interno delle discussioni del movimento fascista, acquista tuttavia una certa importanza nell'ambito della biografia del B., perché in essa sono già presenti i temicentrali della sua polemica giornalistica e politica, vale a dire quello della classe dirigente e principalmente quello dello Stato.
Una breve ripresa della polemica revisionista del B. si ha dopo il delitto Matteotti (cfr. Dichiarazioni sul revisionismo, in Critica fascista, 15 luglio 1924 e in Pagine..., p. 373). Ma egli doveva rapidamente rientrare nei ranghi dopo la sessione del Gran Consiglio del 22-24 luglio 1924, nella quale Mussolini si dichiarava "antinormalizzatore" e conduceva un'aspra critica delle posizioni revisionistiche che, a suo dire, rischiavano di portare a "una ricaduta nello Stato democratico-liberale". Il B. scrisse allora (23 luglio) a Mussolini che si era mostrato preoccupato della sua "perfetta ortodossia" e che in un discorso del 7 agosto dichiarava essergli parso "impossibile che l'amico Bottai, che è un fascista del 19, che è più giovane di me, che è un ardito di guerra volesse impaludare il suo temperamento e il suo cervello, ché lo ha, in questo più o meno acquitrinoso pantano demo-liberale". Il tema della polemica "revisionistica" andava d'altra parte spostandosi su di un diverso livello, tra l'altro dopo l'approvazione da parte del Consiglio nazionale del P.N.F. di un ordine del giorno del B. sulla necessità di innovazioni legislative e di nuovi istituti, sfociato nella creazione della Commissione dei quindici presieduta dal Gentile.
Negli anni 1925-26 le aspirazioni personali del B. (che lo portavano a continue manifestazioni di fedeltà, pubbliche e private, verso Mussolini) presero così il sopravvento sulla linea revisionista. I rapporti personali con Mussolini si mantenevano tuttavia difficili: il B. doveva ancora scrivergli il 1º ott. 1925, dopo un "richiamo" del Popolo d'Italia, riaffermandogli la sua fedeltà e dicendogli che non meritava di essere accomunato al Rocca (Arch. Centr. d. Stato, Segr. part. del Duce,Cart. riserv., fasc. G. Bottai).
Dal gennaio al dicembre 1925 il B. fu direttore di L'epoca, che cessava le sue pubblicazioni alla fine dell'anno. Mussolini telegrafò a Federzoni: "vedo cessazione Epoca bisogna collocare Bottai al Carlino per evitare sue ulteriori irrequietudini" (Arch. Centr. di Stato cit.). Ma ciò non verificandosi, il B., che già nell'ottobre 1925 aveva chiesto a Mussolini la direzione della Tribuna, con lettere del 9 genn. 1926, del 16 febbraio e del 4 marzo, reclamava insistentemente la direzione del Giornale d'Italia;nel luglio chiese la direzione del Mattino (presso il cui ufficio romano lavorava dal gennaio 1926): non avendola ottenuta, si dimise dall'ufficio romano nell'ottobre.
In questi anni il B. è anche nel consiglio di amministrazione di due banche, il Banco mercantile e il Banco mobiliare, legati a Alvaro Marinelli, suo amico e da lui presentato a Mussolini nel novembre 1924. Dalle due banche si dimetterà nel 1926. Nel 1928 Marinelli fallirà e il B. avrà bisogno di precisare i suoi rapporti con lui in una lettera del 1º febbraio ad A. Turati (Arch. Centr. d. Stato, cit.). Non è chiaro se a questi episodi si riferisca l'accusa rivolta da E. Rossoni al B. di servire interessi non fascisti (per cui l'interessato presentò ricorso alla Corte di disciplina e d'onore del partito).
In questi anni la polemica revisionista del B., perdendo di mordente politico immediato, si spostava a un livello diverso e diveniva richiesta di organizzare, lo Stato in modo nuovo. Gli accenni sono numerosi. Dopo il discorso di Mussolini del 3 genn. 1925, il 15 maggio, in un articolo su Critica fascista dal titolo Per arginare una controrivoluzione, scriveva: "…forse noi stiamo rafforzando tutti gli istituti pubblici che dovevamo distruggere". Il 15 febbr. 1925, in un articolo dal titolo Ripresa polemica, in Critica fascista (anche in Pagine..., p. 402), sosteneva la necessità di una "nuova normalità costituzionale", di una organizzazione dello Stato ispirata all'idealismo gentiliano, e improntata ad un allargamento della sua base sociale.
Nella richiesta di un nuovo Stato, il B. e Critica fascista si trovavano a dover lottare su due fronti: l'uno costituito dall'intransigentismo di Farinacci e dal sindacalismo integrale di Rossoni (ma le vicende più interessanti nei rapporti col sindacalismo rossoniano si avranno successivamente); l'altro dalle posizioni dei sostenitori di soluzioni meramente conservatrici-poliziesche e del mantenimento del vecchio Stato liberale (De Felice, 1966, pp. 49 s.). Sul primo fronte, ancora nel 1926-1927, Critica fascista e il B. si battono contro coloro che vogliono sostituire con la violenza la burocrazia e creare una polizia politica alle dipendenze del partito. Quanto al secondo, il B. leva una voce contro Rocco e il suo "conservatorismo", attirandosi le critiche di Mussolini che reputa "inopportune" le osservazioni del B. (Arch. Centr. d. Stato, 17 sett. 1925). Ma sul secondo fronte il B. doveva avere partita persa: fu Rocco a ideare e realizzare le leggi di difesa, o "fascistissime", e quelle costruttive, od organiche, con le quali una nuova disciplina del governo e dei suoi strumenti e una regolazione nuova delle libertà politiche dovevano portare fino in fondo l'autoritarismo, tutto sommato tradizionale, di una parte della classe dirigente fascista.
Il 6 nov. 1926 il B. è nominato sottosegretario del ministero delle Corporazioni, essendo ministro Mussolini.
Il ministero era stato istituito con r.d. 2 luglio 1926 n. 1132, sette mesi dopo la legge Rocco del 3 apr. 1926 n. 563 sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro. Il ministero, che sarà regolato con il r.d. 17 marzo 1927 e con il decreto del capo del governo 8 maggio 1927, aveva cominciato a funzionare di fatto nell'agosto 1926 ed ebbe dimensioni limitate: nel 1927 non aveva più di una settantina di impiegati. Le strutture del ministero furono completate dopo la sua istituzione con alcuni organi: il r.d. 2 luglio 1926 n. 1131 creava il Consiglio nazionale delle corporazioni; ma esso rimase solo sulla carta. Con legge 18 aprile 1926 n. 731 e con il r.d.l. 16 giugno 1927 n. 10 le Camere di commercio, industria e agricoltura furono trasformate in consigli provinciali dell'economia corporativa. Alla fine del 1926 furono anche costituiti il Comitato intersindacale centrale e i comitati intersindacali provinciali, detti punti di coordinamento e di convergenza dell'azione politica ed economica dello Stato (corporazioni avanti lettera): nel 1930 il comitato intersindacale centrale fu sostituito dal Comitato corporativo centrale, mentre quelli provinciali continuarono ad esistere fino al 1937.
Dal 1926 il B. seguì l'attività corporativa con un'attenta opera di commento: si tratta di un'ingente messe di articoli e di note, apparse su riviste e giornali e poi raccolte, in parte, dal B. stesso in volumi. In questi articoli sono costanti il richiamo all'aspetto corporativo-politico rispetto a quello sindacale-tecnico, la preoccupazione di mostrare che il corporativismo non è frutto di arbitraria improvvisazione ma che è maturato dalla crisi dello Stato liberale, l'impostazione "statalistica", la critica al "sindacato misto", il tentativo di assicurare anche ai pubblici dipendenti la stessa posizione degli altri lavoratori, l'attenzione per il problema dei contributi sindacali.
In sostanza, in questa come in altre occasioni, il B. associava al ruolo di politico-amministratore quello di politico-giornalista. Ciò ebbe l'effetto di creare una discussione pubblica intorno a temi che sarebbero altrimenti rimasti all'interno della macchina statale. Secondo alcuni, in tal modo, con il liberalismo di fondo, egli ha reso possibile durante il ventennio "una discussione scientifica e politica ad alto livello, che non ha avuto riscontro dopo la caduta del fascismo" (U. Spirito, Interpretazioni del corporativismo. Scritti di G. B., in Il dir. del lav., XXXIX [1965], p. 283). Questa duplice posizione gli permetteva comunque di moltiplicare le aspettative, specialmente dei giovani, sì che non mancò chi accostò volutamente il corporativismo al socialismo (cenni in Zangrandi, pp. 95 s.).
