CATTOLICA, Giuseppe Bonanno Branciforte principe di
Nacque a Palermo dal principe Francesco Antonio e da Caterina Branciforte Pignatelli, figlia di Salvatore principe di Butera, fra il 1766 e il 1767.
Poche le notizie giunteci sulla sua giovinezza: il 10 dic. 1783 egli sposò Teresa Moncada Branciforte figlia del principe di Paternò; il 3 sett. 1792 ricevette, per donazione del padre, l’investitura del titolo di principe di Roccafiorita e il 21 giugno 1794 ebbe quella delle terre e dei possedimenti legati al titolo: anche questo per donazione del padre; probabilmente nello stesso periodo fu nominato dal sovrano cavaliere di S. Gennaro.
Il 9 luglio 1798 il C. ricevette investitura dello Stato, terra e principato di Cattolica; quando, alla fine del 1798, Ferdinando IV si rifugiò a Palermo con la corte, egli fu tra i nobili chiamati a collaborare all'apprestamento di opere militari e nel febbraio 1799, col grado di colonnello, insieme con altri tre nobili siciliani formò una giunta militare per organizzare e dirigere il restauro delle torri e dei forti disseminati lungo le coste dell’isola.
Al ritorno della corte a Napoli seguì il sovrano e probabilmente gli fu affidato il comando di un reparto. Certo continuò a svolgere attività militari e nel 1806 era comandante della guarnigione di Capua. Ma di fronte all’avanzata rapida delle truppe francesi non poté o non riusci a organizzare una valida resistenza e il 13 febbraio capitolò al primo attacco ch’esse sferrarono contro la città. Dopo la capitolazione raggiunse Palermo, dove il re si era rifugiato per la seconda volta.
Poiché la scarsa disponibilità di denaro non consentiva di armare un numero di uomini sufficiente per una valida difesa dell’isola, il C. formulò un progetto per la formazione di un’armata di volontari, che avrebbe dovuto comprendere nove reggimenti di guarnigione, ventitré di cacciatori e quattro di dragoni leggeri, ciascuno comandato da un nobile, colonnello-proprietario, affiancato da un ufficiale veterano dell’esercito. Il progetto trovò il consenso di Maria Carolina e in pochi mesi l’armata civica raggiunse gli effettivi di 36.000 uomini raccolti in reggimenti organizzati, equipaggiati e comandati da trentasei nobili, a capo dei quali fu posto il principe di Butera, “primo fra’ baroni”. Ma gli emigrati napoletani, di fronte al rapido costituirsi di questa armata “siciliana”, temettero ch’essa potesse tramutarsi in uno strumento di potere in mano ai baroni dell’isola e cominciarono a insinuare nella regina dubbi sulla sua utilità e sull’opportunità politica di favorirne ulteriormente lo sviluppo. Diversi colonnelli vennero poco dopo privati del comando e lo stesso C. “venne tosto presso Maria Carolina in non cale” (Paternò Castello).
Divenuti nel 1810 molto tesi i rapporti tra la corte e la nobiltà siciliana, soprattutto quando, alla convocazione del Parlamento, il re chiese la concessione di un donativo di 360.000 onze all’anno per quattro anni, mentre la parte più cospicua del baronaggio siciliano chiedeva l’introduzione di un nuovo sistema di tassazione, il C., cedendo anche alle pressioni personali della regina, aderì apertamente alle proposte della corte.
L’anno successivo, quando con i tre editti emanati il 21 febbr. 1811 il sovrano pose in atto provvedimenti finanziari idonei a consentirgli di colmare il vuoto creato nelle casse dello Stato dal negato donativo di 360.000 onze, provocando la ferma protesta della nobiltà dell’isola, il C. non prese alcuna posizione, nemmeno quando il re ordinò di relegare a Favignana i principi di Belmonte, Castelnuovo, Villafranca e d’Aci e il duca d’Angiò, considerati i promotori dell’opposizione alla politica della corte.
Dopo l’arrivo a Palermo di lord Bentinck (6 dic. 1811), le pressioni esercitate da questo sul governo, perché si ponesse rimedio all’impopolarità suscitata dalla politica del sovrano e del “partito di corte” nell’isola, non piegarono la regina che, con grande meraviglia di tutti, ottenne da Ferdinando IV la nomina di nuovi consiglieri di Stato scelti tra i nobili siciliani che s’erano dimostrati più vicini ai sovrani, fra cui il Cattolica.
