DUSMET, Giuseppe Benedetto (al secolo Melchiorre)
Nacque a Palermo il 15 ag. 1818, primo di sei figli, da Luigi Dusmet Desmours e da Maria dei marchesi Dragonetti Gorgone e fu battezzato col nome di Melchiorre. Il padre, ufficiale di marina e vicedirettore dei telegrafi palermitani, discendeva da famiglia originaria delle Fiandre, trapiantata in Sicilia nel sec. XVIII al seguito di Carlo di Borbone e ricca di tradizioni militari; perciò, quando il primogenito, compiuti i primi studi nel monastero benedettino di S. Martino alle Scale, avverti il richiamo della vita monastica, si sforzò inutilmente di trattenerlo a Napoli dove la famigha si era nel frattempo trasferita. Nel 1833 il D. tornò a S. Martino, riprese i corsi umanistici e teologici, stese un primo scritto - mai edito - di "Meditazioni filosofiche sopra i vantaggi della solitudine" (1836), pubblicò un breve saggio Sul Iº canto dell'Inferno di Dante (in Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, 1837, pp. 89-101), e finalmente nel 1839, raggiunta l'età prescritta, iniziò il noviziato assumendo definitivamente il nome di Giuseppe Benedetto.
Pronunziati i voti nel 1840 e ricevuti nello stesso anno gli ordini sacri, nel 1841 il D. fu ordinato sacerdote, ma rimase nel chiostro dividendosi tra i compiti amministrativi e l'insegnamento della filosofia agli educandi, e maturando nello stesso tempo un ideale di vita fatto di ascesi e di operosa carità, in tutto e per tutto conforme al dettato della regola benedettina. Il rigore con cui già allora il D. intendeva la disciplina, se era espressione di una vocazione sincera, mal si conciliava tuttavia con lo stile di vita troppo mondano largamente diffuso presso la maggioranza degli esponenti dell'Ordine nella Sicilia prequarantottesca: questa generale inclinazione al godimento dei beni materiali, e forse una certa sensibilità, presente in taluni, per i fermenti politici dell'epoca, crearono un forte attrito tra la comunità e un elemento inflessibile come il D., tanto che il capitolo generale dell'Ordine tenutosi a Perugia nel 1847 ne dispose il trasferimento al monastero di S. Flavia a Caltanissetta.
C'erano le condizioni per un ritorno del D. a quella spiritualità che prediligeva, ma non durarono molto. Nominato priore del monastero napoletano dei Ss. Severino e Sossio nel quadro di una vasta azione di riordinamento degli istituti monastici intrapresa da Pio IX al suo ritorno a Roma, il D. restò a Napoli fino al 1852; poi, su designazione della Congregazione cassinese cui apparteneva, fu restituito in qualità di priore e amministratore al monastero di S. Flavia. Le responsabilità che il nuovo ufficio gli conferiva nel campo della gestione dell'istituto, pur se assolte con grande dedizione, non lo distolsero però dalla sua idea di una religiosità vissuta essenzialmente come testimonianza e posta al servizio di tutti i fedeli: l'esempio da lui costantemente dato di una vita austera, di un senso morale sempre vigile, di una carità tutta tesa a soccorrere gli umili e ad alleviarne le sofferenze circondò la sua figura di un prestigio e di un rispetto che ben presto si sarebbero circonfusi, nella credenza popolare, di un alone di santità destinato col tempo a consolidarsi. D'altra parte si deve osservare che questa tendenza del D. ad isolarsi dal mondo o, in alternativa, a cercare il rapporto con gli strati più poveri della società lo teneva lontano da altri ambienti, certamente più circoscritti ma in cui tuttavia nascevano esigenze di rinnovamento politico ed intellettuale con le quali forse sarebbe stato utile misurarsi.