Quanto all'attività svolta all'interno del ministero, può dirsi in generale che egli fu chiamato, nei primi anni, ad amministrare l'eredità di Rocco; più precisamente, quella legge del 1926 con cui, attraverso il riconoscimento legale del sindacato unico e con la creazione della magistratura del lavoro e il divieto dello sciopero e della serrata, si raggiunse lo scopo di "incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese" (Gramsci, p. 117).
I primi tempi dell'attività ministeriale del B. furono quindi assorbiti dall'inquadramento dei vari ordini professionali, dalla richiesta di pareri al Consiglio di Stato, dall'approvazione degli statuti delle associazioni, dall'autorizzazione alla pubblicazione dei numerosi contratti collettivi, dall'esame delle inosservanze contrattuali (cfr. il discorso alla Camera del 1º giugno 1927, anche in Esperienza corporativa, Roma 1929, pp. 201 ss.).
A questi problemi minori si aggiunsero questioni più importanti, come la polemica alla X Conferenza internazionale del lavoro sul problema della libertà sindacale, l'entrata in funzione dei Comitati d'azione corporativa sui prezzi, costi e salari, "anticipazione" delle corporazioni (articolo del novembre 1927 in Gerarchia, e anche in Il Consiglio nazionale delle corporazioni, Milano 1933, pp. 16 ss.), e la Carta del lavoro.
Come è noto, l'importanza di quest'ultimo documento sta nella indicazione dei fini sociali dell'attività privata, nel fatto che "l'interesse della collettività prende il sopravvento sull'interesse individuale". Ma l'accurata ricostruzione fatta da De Felice dell'iter formativo della Carta del lavoro permette di affermare che una parte determinante nella sua formulazione l'ebbe non già il B., bensì il Rocco. Il B., discutendosi la Carta del lavoro, non riuscì a conciliare, perché troppo distanti, le posizioni della Confindustria e quella della confederazione rossoniana. Egli scrisse allora a Mussolini: "Le due posizioni più intransigenti sono: da una parte quella della Confederazione nazionale sindacati fascisti, che intende realizzare nella 'carta' concrete garanzie dei lavoratori, legate, per altro, ad un sistema un po' troppo rigido che renderebbe difficili i naturali sviluppi del contratto collettivo, concepito come istituto caratteristico dell'ordinamento sindacale; dall'altra, quella della Confederazione nazionale dell'industria che tende ad assumere fin d'ora una posizione antagonistica nei confronti della Corporazione, che è invece di un'importanza fondamentale nella concezione fascista... A questo proposito devesi tenere presente che il congegno dell'ordinamento corporativo non può riposare che parzialmente sul consenso delle parti. Al suo funzionamento è indispensabile l'intervento risolutivo della volontà politica, l'azione dello Stato forte, che riserba a sé la responsabilità della decisione e della direttiva". Chi decise tra le divergenti posizioni fu prima il Rocco, poi il Gran Consiglio nella riunione del 21-22 aprile, con la redazione di una terza e definitiva versione (De Felice, 1966, pp. 289 ss.).
Approvata la Carta del lavoro, si trattava di attuarla: l'attività successiva del B. è improntata alla necessità di applicarla (si veda l'intervista a Il popolo d'Italia, 12 genn. 1928, anche in Esperienza corporativa, pp. 145).Ma erano le stesse competenze del nuovo ministero che per il B. andavano in primo luogo affermate: mentre per il ministero dell'Economia infatti il nuovo organismo avrebbe dovuto interessarsi dei soli aspetti sindacali, il B. riteneva che il ministero delle Corporazioni fosse l'organo di coordinamento generale, il ministero della politica economica del regime al quale tutte le competenze, anche di altri ministeri, facessero capo: attraverso di esso gli interessi di settore si sarebbero dovuti trasferire sul piano dell'interesse generale (Aquarone, pp. 137 ss.; le posizioni del B. si evincono anche dal discorso al Senato del 27 maggio 1930, e in Il Consiglio, p. 104, nonché, in parte, da Esperienza corporativa, II, Firenze 1935, p. 532).
Né mancarono occasioni di attrito con le organizzazioni padronali, contrarie all'intervento politico-corporativo, alla funzione normativa delle corporazioni (peraltro non ancora istituite), chiamate, secondo il B., a far diventare l'impresa "strumento di utilità pubblica" (relaz. al Gran Consiglio, 1º nov. 1927, anche in Il Consiglio..., p. 12), e allo schema di decreto legge sulla disciplina nazionale della domanda e della offerta di lavoro.
Ma se queste ed altre posizioni del B. (come quella favorevole alla richiesta delle organizzazioni operaie per la istituzione dei "fiduciari di fabbrica", che però Mussolini non volle) fanno pensare che egli stesse dalla parte dei sindacati, le sue dichiarazioni sono come al solito su una posizione mediana ed accortamente compromissoria. Così, al Gran Consiglio del 16 nov. 1927 (anche in loc. cit. e in parte in Esperienza..., p. 15), egli segnalava due tipi di "interpretazioni errate" del corporativismo: "attaccamento eccessivo ai principii del liberalismo" e quindi opposizione all'intervento statale e al "concorso di tutte le classi e di tutte le categorie professionali nell'esame dei problemi che concernono gli interessi della produzione"; "per contro... si sostengono tesi che sono troppo in contrasto col principio della libera iniziativa individuale".
Dal 1927 al 1930 gli interessi del B. come pubblicista e organizzatore di cultura sono volti principalmente a tre temi: la posizione del mondo della cultura e in particolare dei giuristi rispetto alle nuove istituzioni; il sindacato; l'organizzazione corporativa dello Stato.
Nel 1927 fonda la rivista Il diritto del lavoro e nel primo numero, del 1º gennaio, spiega che l'intento è quello di colmare il vuoto tra la dottrina e la legge.
Il 2 ott. 1927, nel discorso al congresso del sindacato degli avvocati e procuratori, a Bologna (ora in Esperienza..., p. 351), afferma che "occorre sgomberare il terreno con energia da tutte le forme di compromesso e di equivoco, che sotto la specie della prudenza, dell'opportunità e dell'ossequio alle dottrine tradizionali, vorrebbero accumularvi sopra mascherati avversari dell'idea fascista, con la speranza di soffocarlo. Il giurista soprattutto deve vedere chiara la meta da raggiungersi e nell'opera complementare di riforma, esente dalle responsabilità dell'uomo di Stato, tale meta può denunciare e dichiarare all'opinione pubblica prevenendo col pensiero l'azione".
La posizione mediana del B. a proposito della scienza giuridica sarà esposta ancor più chiaramente all'inaugurazione del corso di legislazione corporativa presso l'università di Pisa, il 13 nov. 1928 (anche in Esperienza..., II, p. 553).Nel gennaio 1930, in un articolo in Il diritto del lavoro (ora in Il Consiglio..., p. 90), dichiara: "è l'ora... che la scienza giuridica italiana inizii sul serio la elaborazione del nuovo diritto pubblico italiano". E il 2 maggio dello stesso anno, nella relazione al I Convegno di studi sindacali e corporativi (ora in Il Consiglio..., p. 91), chiede alla scienza giuridica italiana "un sano eclettismo": di "congiungere e contemperare le indagini de lege condita con quelle de lege condenda", di tener presenti il senso della continuità del diritto col senso della sua progressività, di congiungere considerazioni di carattere politico a quelle d'ordine tecnico. Il 9 novembre dello stesso anno, nel discorso all'inaugurazione dell'Ente fascista di cultura di Firenze (ora in Esperienza..., II, p. 558), evidentemente preoccupato del rilievo della nuova legislazione degli anni trenta nel mondo della dottrina, ribadisce che le due "linee di manifestazione di ostilità contro la cultura corporativa" sono: "i rappresentanti dell'antica cultura giuridica, i quali vedono nel progresso dei nuovi principii un sovvertimento delle loro formule e dei loro sistemi. La vecchia classe dirigente politica, anche se si è affrettata a riversarsi nelle file del partito fascista, sa bene che è proprio nel progresso di queste nuove discipline e di questi nuovi ordinamenti che la rivoluzione può consistere e resistere fino alle sue ultime mete"; e v'è poi "il ceto dei vecchi dirigenti economici" che non accetta gli ulteriori sviluppi del corporativismo.
Quanto ai sindacati, il B. segnala la loro "tendenza allo sconfinamento", che costituisce un "preludio irregolare all'azione corporativa" (discorso al Senato del 31 maggio 1928, anche in Esperienza..., p. 70), nonché la tendenza loro ad essere "organo di depressione e di repressione, non di espressione", di "irreggimentazione", di "accentramento livellatore" che sopprime le categorie anziché coordinarle e indirizzarle (cfr. discorso del 4 genn. 1929 alla sezione di Roma dell'Associazione nazionale fascista dei dirigenti di aziende industriali, in Esperienza, II, p. 369; articolo del luglio 1930, dal titolo Ordine economico, in Politica sociale, e anche in Esperienza..., II, p. 365; proposta al Gran Consiglio del 1º apr. 1930 di rivedere il sistema di designazione sindacale, per renderlo più rappresentativo).