Chiaramente con questa mossa la regina intendeva creare le premesse per una frattura in seno al baronaggio e assicurare alla sua azione politica l’appoggio di uomini che godevano, per nobiltà di casato, popolarità e seguito. Il Bentinck incassò il colpo e cominciò a trattare con i nuovi consiglieri, ma praticamente non ottenne alcun progresso nell’affermazione della sua linea politica.
Nel maggio del 1813 alcuni Consigli civici si arrogarono prerogative che, secondo qualche gruppo di nobili, miravano a fomentare e a spingere il popolo contro la nobiltà. Si diffondevano notizie di prossime sollevazioni popolari nel Catanese e voci simili correvano pure a Messina e Palermo. Il governo convocò subito, per esaminare la situazione, una riunione straordinaria del Consiglio di Stato, in cui, in contrasto con l’atteggiamento della maggioranza, il C. si mostrò tra i più moderati, tendendo con i suoi interventi a sdrammatizzare la situazione; la sua azione, però, non ebbe successo perché il governo decise di inviare truppe a Messina e a Catania.
Il Bentinck, che aveva lasciato Palermo proprio mentre si succedevano questi eventi (prodromo di una più grave crisi che di lì a poco avrebbe investito l’intesa costituzionale-democratica), rientrò a Palermo il 3 ottobre, quando già la crisi dei partiti era giunta al punto di rottura. I costituzionalisti salutarono con gioia il suo ritorno e i suoi amici ed estimatori organizzarono una grande festa in casa del Cattolica.
La crisi del sistema costituzionale in Sicilia significava anche una diminuzione del prestigio inglese e il Bentinck non poteva permettere che ciò avvenisse in un momento tanto delicato per la politica inglese in Europa. Così fece sciogliere il governo prendendo lo spunto dal fatto che s’era trovato in minoranza in Parlamento e favorì la formazione di un altro gabinetto, composto dai principi di Villafranca e di Carini, dal Settimo e dal Bonanno, affiancato nel Consiglio privato da altre figure rappresentative, tra cui il Cattolica. E proprio a questo toccò il compito, quando poco dopo il principe vicario sciolse il Parlamento, di leggere all’assemblea il discorso che chiariva i motivi del provvedimento, dovuto, nella motivazione ufficiale, alla “cattiva condotta e [...] irragionevole ostinazione della Camera dei Comuni” (Palmeri, p. 230).
Le nuove elezioni segnarono il trionfo del partito costituzionale, ma nel governo che si formò l’affermazione non si tradusse in vera forza operativa perché tra il Belmonte e il Castelnuovo si manifestò subito um frattura profonda. Il C. si schierò, insieme con i principi di Carini e di Villafranca, per la fazione più conservatrice, quella del Belmonte che, per altro, comprendendo il danno che poteva derivare a tutto il sistema costituzionale da queste scissioni dei partiti, si fece iniziatore di una pacificazione tra le fazioni dette dei cronici e anticronici. Il Castelnuovo avrebbe voluto tenere al corrente del progresso delle trattative i colleghi del Consiglio di Stato, ma i principi di Trabia e di Campofranco si opposero ad avere contatti con alcuni consiglieri, fra cui c’era il C., forse perché li ritenevano poco validi nello schieramento politico, o forse perché apparivano troppo legati al “partito di corte”.
Sostanzialmente quest’azione di pacificazione non portò quindi a risultati concreti e bisognò attendere il nuovo ritorno del Bentinck a Palermo, nel giugno 1814, per avere una ripresa delle trattative tendenti a sanare la frattura creatasi in seno al gruppo dirigente siciliano. Il Bentinck riunì tutti i ministri per discutere un progetto preparato dal Castelnuovo per riportare all’unità le forze pubbliche siciliane, ma subito il Belmonte, il Carini, il C. e altri dichiararono la loro opposizione al progetto. A questo punto il Belmonte, tra la meraviglia di tutti, propose d’invitare il re a riprendere le sue prerogative. Il Bentinck non si oppose alla proposta, in quanto ormai l’Inghilterra non aveva più interesse a impedire che Ferdinando IV riprendesse le redini del governo. Poco dopo il sovrano lasciò Palermo per rientrare a Napoli e probabilmente il C. rimase nell’isola a curare i suoi interessi.