Nel 1858 il capitolo generale promosse il D. al rango di abate e lo inviò a reggere il monastero di S. Nicolò l'Arena a Catania, celebre in passato come luogo di rigida osservanza monastica e come centro di vita intellettuale, caratteristiche che nei tempi recenti si erano entrambe venute perdendo al punto da giustificare la rappresentazione grottesca che ne avrebbe dato successivamente F. De Roberto ne I viceré, descrivendolo come il dorato ricettacolo di una aristocrazia amorale, "un luogo di eterna delizia, dove la vita passava, senza cure dell'oggi e senza paure del domani, tra lauti conviti, sontuose cerimonie, gaie conversazioni e scampagnate gioconde" (Milano 1959, p. 67). Il D. dovette perciò intervenire anzitutto su una totale rilassatezza dei costumi dei monaci, cosa che fece con tatto non disgiunto da fermezza, riuscendo a sanare almeno le situazioni più gravi; ciò però che mise a dura prova le sue qualità furono le trasformazioni politiche che la Sicilia visse nella fase dell'annessione al Regno d'Italia (nel 1860 come nel 1862 il D. ebbe a che fare con Garibaldi, e la seconda volta dovette ospitarlo a S. Nicolò con tutto il suo stato maggiore) e, più ancora, la soppressione degli Ordini religiosi privi di finalità sociale e l'incameramento dei loro beni, misura che, in una provincia come quella di Catania, dove i tre quarti della proprietà ecclesiastica appartenevano ai benedettini, colpiva in particolar modo il monastero a lui affidato. Il D. dovette piegarsi di fronte all'espulsione dei monaci dall'abbazia, ma bisogna dire che accettò l'applicazione della legge con serena rassegnazione, in ciò favorito dalla sua severa concezione della presenza dei religiosi nella vita terrena: "Dominus dedit, Dominus abstulit, sit nomen Domini benedicturn" scrisse perciò al prefetto di Catania il 25 ott. 1866, dimostrando che la difesa di quelli che anche lui considerava i diritti storici della Chiesa non lo avrebbe comunque indotto a porsi contro le leggi dello Stato.
Pochi mesi dopo, il 22 febbr. 1867, quasi a ribadire la vitalità dell'Ordine, Pio IX preconizzava il D. arcivescovo di Catania, mettendolo cosi a capo di una diocesi che, vacante dal 1861, aveva la caratteristica della "parrocchialità universa", era cioè tutta accentrata nella persona del presule che governava le parrocchie della sua giurisdizione per mezzo di vicari. Con il papa il D. instaurò d'allora in poi un rapporto di grande devozione: Pio IX era per lui il simbolo dell'unità di una Chiesa che solo restando compatta avrebbe potuto superare la bufera rivoluzionaria. Perciò il D., pur continuando a vivere secondo lo spirito contemplativo del cenobio, cercò con ogni mezzo di stimolare nei fedeli attraverso le lettere pastorali l'amore per il pontefice, si fece promotore di collette popolari e di pellegrinaggi e, all'epoca del concilio vaticano I, membro della commissione degli Ordini religiosi ed esponente tra i più autorevoli dell'episcopato meridionale, sostenne le tesi infallibiliste prima firmando la petizione del 28 genn. 1870, quindi prendendo la parola il 14 maggio 1870 "con voce esile", stando alla testimonianza di un religioso (Maccarrone, I, p. 403).
Nei ventisette anni in cui resse la diocesi di Catania il D. operò con instancabile fervore prima di tutto in direzione di una riforma dei costumi del clero: come provano i verbali delle cinque visite pastorali da lui compiute tra il 1867 e il 1893, questo era ancora una volta l'aspetto che gli stava più a cuore. Dopo averlo avviato a soluzione, si diede a coprire il territorio con una fitta rete di interventi non solo nel campo del culto (nella sola Catania furono aperte ventiquattro chiese, di cui sette di nuova costruzione), ma anche in quello dell'assistenza e dell'istruzione, tanto da imporre la Chiesa come elemento dinamico dello sviluppo locale particolarmente in riferimento alle condizioni dei poveri: seminari, dormitori, centri di soccorso per gli anziani, scuole per giovani e operai aperte d'intesa coi salesiani - in ciò avvalendosi della collaborazione di don Bosco - nonché altre iniziative intese a preparare un clero più cosciente della propria missione, rappresentano l'impronta che il D. lasciò nella diocesi di Catania al termine di una vita del tutto spoglia di ambizioni personali. Questo attivismo non assunse connotati politici, se non nella misura in cui il modello di società perseguito dal D. si poneva naturalmente in antitesi con lo Stato combattuto, in quanto usurpatore dei diritti di Roma, non con intenti legittimistici ma solo sul piano dell'affermazione di valori trascendenti di fronte ad una classe politica che aveva compiuto a suo dire la "deificazione della natura e della ragione" (Il mese di maggio e il Concilio ecumenico, Catania 1869, p. 12).