Dietro questa polemica non c'era solo il conflitto con Rossoni e la sua confederazione (conflitto che portò nel 1928 al cosiddetto "sbloccamento" dei sindacati, con la trasformazione delle sette federazioni rossoniane in altrettante confederazioni), ma anche l'esigenza di una nuova classe dirigente sindacale (il 12 febbraio, in un discorso a Genova, [in Esperienza..., p. 233], il B. fa appello ai giovani perché scelgano la professione di organizzatori sindacali; nel discorso del 15 marzo 1928 alla Camera [anche in Esperienza..., p. 227] afferma che v'è bisogno di circa diecimila dirigenti sindacali) e dell'identificazione ed attribuzione ai sindacati di nuovi compiti che lo Stato esercita male attraverso i suoi troppo complessi congegni burocratici (discorso al Senato, 27 maggio 1930, anche in Esperienza..., II, p. 532).Il terzo dei temi, come si è detto, è quello dell'organizzazione corporativa dello Stato, e vede una lenta maturazione delle posizioni dirigiste del Bottai. Punto di partenza è il ruolo centrale del ministero delle Corporazioni, "connesso istituzionalmente alla Presidenza del Consiglio" (discorso al Senato del 31 maggio 1928). Ma il corporativismo non può limitarsi al ministero di nuova istituzione; deve "investire tutti i problemi della struttura dello Stato" (intervento del 15 marzo 1928 alla Camera, anche in Esperienza..., II, p. 19)per decongestionare il pesante sistema amministrativo. Lo stesso sistema corporativo, come fino ad allora attuato, presentava - per il B. - inconvenienti, quali le complicazioni discendenti dalla presenza del Comitato centrale intersindacale e di quelli provinciali accanto agli organi corporativi in senso stretto (discorso del 31 maggio 1928 al Senato, anche in Il Consiglio..., p. 13) o le difficoltà di inquadramento dei sindacati (intervista del 13 ag. 1920 al Popolo d'Italia, anche in Il Consiglio..., pp. 131 ss.).
Riguardo ai riflessi che il sistema corporativo sarà destinato ad avere sui rapporti Stato-economia, il B., sul finire degli anni venti, si dice convinto della separazione tra capitale e gestione annunciata da Mussolini nell'estate del 1928(discorso di commento alla Carta del lavoro, ora in Scritti, s.l. né d. [ma Bologna 1965], p. 134) e afferma che il corporativismo, se non vuol fissare prezzi e profitti, vuol disciplinare tuttavia la produzione (lezione del 17 apr. 1929 all'Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Napoli, anche in Il Consiglio..., p. 34) e superare la separazione, propria dello Stato demo-liberale, tra politica ed economia (articolo del maggio 1930 in Politica sociale, e anche in Il Consiglio..., p. 109): donde l'integrazione del sistema rappresentativo politico col Consiglio nazionale delle corporazioni (art. in Critica fascista, 1º ag. 1929, anche in Il Consiglio..., p. 40).
Tuttavia era sempre alieno da assumere una posizione radicale. E infatti, sempre nel 1929 (3 marzo, discorso al Centro di cultura di Lucca, anche in Il Consiglio..., p. 23), ricordava: "noi conduciamo il nostro esperimento su un filo di rasoio; sbandando troppo a destra, noi potremmo fare del protezionismo industriale di cattiva lega; sbandando troppo a sinistra, potremmo ripetere gli esperimenti socialisti..."; la soluzione fascista non è né liberale né socialista: "lo Stato crea la corporazione, vi chiama coloro che lavorano e producono in una determinata branca della produzione, li fa discutere, li organizza, il disciplina e orienta". Questi orientamenti saranno ribaditi nel marzo 1930, in un articolo su Lo Stato corporativo: il suo ordinamento, le sue funzioni (ora in Esperienza..., II, pp. 19 ss., e, in parte, in Scritti, p. 138): lo Stato fascista ha realizzato "l'unificazione della società nello Stato", ma il suo compito più difficile sta nel trovare il punto in cui l'autorità può salvaguardare le proprie esigenze nella libertà senza arrivare a sopprimerla. Sono da criticare sia i "corporativisti ad oltranza" sia i "custodi dell'iniziativa privata".
Il 12 sett. 1929 il B., che già dal 2 gennaio era entrato a far parte del Gran Consiglio diveniva ministro delle Corporazioni. Con r.d. della stessa data, n. 1661, le attribuzioni in materia industriale del ministero dell'Economia nazionale venivano trasferite al ministero delle Corporazioni (solo per gli scambi e le valute il ministero delle Corporazioni, eccetto un periodo limitato, non avrà competenza). Come ministro, il B. concluderà il lungo e faticoso iter della legge del 1930 sul Consiglio nazionale delle corporazioni: una legge che ebbe l'opposizione del mondo della produzione perché si attribuivano al Consiglio funzioni di normazione in materia economica (Guarneri, pp. 278-288); questa tendenza finì col prevalere, ma circondata da tali remore - in particolare, la necessità dell'assenso del capo del governo - che il Consiglio non ebbe di fatto l'iniziativa.
L'iter della legge fu il seguente: presentazione del progetto da parte del B. a Mussolini nell'estate del 1928; consultazioni e poi, il 7 marzo 1929, discussione al Gran Consiglio sulla relazione del B.; consultazione delle organizzazioni sindacali; esame del testo del progetto da parte del Gran Consiglio (aprile 1929);esame dei ministeri e delle amministrazioni e approvazione del Consiglio dei ministri. Seguì poi la discussione parlamentare, nella quale il B. ebbe più volte occasione di intervenire. Ma, mentre nel discorso alla Camera (anche in Il Consiglio..., p. 49) il B. ricordava con durezza che non vi sono due Mussolini, uno "creatore di un ordine politico, che è grato ed utile accettare, ed un Mussolini creatore di un ordine economico, che può essere fastidioso subire", nel discorso al Senato attenuava molto le sue posizioni: riconosceva che le norme legislative sono superiori a quelle corporative, e ricordava che queste ultime sarebbero state dettate dalla "volontà delle parti" (ibid., p. 71).
Con la legge 20 marzo 1930 n. 206 e poi con il r.d. 12 maggio 1930 n. 908 il Consiglio nazionale delle corporazioni risulterà costituito di sette sezioni formate dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori delle varie categorie, designati dalle rispettive confederazioni nazionali; le sezioni del Consiglio, con l'aggiunta di numerose persone preposte a vari organi burocratici, componevano l'assemblea generale; in seno al Consiglio nazionale fu altresì istituito il Comitato corporativo centrale. Le attribuzioni del Consiglio, tra cui funzioni consultive in materia economica e normativa per i rapporti economici tra le categorie della produzione, oltre a funzioni di controllo sulle associazioni sindacali e sulle corporazioni, furono determinate dagli articoli 10-14 della legge citata.
Si noti che la legge del 1930 non creava ancora le corporazioni, per le quali occorrerà attendere fino al 1934; di fatto, fu creata, finché il B. rimase al ministero, la sola corporazione del teatro. Il B. stesso noterà nel 1935 che nessuno dei principî della legge del 1930 (centralità e costituzionalità del Consiglio nazionale delle corporazioni, che opponeva al parallelismo particolaristico delle grandi o piccole corporazioni di categoria una coordinazione unitaria; rappresentanza professionale; potestà normativa e legislativa degli organi professionali) sarà integralmente realizzato (Il cammino delle corporazioni, Firenze 1935, p. 18).
A partire dal 1930 il B. aggiunse all'attività ministeriale e a quella giornalistico-politica l'attività universitaria. Il 1º nov. 1930 veniva nominato, per chiara fama, ai sensi dell'art. 17 del r.d. 30 sett. 1923, n. 2102, professore stabile di politica ed economia corporativa nell'università di Pisa. Il 10 novembre tenne la prolusione sul tema "dalla rivoluzione francese alla rivoluzione fascista". Dal 1º dic. 1931 passò alla cattedra di diritto corporativo. Fondò nel 1930 la Scuola di perfezionamento di scienze corporative, che egli diresse poi dal 1932 al 1935; alla scuola insegnarono: U. Spirito, A. Volpicelli, F. Carli, C. Costamagna. Significative le pubblicazioni della scuola: una raccolta di scritti su La crisi del capitalismo (Firenze 1933), con prefazione del B., e un'altra su L'economia programmatica, Firenze 1935 (di cui il B. scrisse la prefazione, per illustrare la crisi del sistema capitalistico e il rapido affermarsi dell'economia programmata); una raccolta di scritti di Stalin, Molotov e Grinko su Bolscevismo e capitalismo, con una avvertenza sempre del B. (sull'istituzione della Scuola di legislazione corporativa che precede quella di scienze corporative, si veda Il Campano, 1928-1929, numero interamente dedicato a tale istituzione). Né la sua attività si fermò qui: diresse, con Spirito e Volpicelli, la collana "Classici del liberalismo e del socialismo" (Sansoni, Firenze), e dal 1932, con Arena, prese a pubblicare la "Nuova collana degli economisti" (UTET, Torino).
