BONFADIO, Giuseppe
Di famiglia originaria di Salò, nacque a Venezia, con tutta probabilità dopo il 1565 e prima del 1575. Studiò all'università di Padova giurisprudenza e, dopo aver ricoperto per due volte l'incarico di consigliere, si laureò nell'anno 1593.
"Uomo di non volgare erudizione", come ebbe modo di definirlo più tardi Ottaviano Bon, coltivava anche gli studi letterari e filosofici; ciò gli valse, tornato a Venezia, la fiducia e la stima di parecchi patrizi, specie di Vincenzo Contarini, appassionato di studi umanistici. Non fu difficile pertanto per il B. vivere col tranquillo decoro di ricercato e ambito insegnante privato. Andrea Morosini, il suo protettore più influente, lo apprezzò al punto da affidargli la guida dei nipoti Giacomo e Andrea e da ricorrere non raro alla competenza del B. nelle più varie discipline. Il Morosini, il quale, autorevole e cauto a un tempo, era una delle figure più rappresentative della nobiltà veneta, non doveva d'altra parte essere estraneo alla stesura del primo lavoro del B., il De civilis administrationis optima forma. Disputatio adversus oppugnantes aristocratiam, che usciva a Padova nel 1611 con dedica al doge Leonardo Donà.
In un latino non inelegante il B. vi sosteneva, in opposizione soprattutto a Jean Bodin, William Barclay e Giusto Lipsio, la superiorità delle istituzioni repubblicane, fondate sulle leggi, rispetto alla "regia potestas", sempre arbitraria, spesso imprevedibile. Decisamente condannati i reggimenti democratici, la repubblica degli ottimati gli appariva la miglior forma di governo: l'aristocrazia rappresentava per il B., totalmente assimilato alle idealità di chi lo proteggeva, la sicura garante di un'armoniosa possibilità di convivenza, la depositaria indiscussa delle capacità tecniche e delle attitudini morali essenziali al buon governo. Il Senato veneziano gli sembrava il più mirabile esempio di dottrina e di prassi politica e Venezia la più giusta, la più duratura delle repubbliche. Il mito della perfezione politica della Serenissima e della sua regolata libertà trovava nell'intima adesione del B. un convinto, anche se modesto, riecheggiamento.
Chiamato dal Consiglio dei dieci a istruire i giovani "cittadini" aspiranti alla carriera di segretario, il B. abbandona l'insegnamento privato per dedicarsi esclusivamente a questo pubblico incarico di cui andava assai orgoglioso. Mentre - osservava nell'Oratio de studiis recte instituendis venetorum civium, quicunque ad arcana Reipublicae sunt adsciscendi che pubblicava a Venezia nel 1616 dedicandola al cancelliere grande Leonardo Ottobon - i colleghi, "ad munus docendi a Senatu vocati", erano costretti "auditores quosvis admittere promiscue", nell'impossibilità d'allontanare anche l'allievo più rozzo e incolto, a lui spettava formare il "flos Venetorum civium... cui certe arcana Reipublicae custodienda, et gravissima obeunda negotia sunt iam destinata". I suoi allievi dovevano essere in grado di scrivere "eleganter, accurater, docteque"; essenziali a tal fine erano l'"historia et moralis philosophia", col corredo complementare della grammatica, retorica e dialettica.
Voce stridula, eppur, nella sostanza, remissiva, in un momento di esasperata inquietudine (si era da poco concluso il conflitto cogli Arciducali, i modesti intrighi del Bedmar erano parsi atto conclusivo di un vasto e preordinato piano antiveneziano, reale e soffocante persisteva l'accerchiamento asburgico) la Dicaelogia omnium rerum publicarum vedeva la luce a Venezia nel 1620, con dedica al doge Antonio Priuli.
Con questa il B. intentava "actionem aequissimam" contro "Herimannus Chunradus", pseudonimo sotto il quale si celava l'autore, probabilmente suddito imperiale, di una "paranaetica oratio" indirizzata "ad reges, et principes", ove, favoleggiando di una congiura, concertata tra tutte le repubbliche, con Venezia principale promotrice, al fine di sopprimere le monarchie, ne profetava l'imminente fine. Il che, in realtà, significava indurre i sovrani dei grandi stati ad azioni preventive "adversus immerentes Respublicas". Le argomentazioni del B. sono di tono ben diverso da quelle del suo primo scritto, col quale si vantava di aver "strenue" propugnata "rerum publicarum summam dignitatem". Non era infatti opportuno contrapporre una forma di governo all'altra, a maggior risalto di quella repubblicana: Venezia, allora, si sentiva troppo direttamente minacciata e, rinunciato al ruolo attivo e aggressivo caldeggiato dal Sarpi e da quanti a lui erano ancora rimasti vicini, vedeva in una rigida neutralità, anche ideologica, l'unica possibilità di autonoma sopravvivenza. Così si spiega come il B., trascurando ogni vigorosa affermazione di fede repubblicana, insistesse invece, con voluta elusione delle vere caratteristiche dello Stato assoluto, su quanto accomunava i "Christiana Regna" - "rei publicae quoddam genus", essendo invece soltanto i "barbarorum imperia proprius ad Tyrannidem" - e le repubbliche, di per sé innocue e aliene non solo da avventure eversive ma dal voler proporsi come esempio e modello (riguardo, in particolare, alla Serenissima, lo stesso "Venetorum ingenium" è "abhorrens a bellis"). E, dimostrata la necessità della concordia internazionale, il B. ne deduceva l'urgenza di una esemplare punizione per chi, come il "Chunradus", avesse cercato d'introdurre dissensi e turbamenti.
Al 1623 risale un'ode del B. in onore del doge Francesco Contarini, in cui l'esaltazione di Venezia, "Adriani littoris et sali / Regina", s'accompagna a quella del "Princeps", "custos integer" delle leggi. Ultima testimonianza che di lui ci rimane; ciò fa presupporre non di molto posteriore la sua morte.
Fonti e Bibl.: N. Crasso, Andreae Mauroceni... vita, premessa alle Historiae venetae di questi, I, Venezia 1718, p. XXI; N. C. Papadopoli, Historia Gymnasii patavini, Venetiis 1726, p. 115; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, I, Venezia 1824, p. 182; IV, ibid. 1834, pp. 430, 667, 668; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, II, Venezia 1873, pp. 356 s.