Coerentemente con l'invito, da lui rivolto ai fedeli nel 1869, di "progredire d'accordo col potere civile in tutto ciò che non lede la coscienza né osta alle leggi della Chiesa" (cit. da Cicala, p. 104), stampa e circoli legati alla diocesi sostenevano l'intransigenza ma solo come riaffermazione dei principî cattolici. Forse era un limite caratteriale, forse era il riflesso d'una natura aristocratica, ma nel D. c'era la convinzione che se la Chiesa avesse raccolto una sfida puramente politica sarebbe scesa sullo stesso terreno dei suoi nemici e ne avrebbe accettato i metodi; quindi la vera reazione consisteva nel frenare il declino morale del clero, rilanciare le vocazioni, esercitare la carità verso il prossimo e restaurare la spiritualità. Di qui la stima profonda che tutti gli ambienti cittadini riversarono sul presule e di qui anche il disappunto dei responsabili dell'Opera dei congressi quando constatavano una certa impenetrabilità alle loro forme organizzative. Le vicende di Catanha, colpita di volta in volta da epidemie di colera (1867, 1887), carestie (1880), disastri naturali, quali il ciclone del 1884 e l'eruzione dell'Etna del 1886, videro il D. sempre vicino al suo popolo, sollecito delle sofferenze e pronto a intervenire anche di persona per alleviarle, rafforzando la già acquisita fama di santità con il segno del miracolo che la voce pubblica gli attribuiva per aver fermato la lava dell'Etna ormai prossima ai centri abitati. Spesso gli accadeva di dover temperare l'esuberante religiosità dei Siciliani con il proprio rigore di benedettino, ma nello stesso tempo favoriva il diffondersi di una pietà spontanea, fatta di fede tradizionale e di devozione alla Madonna. Talvolta non sapeva resistere alla facile tentazione di interpretare le sciagure come la risposta della collera divina all'attacco portato da una civiltà materialista "all'inviolabilità dei nostri dommi e alle sante credenze lasciateci dai Padri nostri" (Dopo il colera del 1867 l'arcivescovo di Catania ai suoi diocesani, Catania 1867, pp. 19 s.), ma gli era certo più congeniale un atteggiamento di paterna comprensione.
Anche questo faceva del D. l'uomo di punta della lenta e silenziosa riscossa del monachesimo: egli era infatti rimasto fedele alle sue origini e forse per ciò aveva rifiutato nel 1882 la nunziatura di Madrid offertagli da Leone XIII. A lui fu affidato l'incarico di presiedere a Roma dal 25 nov. al 4 dic. 1886 il congresso degli abati benedettini di tutto il mondo, visto dal papa come primo atto di una politica di centralizzazione e di rilancio su cui si innestava anche l'apertura d'un collegio internazionale benedettino a S.Anselmo sull'Aventino, pur essa compiuta dal D. all'inizio del 1888. Se applicata alla lettera, la volontà di Leone XIII avrebbe provocato uno snaturamento delle Congregazioni che traevano vitalità proprio dal fatto di essere radicate ciascuna in un suo diverso terreno umano e culturale. Per questo motivo il D., presiedendo dall'aprile del 1893 l'assemblea di tutte le Congregazioni in vista della creazione della confederazione benedettina, volle assicurare i convenuti che la progettata riforma non avrebbe leso certe prerogative nazionali e che l'autonomia delle singole Congregazioni sarebbe stata salvaguardata. Il che effettivamente avvenne, anche se "qualche colpo a diritti e prerogative preesistenti non fu risparmiato" (Leccisotti, p. 159).
Intanto l'11 nov. 1889 il D., primo benedettino dopo il Pitra, era stato promosso al cardinalato, ma ciò non mutò affatto la sua vita, che continuò a svolgersi in diocesi e al servizio della gente, nel segno di una totale continuità con il passato.
Egli si spense a Catania il 4 apr. 1894.