Nel 1930 fondò, e diresse fino al 1933, l'Archivio di studi corporativi:al primo numero collaborarono il B. stesso, Gentile, S. Romano, Barassi, Costamagna, Carli, N. M. Fovel, Spirito, Arena, Volpicelli. Questa rivista pubblicherà numerosi articoli sulla pianificazione e sull'economia sovietiche, sul nazionalsocialismo, sull'economia mista, sul diritto collettivo, sui rapporti politica-economia, sul parallelo intervento statale in USA, Germania e Italia, ecc.
Ma il principale confronto col mondo della cultura avvenne al convegno di Ferrara del 1932. Le posizioni del B. erano già state preannunciate in una serie di dichiarazioni del 1931 nelle quali egli aveva enunciato e sviluppato la sua posizione mediatrice a proposito del ruolo degli intellettuali e di quello dei giuristi nei confronti del problema sindacale e del corporativismo.
Sulla prima questione, nel Bilancio degli studi scritto nel gennaio 1931 su Il diritto del lavoro (anche in Esperienza..., II, p. 602, e in Scritti, p. 177) il B. criticava sia "l'intransigenza dei giuristi politici nel voler imporre, ad ogni costo, il dominio, dei presupposti e delle finalità politiche dell'ordinamento corporativo sulla realtà e sulla attualità della sua realizzazione giuridica: fino a confondere, a volte, i problemi de lege ferenda con quelli de lege lata"; sia l'intransigenza, "non meno dannosa, dei giuristi puri, di coloro che rimangono fermi alle formule legislative", e giungeva alla conclusione che "il diritto non deve piegarsi alla ragione politica bensì interpretarsi secondo questa; il giurista non deve far politica ma semplicemente farsi una sensibilità politica".
Nello stesso Bilancio, sulla seconda questione, il B. scrisse che sul rapporto sindacato-corporazione si presentano tre tendenze diverse: "quella dei sindacalisti puri, che vedono gli organi corporativi ancora attraverso la formula dell'art. 3 della legge 3 apr. 1926 e cioè come semplici 'organi di collegamento tra sindacati'; quella dei corporativisti oltranzisti, che vagheggiano l'assorbimento del sindacato da parte della corporazione; e quella, infine, che è la più saggia e più aderente allo spirito della legge, di coloro che vedono nei due istituti due diversi e concorrenti sistemi di organizzazione delle categorie economiche, entrambi necessari".
Più complessa la posizione sul problema del sindacato. Una volta infatti (cfr. L'ordinamento corporativo,ordinamento politico, in Critica fascista, 1º febbr. 1931, e anche in Esperienza, II, p. 49) il B. criticò, contrapponendoli, i "teorici", per i quali il corporativismo avrebbe dovuto irrigidire in un regolamento collettivo senza fine ogni atto individuale, e i "praticoni" per i quali il corporativismo sarebbe stato dominato da un conflitto che avrebbe visto oggi vincenti i sindacati dei lavoratori e domani quelli dei datori di lavoro. Altre volte, invece (intervista al Popolo d'Italia, 24 febbr. 1931, anche in Il Consiglio..., pp. 5 e 158; discorso del 13 nov. 1931 alla II sessione dell'assemblea generale del Consiglio nazionale delle corporazioni, in Il Consiglio..., p. 165), insistette sul fatto che la corporazione si basava sul sindacato e non doveva comprimerlo; che i sindacati non erano strumento di ordine pubblico, che la collaborazione doveva essere proprio il frutto del conflitto e del dissenso, che dovevano intanto avere la possibilità di manifestarsi.
A Ferrara il B., concludendo il convegno, affermava che v'erano due tendenze: la prima che voleva fermare l'ordinamento corporativo alle sue attuali posizioni (e dietro questa riconosceva "il pallido volto degli amleti liberali"); la seconda che voleva imprimere un moto di trasformazione agli istituti corporativi. Egli si schierava con questa tendenza, criticando però la posizione enunciata dal relatore Spirito (la corporazione proprietaria), perché per realizzare il corporativismo integrale riteneva necessario superare il sindacato: per il B., se la lotta di classe è una realtà, non si può eliminare il sindacato (il discorso del B., è del 7 maggio 1932 ed è ripubblicato in Esperienza..., II, pp. 579 ss.).
L'attenzione che il convegno di Ferrara ha richiamato ha fatto perdere di vista la posizione critica assunta dal B. sugli strumenti di "emergenza" (consorzi, autorizzazione agli impianti, enti pubblici) e "acorporativi" voluti dall'industria in crisi: una posizione che fu, forse più del discorso di Ferrara, all'origine dell'allontanamento del B. dal ministero delle Corporazioni.
Il problema di una maggiore concentrazione industriale era divenuto pressante con la grande crisi. Il processo di concentrazione era stato favorito con il r.d.l. 23 giugno 1927 n. 1206. Ma dopo la crisi le forze industriali ripresero l'iniziativa e si giunse alla legge 16 giugno 1932 n. 834 sulla costituzione obbligatoria di consorzi fra esercenti uno stesso ramo di attività economica. Secondo il Guarneri (p. 280) questa legge fu un compromesso tra i grandi industriali contrari al controllo ma non alla cartellizzazione coatta, a cui erano invece contrari i piccoli industriali, e le tendenze favorevoli a un maggior intervento nell'economia.
Il 24 febbr. 1932 il B., parlando alla Camera sul bilancio del ministero delle Corporazioni, affermava: "vi sono taluni produttori di corta vista che da anni auspicano e praticano una politica economica girante su due perni soli: la diminuzione del salario e la protezione doganale" e aggiungeva, poi, "che è venuto di moda, non appena si ha la sensazione che in un determinato settore le cose non vanno, di chiedere un consorzio"; ricordando come il 30 aprile lo Stato avesse costituito il consorzio "volontario" della juta, sul quale non aveva poi alcun controllo. Nello stesso anno, su Politica sociale (ora in Esperienza..., II, p. 195) riassumeva così "i segni della acutizzazione del fenomeno consorzialista": "utilizzazione delle organizzazioni sindacali e del governo per forzare la volontarietà dell'adesione ai consorzi; tendenza a invocare speciali provvedimenti per la dichiarazione di obbligatorietà di certi consorzi".
Nel corso, poi, della discussione parlamentare sulla proposta legislativa sui consorzi obbligatori, il B. da una parte criticò gli imprenditori che si rivolgevano allo Stato per ottener aiuti (discorso alla Camera del 20 maggio 1930; anche in Esperienza..., II, p. 153); dall'altra accettò la disciplina dei consorzi obbligatori come contingente ed eccezionale (discorso alla Camera del 30 apr. 1932, anche ibid., p. 203; ma già prima, nel citato discorso del 20 maggio 1930, aveva detto inaccettabili i consorzi costituiti per arginare il franamento di posizioni malsane e gli accordi finanziari fatti per creare valori artificiali) e chiese una razionalizzazione e un coordinamento corporativi (discorso del 20 maggio 1930, cit.). Insomma, rifiutava "la tendenza monopolistica, mascherata dalla mentalità consorzialistica" (discorso alla Camera del 24 febbr. 1932, anche in Esperienza..., II, pp. 186 ss.) e affermava la necessità di un controllo delle corporazioni sui consorzi (Corporazioni e consorzi, in Politica sociale, giugno 1932, e anche in Esperienza..., II, p. 208).
Un'esigenza simile - di affermare il carattere non corporativo dell'istituto, ma di sostenere al contempo la necessità di un controllo corporativo sul suo funzionamento - egli affermava sempre nel corso del 1932 nel disegno di legge sul regime di autorizzazione preventiva per l'impianto di nuovi stabilimenti industriali e l'ampliamento di quelli esistenti e per gli interventi dell'Azienda generale italiana petroli (art. sul Popolo d'Italia, del 4 dic. 1932, anche in Esperienza..., II, p. 217 e intervento parlamentare sulla politica petrolifera italiana, ibid., loc. cit.).
Il 20 luglio 1932 Mussolini allontanava il B. dal ministero delle Corporazioni; lasciavano contemporaneamente il Consiglio dei ministri Rocco e Grandi.