Riappare tra i protagonisti della vita politica palermitana il 15 luglio 1820, quando giunsero a Palermo notizie della rivoluzione costituzionale napoletana. Dapprima il popolo le accolse con indifferenza, mentre manifestazioni di giubilo venivano improvvisate da gruppi di soldati napoletani; poi a poco a poco i popolani cominciarono ad associarsi a queste manifestazioni e la situazione sembrò diventare esplosiva. In seguito a ciò il C., ora col grado di generale, presentò al luogotenente generale del re, Diego Naselli, un suo progetto di tutela dell’ordine pubblico, suggerendo di formare squadre miste “di nobili, preti e artigiani insieme a 25 fanti e 5 cavalli” per impedire il formarsi di gruppi armati di rivoltosi e controllare giorno e notte tutte le “sezioni” della città e i sobborghi e per intervenire tempestivamente in caso di bisogno “con garbatezza più che colle armi”, di cui si doveva far uso solo in casi di “ostinata resistenza”. Di fronte all’incalzare degli avvenimenti il Naselli formò una giunta provvisoria di governo chiamando a farne parte alcuni tra i costituzionalisti del 1812. Indi, anche per la mancanza di notizie e disposizioni da Napoli, accettò il progetto del C. dandogli l’incarico di metterlo in atto costituendo la milizia civica rafforzata da militari, in modo da responsabilizzare direttamente i rappresentanti del popolo.
Il 17 luglio il C. e i maggiori esponenti della nobiltà palermitana nel palazzo arcivescovile assicuravano i consoli delle corporazioni “che la truppa non si sarebbe mossa che alla loro richiesta” (Palmeri, p. 318). Ma, mentre questo avveniva, il luogotenente generale dava ordine ai reparti di scendere armati nelle piazze e prendere posizione per un attacco contro i popolani in agitazione. Però, costrette a battersi tra strette viuzze, le truppe regie ebbero ben presto la peggio e il popolo rimase padrone della città. Il C. venne allora indicato come spergiuro per avere assicurato che le truppe non sarebbero intervenute. Ai primi scontri egli aveva raggiunto il luogotenente generale, che s’era imbarcato su un vascello da guerra fermo in rada, probabilmente anche per lamentarsi dell’improvviso intervento delle truppe. Ma la sua permanenza a bordo non durò a lungo e il Paternò Castello afferma, riferendo quanto asserivano i familiari del C., che fu lo stesso Naselli a rimandarlo a terra.
Ad ogni modo, volontariamente o meno, è certo che il C., lasciato il vascello su una barca di pescatori, approdò sulla spiaggia di Bagheria, presso Palermo, cercando asilo prima presso la villa del principe di Trabia e poi in quella del duca di Serradifalco. Qui però venne raggiunto da un turba di contadini in armi e “un colpo di fucile lo fe’ cadere estinto” e il suo corpo, secondo il Palmeri, sarebbe rimasto per più giorni sulla pubblica strada.
L’Amari, annotando il racconto fatto dal Palmeri, scrisse che il C. “s'era esposto al ragionevole furore del popolo, suscitandolo il giorno 16 e mettendosi alla sua testa per far gridare la costituzione del 1812, che ... vagheggiava come nobile e cronico... . Accorgendosi che prevaleva la voce di Costituzione di Spagna ... si ritrasse ... andò per imbarcarsi col luogotenente Naselli e, respinto da quello, tornò a terra con tutte le sembianze di traditore”.
Fonti e Bibl.: C. E. Di Blasi, Storia cronol. dei viceré, presidenti e luogotenenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, pp. 697, 753, 756; G. Aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra all’epoca della Costituzione del 1812, Palermo 1848, p. 149; P. Balsamo, Mem. segrete sulla istoria moderna del Regno di Sicilia, a cura di F. Renda, Palermo 1969, pp. ss, 86, 178, 193, 199; F. Paternò Castello, Saggio storico e politico sulla Sicilia dal cominciamento del secolo XIX al 1830, a cura di S. M. Ganci, Palermo 1969, pp. 26, ss, 149, 152, 166, 214; N. Palmeri, Saggio stor. e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia, a cura di E. Sciacca, Palermo 1972, pp. 230, 237, 242, 316, 318, 323 e n., 359, 367; G. Bianco, La Sicilia durante l’occupaz. inglese (1806-1815), Palermo 1902, pp. 40, 114, 208, 211 s.; Id., La rivoluzione siciliana del 1820, Firenze 1905, pp. 38, 41, 43, 53; N. Niceforo [E. Del Cerro], La Sicilia e la costituz. del 1812, in Arch. stor. sicil., XXXIX (1914), pp. 290, 299; XL (1915), p. 340; XI-V (1924), p. 50; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, II, Palermo 1924, p. 462; V, ibid. 1927, p. 170; VI, ibid. 1929, p. 255; F. Renda, La Sicilia nel 1812, Caltanissetta-Roma 1963, pp. 31, 317.