Dieci anni dopo, sembra su pressione del socialista G. De Felice Giuffrida, il governo autorizzò la traslazione dei suoi resti dal cimitero alla cattedrale. Il trasporto ebbe luogo con una impressionante partecipazione di folla: diffusa era la certezza della santità del D., ma il processo di beatificazione poté essere avviato con l'introduzione della causa relativa presso la S. Congregazione dei riti solo nel 1948, con un ritardo che da taluno si disse dovuto al timore che la rivendicazione dei meriti del D. verso i poveri suonasse come critica verso il suo successore, mons. G. Francica Nava, che da quel tipo di vita si era tenuto del tutto lontano (Positio super introductione causae, 4, Summarium ex officio, Roma 1948). Il "decreto sopra le virtù", emesso dalla Congregazione il 15 luglio 1965, stabilendo che il D. morto in odore di santità possa essere definito "venerabile", va considerato come un passo decisivo verso la beatificazione, avvenuta il 25 sett. 1988.
Fonti e Bibl.: Dopo G. Amadio, Il card. D., Catania 1926, cui va il merito di aver raccolto molte testimonianze orali, la più completa biografia del D., tutta condotta su materiale archivistico di prima mano, è quella del cassinese T. Leccisotti, Il card. D., Catania 1962, pur se a tratti eccessivamente apologetica. La vasta bibliografia ivi citata, pp. XV-XVIII, trascura solo alcuni lavori di secondaria importanza quali quelli ricordati, ad es., in calce alla voce compilata da R. Aubert per il Dict. d'hist. et de géogr. eccl., XIV, Paris 1968, coll. 1028 s. I titoli utilizzati dal Leccisotti si possono integrare, per notizie sulla carriera del D., con R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica mediiet recentions aevi, VIII, Patavii 1978, ad Indicem; tra le biografie minori, poco aggiungono quella del Diz. dei Siciliani illustri, Palermo 1939, subvoce, o l'altra di G. Di Fazio in Diz. st. del movime. catt. in Italia, III, 1, Torino 1984, sub voce.
Su un piano più generale si veda R. Aubert, Storia della Chiesa … Il pontificato di Pio IX…, Torino 1968, pp. 763, 776, e la Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, IX, Milano 1979, ad Indicem. Notizie sulla partecipazione del D. al concilio in M. Maccarrone, Ilconcilio Vaticano I e il "Giornale" di mons. Arrigoni, Padova 1966, ad Indicem, e in G. G. Franco, Appunti storici sopra il concilio Vaticano, a cura di G. Martina, Roma 1972, ad Indicem; inoltre Ch. Weber, Quellen und Studien zur Kurie und zur Vatikanischen Politik unter Leo XIII…., Tübingen 1973, p. 329, che riporta un giudizio di R. De Cesare. La ricerca più recente si è soffermata sul rapporto col pontefice (R. L. Azzaro, Pio IXin undici lettere ined., in Riv. rosminiana, LXXII [1978], pp. 438-452) e soprattutto sull'azione del D. nell'Italia postunitaria nel quadro della riorganizzazione politica dei cattolici: in proposito si vedano A. Cicala, Mons. D. e gli inizi del movimento cattolico a Catania (1867-1880), in Chiesa e religiosità in Italia dopo l'Unità (1861-1878). Comunicazioni, I, Milano 1973, pp. 101-121; S. Tramontin, L'incidenza delle agitazioni dei Fasci nel movimento cattolicosicil., in I Fasci siciliani, II, Bari 1976, pp. 325ss.; G. Di Fazio, D. a Catania (1867-1894): Chiesa e mov. catt., in Arch. st. per la Sicilia orient., LXXIII (1977), pp. 89-138; La diocesi di Catania alla fine dell'Ottocento nella visita pastorale di G. Francica Nava, a cura di G. Di Fazio, Roma 1982, ad Indicem; G. Zito, La vita del monastero catanese S. Nicola l'Arena dalle ined. disposizioni dell'abate D.V…., in Sjnaxis, IV (1986), pp. 477-534; Id., La cura pastorale a Catania negli anni dell'episcopato D., Acireale 1987. Per i rapporti con Catania e le forze politiche locali v. F. Renda, G. De Felice Giuffrida capo del mov. popolare catanese, in Movimento operaio, VI (1954), pp. 902, 907, e G. Giarrizzo, Catania, Bari 1988, ad Ind.
G. Monsagrati