Fino ad allora il B. si era sperimentato sul terreno della politica riuscendo ad aprire una discussione fertile su quelli che furono i principali mutamenti dello Stato negli anni '30; egli vide il rilievo politico assunto dal fenomeno burocratico, si rese conto della necessità di una pianificazione pubblica e comprese che il ruolo assunto dalla collettività imponeva ai poteri pubblici di non trascurare di cercare il suo consenso. Ma creò anche dei miti, come quello dell'autogoverno delle categorie o, in altre parole, della soluzione volontaria dei conflitti di classe. Successivamente, tuttavia, l'intervento statale in economia si svilupperà fuori dell'organizzazione corporativa: ciò spiega l'atteggiamento severo del B. nei confronti del corporativismo dal 1932 in poi, ma non diminuisce il suo merito d'aver visto il fenomeno dello Stato amministrativo e delle pianificazioni pubbliche.
Dal 1932, prevalse nel B. il ruolo di amministratore. L'uscita dal governo e la posizione di supremazia assunta ormai da Mussolini nelle questioni politiche di vertice furono una causa di ciò. Ma vi fu anche il rilievo che i fenomeni amministrativi assunsero dopo gli anni '30, fino a divenire preminenti (anche se il B. non seppe cogliere fino in fondo la nuova dimensione storica di essi): nuovi enti, il formarsi di una nuova burocrazia pubblica, non più separata dalla dirigenza industriale, l'emergere a livello politico dell'amministrazione dell'economia.
Il B., tuttavia, se affermò sempre la politicità dei problemi amministrativi, e quindi la loro rilevanza generale e non solo settoriale, non seppe vedere appieno l'importanza del suo nuovo ruolo. Egli considerò l'attività amministrativa come secondaria, abituato, com'era, secondo i canoni culturali dell'epoca, a considerare rilevanti solo gli aspetti di vertice della politica. In questo senso sono illuminanti le pagine di diario da lui pubblicate nel secondo dopoguerra, dove sembra che egli faccia il ministro della pubblica istruzione pensando ad altro; dove politica è solo la politica estera; dove la sua posizione di ministro dell'Educazione emerge solo in tre punti; dove prende nota solo delle frasi di Mussolini riguardanti le relazioni internazionali, e gli affari che egli doveva curare sono "scartoffie" o "affari di ufficio". Eppure egli aveva ben chiara e perseguiva in quell'epoca una "politica delle arti" e una "politica della scuola" che daranno frutti importanti come le leggi sulle cose d'arte, sulle bellezze paesistiche e sulla scuola media unica: per l'ora (la guerra alle porte, le relazioni internazionali tese, i suoi difficili rapporti personali con Mussolini) poneva in primo piano altri problemi.
Il segno della continuità tra il periodo che arriva fino al 1932 e quello che inizia quell'anno è costituito dall'interesse del B. per le pianificazioni: la Carta del lavoro, la pianificazione di opere in Roma, la Carta della scuola, il piano regolatore della scuola, i piani paesistici, l'attenzione per l'economia programmata, la proposta di una pianificazione economica nazionale, sostenuta a partire dagli anni '33-'34. Simile anche la tecnica di queste pianificazioni: indicazioni flessibili, per principî (donde il "cartismo" del B.), anziché per leggi.
Le diversità si accentuano invece se si guarda alle realizzazioni: la sua azione come pianificatore dell'economia fu pressoché nulla, nonostante che egli avesse l'appoggio di un Mussolini che si diceva corporativista convinto (l'economia fu pianificata con strumenti che il B. chiamava di emergenza ed eccezionali, come i consorzi, la legge bancaria, il controllo degli scambi, gli enti di privilegio, i controlli autarchici, ecc.); mentre la sua azione come pianificatore della scuola lascerà, nonostante il disinteresse di Mussolini, preso dai problemi internazionali e della preparazione bellica, notevoli tracce. Ma la posizione dello Stato nell'economia fu sempre al centro dei suoi interessi ed è su questo che ritorna negli scritti degli anni 1933-1935, nei quali si andranno definendo le sue critiche al mancato funzionamento del corporativismo e le sue proposte di pianificazione economica.
Intanto, va segnalata la sua cautela nel giudicare direttamente la legge del 1934, e gli sviluppi corporativo-burocratici che essa comportava. Solo nel 1935 (Il cammino delle corporazioni, p. 19)notava quasi con rammarico che un progetto in discussione, poi abbandonato, della legge del 1934 parlava di formazione di contratti tipo e di piani economici corporativi ed aggiungeva: "ma al piano economico le corporazioni ci condurranno sicuramente". Solo dopo la seconda guerra mondiale esprimerà i suoi giudizi sul 1933-34, parlando della "mancata prima che fallita esperienza corporativa" e della sua "brevissima primavera", causata dalle nomine dall'alto e dalla incapacità di realizzare di Mussolini (Venti anni e un giorno, Milano 1949, pp. 45 ss.). Più tardi ancora, nel 1952, scriverà (Verso il corporativismo democratico o verso una democrazia corporativa?, in Il diritto del lavoro, XXVI [1952], 3-4)che, a causa del "fatale processo di burocratizzazione", nel 1934 il corporativismo era già finito: s'ebbero "le corporazioni senza corporativismo"; in esse - dichiarava - era "visibile il compromesso tra le concessioni alla burocrazia statale, da una parte, e alla burocrazia di partito, dall'altra".
Meno caute le ricorrenti posizioni, anche in questi anni, a favore della rappresentatività sindacale e dell'autonomia del sindacato rispetto al partito. Il 15 maggio 1933, scrivendo su Critica fascista circa Il binomio fascio-sindacato (ora anche in Esperienza..., II, p. 65) si opponeva alla proposta di mescolare funzioni economiche e sociali con funzioni politiche, e di far entrare il partito nell'ordinamento sindacale con la creazione di un direttorio nazionale sindacale presieduto dal segretario del partito e composto dei nove presidenti confederali. Il 1º ag. 1934, scrivendo sempre sullo stesso periodico, su Confederazioni ed autonomia delle categorie, affermava che "la confederazione ha da essere ancora una manifestazione dell'autonomia sindacale, non la sua negazione": per cui essa doveva essere una organizzazione che procedeva dal basso, non dall'alto, come fino ad allora era stato.
Il motivo più interessante degli scritti di questi anni rimane tuttavia quello della pianificazione. Esso emerge con due articoli del 15 marzo e del 15 giugno 1933 su Critica fascista (ora in Esperienza..., II, pp. 227 ss.), in cui il B. sostiene la possibilità di un'economia programmata in paesi non socializzati nonché il suggerimento, contemporaneamente avanzato da F. M. Pacces, di un "piano economico corporativo".
Le difficoltà per una pianificazione sono rappresentate dalla necessità di identificare il ruolo del sindacato e di definire la responsabilità dell'organizzazione imprenditoriale dinanzi allo Stato per quanto attiene all'indirizzo della produzione (si veda lo scritto su In che senso la Carta del lavoro è superata e superabile, in Critica fascista, 1º luglio 1934, dove anche si accenna alla necessità di non lasciare l'intervento dello Stato al criterio del caso per caso).
Di questo periodo è fondamentale lo scritto su Il cammino delle corporazioni (Firenze 1935), dove con maggiore lucidità è posta l'esigenza della pianificazione e delle modificazioni strutturali che debbono accompagnarla. Le funzioni del regime corporativo sono le seguenti: preparazione di piani di produzione, direzione collettiva della produzione (le corporazioni seguono e controllano l'attuazione dei piani); razionalizzazione; disciplina delle nuove iniziative, nel senso di promuovere quelle utili e vietare quelle inutili; disciplina delle applicazioni tecniche; disciplina degli scambi con l'estero; finanziamento delle aziende corporate; distribuzione del reddito tra i fattori della produzione (e qui auspica la sostituzione del contratto con la norma); organizzazione di servizi d'interesse comune per le aziende corporate; gestioni dirette; organizzazione e amministrazione dell'ente corporativo.
In questo lavoro il B. parla ormai di "fascismo-corporativismo" (p. 27) e della corporazione come "un nuovo modo di essere dello Stato" (p. 28), contro "una corporazione meramente conciliativa, paritetica, consultiva" solo "tramite tra lo Stato e le categorie economiche" (p. 21).
Il B. apprezza il "gigantesco esperimento della politica personale del presidente americano" (p. 25);contemporaneamente, scrivendo su Corporate State and NRA (Foreign affairs, 1935, pp. 612 ss.), egli compara l'esperienza corporativa. con il New Deal e afferma che hanno in comune gli scopi di una più equa distribuzione della ricchezza, il raggiungimento di un più solido equilibrio sociale e l'eliminazione dei fattori di disturbo di questo equilibrio costituiti dal sorgere di potenti interessi finanziari e industriali.
Sempre in Il cammino delle corporazioni il B. progettava un piano economico formato "dal basso" sulla base di programmi particolari via via corretti per tener conto dell'interesse generale (p. 80); la "perequazione dei redditi", il "minimo salariale" e la necessità di non diminuire i livelli salariali (pp. 37 ss.); la necessità di "regolare i profitti" (p. 43). Secondo il B., quando le società per azioni hanno molti azionisti, non sono diverse da quelle pubbliche: occorreva quindi dare ad esse uno statuto particolare (pp. 73 ss.) oltre a "schemi contabili uniformi come negli Stati Uniti" (p. 82). Per completare il "nuovo ordine economico" egli richiedeva che il raggruppamento di imprese avvenisse all'interno delle corporazioni e non fuori (pp. 58 s.) e suggeriva la possibilità dello scioglimento e della fine del sindacato dei datori di lavoro inteso come "coalizione capitalistica" (pp. 60 s.). Tutte queste proposte si accompagnavano a frequenti critiche alla "plutocrazia" e ai "saputi professori dell'economia liberale".
Un piano siffatto e tali controlli dell'economia dovevano per il B. essere affidati a uffici corporativi e non burocratici; a questi uffici corporativi andava anche affidata la gestione degli enti capitalistici superaziendali (p. 95).
Queste le parti rilevanti di quello che sarà l'ultimo complessivo e ampio scritto del B. sul corporativismo (è di scarso interesse la compilazione su L'ordinamento corporativo, Milano 1936, che contiene un'accurata descrizione delle istituzioni sindacali e corporative, anche se in esso si possono leggere, alle pp. 46 e ss., interessanti osservazioni sulla distanza tra teoria e realizzazione corporativa). Dalla descrizione fatta è agevole rilevare che il B. era andato ormai ben oltre il corporativismo del 1926-32: da una parte la consapevolezza della inefficacia pratica del primo corporativismo; dall'altra forse la certezza che le conseguenze della grande crisi, arrivata in ritardo, richiedevano decisi strumenti di controllo dell'economia; infine, l'insegnamento che veniva da altri paesi che non avevano esitato a porre in atto un accentuato dirigismo per uscire dalla crisi: tutto ciò deve averlo spinto tanto avanti nell'orientamento "anticapitalistico" e pianificatore.
Nel 1932 era stato nominato presidente dell'Istituto naz. fascista della previdenza sociale, ove aveva dato sviluppo alle assicurazioni operaie e completato la costruzione dei sanatori antitubercolari; nel novembre 1934 era sopraggiunta inoltre la nomina a preside della facoltà di giurisprudenza di Pisa; di questo periodo vanno anche ricordati i frequenti viaggi nella Germania nazista, e in particolare la sua partecipazione nel 1933 al congresso annuale delle "camicie brune" a Norimberga.
Gli anni 1935 e 1936 lo vedono governatore di Roma, carica alla quale era stato nominato il 24 genn. del 1935. Numerose le opere eseguite nel periodo del suo governatorato: dal ripristino del tempio di Venere e Roma, alla sistemazione del parco di Traiano alla demolizione della spina di S. Pietro, alla sistemazione del quartiere del Rinascimento, all'allargamento di via delle Botteghe Oscure, alla creazione dell'esposizione di Roma (E42), alla prosecuzione dell'isolamento dell'Augusteo e del Campidoglio, all'inizio della costruzione dell'acquedotto del Peschiera.
Ma egli - nominato segretario generale Virgilio Testa - si interessò probabilmente poco delle sue nuove incombenze. Tant'è vero che, nel telegramma inviato da Mussolini al re il 12 nov. 1936, per designarlo al ministero della Educazione Nazionale, il duce scriveva: "non ha mai eccessivamente gradito - a torto secondo me - la sua attuale carica di governatore di Roma" (Arch. Centr. di Stato, cit.). Da altre parti si diceva che si preoccupasse più degli intrighi politici che degli interessi della città e si segnalavano deficienze nel campo annonario, del controllo dell'igiene, dei mercati, dei trasporti, ecc. (ibid., appunto riservato del 27 maggio 1936).
Durante questo periodo, egli fu per nove mesi volontario in Africa orientale, come maggiore alla testa di un battaglione di mitraglieri; fu decorato di medaglia d'argento al valor militare e poi della croce dell'ordine militare di Savoia. Fu il primo governatore civile di Addis Abeba. Il diario che egli scrisse in quel periodo fu pubblicato col titolo di Quaderno affricano, Firenze 1939.
Il 29 ott. 1936 venne trasferito alla cattedra di diritto corporativo dell'università di Roma e qui fondò e diresse la scuola di scienze corporative.
Il 22 novembre del 1936 il B. sostituiva De Vecchi al ministero dell'Educazione Nazionale.
I primi atti del suo ministero furono l'emanazione di nuovi programmi d'esame ridotti rispetto a quelli d'insegnamento; l'unificazione e il coordinamento della legislazione scolastica, che dopo la riforma Gentile aveva subito una quantità di "ritocchi" (si veda il discorso al Senato sul bilancio del ministero, 22 marzo 1937, anche in La Carta della scuola, Milano 1941, p. 112).
D'altra parte, dal 1937, iniziò un'intensissima attività di contatti con ogni ordine di scuola, promuovendo dibattiti e convegni che continuarono anche dopo l'approvazione della Carta della scuola; nonché, su Critica fascista, la discussione sul problema dei giovani, che aveva avuto un altro epicentro nell'anno 1931.
Se l'attività principale del B. fu rivolta ai problemi dei beni culturali e della scuola, va segnalata tuttavia anche la sua posizione sul problema della razza.
Il B., che era intervenuto, prima del 1930, per impedire provvedimenti contro la rivista Israel, fu tra i più zelanti sostenitori della crociata antiebraica con articoli su Critica fascista, trasmissioni radiofoniche e numerose circolari ministeriali, oltre che con norme sulla posizione degli ebrei nella scuola (cfr. De Felice, 1960, passim e p. 381 n.).
I principali provvedimenti furono quelli del r.d. 5 sett. 1938 n. 1390 e del r.d. 23 sett. 1938 n. 1630, poi coordinati in testo unico con r.d.l. 15 nov. 1938 n. 1779: con queste norme veniva vietato agli appartenenti alla razza ebraica di iscriversi e di insegnare nelle scuole italiane (circolari applicative di queste norme e delle altre norme vengono emanate dall'agosto 1938 al gennaio 1939: sono in La carta..., pp. 476 ss.). Norme di portata più generale furono poi emanate col r.d.l. 17 novembre 1938 n. 1728. Peraltro nelle norme menzionate era previsto che le comunità israelitiche avrebbero dovuto provvedere all'istruzione secondaria. Il Gran Consiglio, nella seduta del 6-7 ott. 1938, su pressione di Balbo, consentì che si istituissero, a determinate condizioni, anche scuole medie per ebrei.
Quanto alla "politica delle arti", il 4 luglio 1938, il B., in un discorso per l'inaugurazione del convegno dei soprintendenti alle antichità e alle belle arti (ora in Politica fascista delle arti, Roma 1940, p. 113), enunciava le "direttive per la tutela dell'arte antica e moderna"; per "infittire le maglie della rete protettiva" delle cose d'arte, ma alleggerire le limitazioni alle esportazioni, "distinguere le competenze e rivedere la distribuzione territoriale degli uffici". Di qui il riordinamento delle soprintendenze che renderà più stretto il legame tra la tutela e la ricerca e tra la difesa e la valorizzazione (discorso del 26 marzo al Senato sul bilancio del ministero, anche in Politica..., p. 105; circa gli obiettivi della legge sulle bellezze naturali: "ottenere dall'amministrazione e dagli interessati una collaborazione intesa, da un lato, a impedire eccessi di zelo; dall'altro, a rendere il vincolo amministrativo più vicino alla volontà contrattuale che al puro e unilaterale divieto" (Il popolo d'Italia, intervista del 23 apr. 1939, ora in Politica..., pp. 255 ss.).
Secondo queste direttive, furono emanate le leggi sul riordinamento delle soprintendenze alle antichità e alle belle arti, sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico e per la protezione delle bellezze naturali, nonché le norme istitutive dell'Istituto centrale del restauro, tutte del 1939.
L'altra più importante realizzazione del B. ministro dell'Educazione Nazionale è la Carta della scuola, e l'unificazione, sia pure non ancora completa, dell'insegnamento medio.
La Carta della scuola, concepita dal B. come "piano regolatore della scuola" (La Carta della scuola, Milano 1941, pp. XIV e XVII), ebbe origine dalla relazione al Gran Consiglio del 19 genn. 1939 e dall'o.d.g. del medesimo organo del 15 febbr. 1939. Il B. stesso afferma che la Carta nacque negli ultimi venti giorni antecedenti la riunione del Gran Consiglio. Questo avrebbe dovuto approvare solo la riforma della scuola media; poi il B. pensò che non era possibile riformare la scuola media senza rivedere tutto il complesso della scuola (resoconto della discussione sulla legge 1º luglio 1940 sulla scuola media unica, in La nuova scuola media, Firenze 1941, p. 59). Peraltro, lo stesso B. metteva più volte l'accento sulla circostanza che la Carta proveniva "dall'interno della Scuola stessa" (intervento alla Camera dei fasci e delle corporazioni del 2 maggio 1939 sul bilancio del ministero dell'Educazione Nazionale, anche in La Carta..., p. 144; a p. 146, anche informazioni sull'iter della Carta e sulle commissioni di studio che la prepararono; si veda anche l'intervento alla Camera dei fasci e delle corporazioni del 6 marzo 1940 sul bilancio del ministero, ora anche ibid., p. 169).
La Carta della scuola, secondo i progetti del B., si presentava come una "riforma radicale", anche se teneva presente la riforma gentiliana "come fondamento storico" (ma in realtà ne rovesciava alcune importanti premesse). Scopo della carta "la volontà di sostituire ad una scuola borghese per principio e per pratica, una scuola popolare, che fosse veramente di tutti e che rispondesse veramente alla necessità di tutti, cioè alla necessità dello Stato" (relaz. al Gran Consiglio del 19 gennaio, ora in La Carta..., p. 57; e Il problema della scuola fascista, relaz. agli insegnanti di Cremona, 22 nov. 1938, ora in La Carta..., p. 204).
Le novità della Carta furono: la scuola materna, la scuola del lavoro in luogo della quarta e quinta elementare, e quella artigiana (per i ragazzi dai 9 agli 11 e dagli 11 ai 14 anni); l'ordine femminile; l'introduzione del lavoro manuale; l'aver posto il liceo scientifico allo stesso livello di quello classico. Ma punto principale fu la scuola media unica - ove era conservato l'insegnamento del latino - risultante dalla fusione dei corsi inferiori ginnasiale, magistrale e tecnico (ma accanto alla quale restavano le scuole professionali e si ponevano quelle artigiane: queste ultime non davano accesso ad altri studi, salvo ai collegi di Stato, dopo concorsi e prove supplementari: la scuola professionale apriva la strada a corsi biennali di carattere tecnico che si concludevano con diplomi).
Alla scuola media unica non vennero opposizioni dal Gentile, che pure l'aveva combattuta in passato "come quella di cui i radicali francesi fanno oggi un segnacolo nel vessillo della democrazia livellatrice a bassa quota di tutti i valori spirituali" (Tomasi, p. 92). Gentile dette la sua "piena adesione" al disegno di legge sulla media unica intervenendo nella discussione al Senato (riportata in La nuova scuola media, pp. 86 ss.). Si trattò peraltro di un intervento ambiguo nel quale in parte Gentile criticava il disegno di legge, in parte se ne attribuiva la paternità, in quanto "dal disegno di legge sembrerebbe che la nuova scuola non debba differire molto dai primi tre anni degli antichi istituti i cui programmi non erano gran che differenti". Lo stesso Gentile, d'altra parte, dette poi una diversa motivazione alla sua adesione all'unificazione, scrivendo sul Corriere della Sera del 22 marzo 1940 che nella scuola media unica si manteneva il latino come base della formazione classico-umanistica (sul sostanziale accordo tra Codignola e il B., a proposito della riforma, cfr. Broccoli, p. 245).
Né il B. ebbe altri oppositori, se si esclude l'intervento Pompei nella discussione sulla legge 1º luglio 1940 sulla scuola media unica alla Camera dei fasci e delle corporazioni, nel senso che non la scuola media unica ma quella artigiana doveva essere la scuola della maggioranza del popolo (resoconto in La nuova scuola media, p. 59).
Il calendario dell'attuazione della riforma previde "la predisposizione di cinque leggi fondamentali, da approvare gradualmente cominciando dalla legge sulla scuola media" (altri dettagli sull'iter, in una intervista a Il popolo d'Italia del 13 dic. 1939, Come e quando sarà attuata la Carta della scuola, anche in La Carta..., p. 427). Ma, fino, al 1941, "una autentica ed organica applicazione della Carta non esiste che relativamente alla nuova scuola media" (La Carta..., p. XIX):infatti, la già citata legge 1º luglio 1940istituiva la scuola media unica di tre anni che "con i primi fondamenti della cultura umanistica e con la pratica del lavoro saggia le attitudini degli alunni, ne educa la capacità; e in collaborazione con le famiglie, li orienta nella scelta degli studi e li prepara a proseguirli".
Altre realizzazioni del B. ministro furono: l'inquadramento dei maestri elementari nei ruoli dei dipendenti statali; la creazione di alcune nuove università; l'istituzione, con r.d.l. 3 giugno 1938 n. 928 convertito nella legge 5 genn. 1939 n. 15, dell'Ente nazionale dell'insegnamento medio, col compito di gestire scuole medie per delega dello Stato, di operare l'associazione di istituti, di controllare gli istituti non inquadrabili tra i "delegati" e gli "associati".
Per il resto, vanno segnalate almeno le sue direttive in materia universitaria (la riaffermazione del rettore e del preside come superiori gerarchici contenuta nell'intervento sul bilancio del ministero alla Camera dei fasci e delle corporazioni del 6 maggio 1940, ora, in La Carta..., p. 169 e le indicazioni contenute in Parole agli universitari,ibid., p. 292, nel senso che l'attività universitaria non si dovesse limitare alle lezioni e nel senso che occorresse un controllo che doveva tuttavia accompagnarsi ad incentivi ai professori) e di collegi (la creazione di collegi del tipo della Scuola normale superiore è vista "al fine di ricostituire, anche nel settore universitario, la scuola nel vero senso della parola, che o è laboratorio e seminario, o non è nulla": relazione al Gran Consiglio sulla Carta della scuola, 19 genn. 1939, in La Carta..., p. 16);nonché il lavoro per la redazione del Piano regolatore della scuola (Roma 1942;le procedure di redazione e le proposte furono riassunte dal B. in A.B.C., 1º ott. 1958, e anche in Scritti, p. 305).
La permanenza al ministero della Educazione Nazionale fece sorgere nel B. una rinnovata attenzione ai problemi della cultura e della sua organizzazione. Il 27 sett. 1939 annotava nel suo diario il rammarico per la mancanza di "un'informazione che sia un'intima formazione di coscienza" (Venti anni, p. 143). A un livello più alto, il 18 ag. 1940, in un documento sulla cultura specialmente universitaria, riassumeva così le fasi successive al primo dopoguerra: "la crisi dell'idealismo e del nazionalismo; il tentativo di rinnovamento culturale sulla base della corporazione, tra il 30 e il 32, culminato nel convegno di Ferrara; la segregazione in sé della cultura dal 1934 in poi" (ibid., p. 190). Sono tappe di un'evoluzione generale, ma anche tempi della vita del B. stesso, che riprende l'iniziativa e, con G. Vecchietti e G. Cabella, fonda dal 1º marzo 1940 il Primato,lettere ed arti d'Italia che proseguirà fino al 1943.
Al Primato collaboreranno storici, letterati, e artisti, molti dei quali antifascisti; fu quindi rivista molto viva ed aperta: tra le tante polemiche che vi si svolsero, basti ricordare quella tra U. Spirito e Giaime Pintor sul "nuovo romanticismo". Primato rappresenta per il suo creatore il tentativo di richiamare alle loro responsabilità politiche "molti intellettuali fra i migliori, [che] sentendosi coinvolti in un sospetto generico e colpiti da un pericoloso complesso d'inferiorità, si sono tratti un poco in disparte, rischiando di smarrite il concetto della loro funzione e... della loro missione nella società nazionale". Ma questo richiamo era fatto nel ricordo "che a portare in trincea, con quell'animo e quella volontà, i combattenti del '15 concorsero proprio le riviste e i giornali letterari" (Ilcoraggio della concordia, in Primato, 1º maggio 1940, e anche in Antologia di Primato, a cura di V. Vettori, Roma 1968, p. 15).
Ritorna ancora in questi anni, nell'attività del B., il tema del corporativismo, ma solo per constatarne il fallimento. V'era, è vero, il tentativo di far ritornare il fascio e le corporazioni alla elettività (posizione sostenuta nel luglio 1938 nella commissione presieduta da Costanzo Ciano per la riforma della Camera: cfr. Venti anni, p. 118, e la polemica, ripresa su Critica fascista nel 1942-43, con interventi di Mazzoni, De Cocci, Lettieri, Zincone, Di Marcantonio, Nigro, sull'autogoverno e l'effettivo funzionamento dell'elettorato di categoria, ma ciò non mutava il giudizio di fondo del B.: com'egli annotava nel suo, diario il 25 marzo 1940, il fascismo doveva ormai considerarsi "acorporativo" (Venti anni, p. 163).
Il tema del fallimento del corporativismo, anzi, si diffonde in quegli anni: ne parlano Costamagna su Lo Stato, Pacces su Critica fascista, Benaglia su Politica sociale, Panunzio su Il diritto del lavoro e anche il B. doveva tornarvi sopra con un articolo nel primo numero di Economia fascista del 1943 (Funzione economica delle corporazioni) e in un contributo destinato a Critica fascista del 24 luglio 1943 (ma il numero della rivista non apparve; il dattiloscritto è conservato in Archivio Bottai), insistendo ancora sulla "ascesa delle masse" e sulla "perequazione delle opportunità", e facendo propria l'aspirazione di "un piano nazionale di ricostruzione sociale" che ponesse il fattore sociale alla base d'una totale ricostruzione della vita del Paese, in cui anche gli aspetti economico-produttivi e politici non fossero considerati come elementi componenti, e del cui progresso graduale, delle cui difficoltà fosse tenuto informato il popolo, con le evidenti finalità educative che ne deriverebbero".
Ma la posizione personale del B. diveniva sempre più difficile. Tutti i ministri erano stati in sostanza declassati (sono illuminanti a queste proposito le osservazioni del B. sullo svuotamento del Consiglio dei ministri, e sull'utilizzazione di questi ultimi come meri "tecnici" in Venti anni..., pp. 95 e 184). Il B. annotava nel suo diario il 22 luglio 1941: "le mie insistenze per la difesa dei monumenti talora lo seccano" (ibid., p. 207); e l'8 luglio 1940: "piccola battaglia con Mussolini per indurlo a prendere sul serio una mia relazione sulla politica artistica di guerra. In guerra - mi dice - non conosco che un'arte: l'arte della medesima... Scherza, ma io insisto: problemi di difesa di monumenti e collezioni, di eventuali rivendicazioni d'opere in altre circostanze storiche emigrate, di resistenza ai tedeschi che tendono a far man bassa di tutto. Riluttante approva e mi fa dare i mezzi necessari a una prima azione di difesa" (ibid., p. 185).
I suoi rapporti con Mussolini divengono sempre più difficili e si diffondono voci di una sua dissidenza. Dal 1938 Mussolini lo fa sorvegliare e nel 1943 è sottoposto a controllo telefonico, le conversazioni registrate e comunicate a Mussolini. A Mussolini arrivano i rapporti riservati che parlano di un "gruppo di Bottai", "rosso", favorevole all'alleanza con Inghilterra e Francia; poi, contrario alla guerra, pieno di riserve critiche sulle cose tedesche, favorevole a una liberalizzazione nel senso di svincolare gli impieghi dalla tessera del partito. Non è da escludere che nel 1943 Mussolini faccia preparare un fascicolo a suo carico (notizie in Arch. Centr. d. Stato, cit., in Venti anni..., pp. 115, 225 e 238; e in R. Zangrandi, pp. 216, 287, 308). Il B. va in guerra, sul fronte occidentale, ed è poi inviato sul fronte greco-albanese, al comando di un battaglione di alpini. Il 5 febbr. 1943 Mussolini lo allontana dal ministero: egli, nel dare le consegne al suo successore, fa un discorso molto polemico che, per più vie, viene comunicato a Mussolini. Venutolo a sapere, il B. scrive il 2 marzo a Mussolini riaffermandogli la sua fiducia e smentendo le voci che circolano sul suo conto. Ma solo quattro mesi più tardi, il 24 luglio 1943, egli partecipa alla redazione dell'ordine del giorno del Gran Consiglio per il ripristino delle competenze previste dallo Statuto e per la rimessione di ogni potere agli organi costituzionali e il giorno successivo sostiene la mozione nella riunione del Gran Consiglio.
Sul B. fascista il giudizio molto contradditorio: per alcuni egli fu un "corruttore", per altri fu strumento di antifascismo, nel senso che fu un critico e fece nascere e sviluppare tendenze antifasciste: i convegni e le discussioni corporative "arrecarono al fascismo più danno che vantaggio" perché, se alcuni vi rimasero irretiti, altri cominciarono a discutere seriamente (La Penna, pp. 678 ss.).
Secondo il primo orientamento, sul B. si riflette il giudizio più generale sul corporativismo e sulla politica sociale e culturale del fascismo come bluff: il B. sarebbe stato un demagogo, che permise forme di dissenso solo in quanto assicuravano la possibilità di "egemonizzare" più larghi strati di giovani. Probabilmente, l'alternativa stessa è mal posta. Il B. non fu né "corruttore" e demagogo, né critico al punto da preparare all'antifascismo le giovani generazioni. Il B. fu piuttosto, anche quando cercava di avvalorare un'immagine di sé di revisionista, pessimista, e critico, un mediatore; su quasi tutte le questioni egli prese una posizione di compromesso: fu tra i conservatori e gli intransigenti nella polemica sul compiti della cultura e della scienza giuridica; dette largo spazio alla polemica anticapitalistica, ma si preoccupò sempre - almeno finché rimase al ministero delle Corporazioni - di riassicurare i dirigenti industriali preoccupati di un possibile intervento corporativo nell'azienda; a Ferrara criticò i liberisti, ma disse anche che Spirito era andato fuori del corporativismo; prendeva posizioni che sapeva non, gradite a Mussolini, ma poi, in privato, si affrettava a riaffermargli la sua completa fiducia personale.
Dopo il 1943, dovette nascondersi: venne condannato a morte in contumacia nel processo di Verona. Nel giugno 1944, dopo lo sgombero dei tedeschi, da Roma andò a Sidi-Bel-Abbès. Il 4 luglio 1944 fu destituito dall'ufficio di professore per effetto della sentenza dell'Alta Corte di giustizia, che lo condannò all'ergastolo in contumacia, con perdita del diritto a pensione. Si arruolò nella legione straniera col nome di André Bataille: combatté in Francia nella prima campagna d'Alsazia (febbraio-marzo 1945); promosso nel corso della campagna caporale e poi caporalmaggiore, ritornò in Africa, dove la Legione lo inviò prima a Sidi-Bel-Abbès poi a Saida, ad Arzew, a Parigi e infine nella Selva Nera: un diario di questi anni è nel volume Legioneè il mio nome, Milano 1950.
Amnistiato nel novembre 1947, ritornò in Italia il 2 ag. 1948. Il 1º nov. 1945 era stato reintegrato nei ruoli dei professori universitari per l'annullamento della destituzione. Ma il 20marzo 1951, a sua domanda, è collocato a riposo come professore universitario.
Ritiratosi dalla vita politica attiva, in polemica con i movimenti neofascisti, fondò nel 1953 la rivista di critica politica A.B.C.; ivi scrisse, commentando le vicende politiche, specialmente attento ai problemi del partito e del sindacato, e sostenne giustamente il motivo della continuità della legislazione del postfascismo rispetto a quella fascista.
Il B. morì in Roma il 9 genn. 1959.
Fonti eBibl.: Roma, Arch. Bottai; Ibid., Arch. Centrale dello Stato, Segreteria part. del Duce,Carteggio riserv., fasc. G. Bottai. Di specifico sul B. vedi: M. Carli, G. B.,profilo, Roma 1928; A. B. C., numero unico dedicato al B. del 1º marzo 1959. Vedi inoltre: A. La Penna, I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, in Società, II (1946), pp. 678 ss.; F. Guarnieri, Battaglie economiche fra le due grandi guerre, II, Milano 1953, pp. 278-288;A. Gramsci, L'Ordine nuovo 1919-1920, Torino 1954, p. 117; R. De Felice, Storia degli ebrei sotto il fascismo, Torino 1959, passim;R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1960, passim;U. Spirito, Critica della democrazia, Firenze 1963, pp. 22 ss.; A. Capitini, L'antifascismo alla Normale di Pisa, in Il Ponte, XII (1965), pp. 131 ss.; A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965, pp. 137 ss.; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino 1965, ad Indicem;Id., Mussolini il fascista. I. La conquista del potere 1921-25, ibid. 1966, ad Indicem; II. L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, ibid. 1968, ad Indicem;A. Broccoli, La Nuova Italia e Civiltà moderna: il momento della crisi, in Scuola e città, XVIII (1967), pp. 245 ss.; Antologia di Primato, a cura di V. Vettori, Roma 1968, passim;T. Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, Firenze 1969, p. 92;F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova 1969, pp.83 ss.