ARTALE, Giuseppe
Nacque nel 1628, a Catania, come si deduce dal suo testamento rinvenuto e pubblicato da U. Prota Giurleo.
Di famiglia nobile, che si vantava di discendere da un don Tristano Artale, venuto m Sicilia dalla Catalogna al seguito di re Martino, fin da giovanissimo esaltò la sua fantasia in una visione eroico-cavalleresca della vita, in un amore per le grandi imprese, nato in parte sotto stimoli letterari (s'entusiasmava, fanciullo, dei passi guerreschi dell'Orlando Furioso di cui recitava lunghi brani a memoria) e prodotto d'altra parte dai costumi rissosi e alteri della società del tempo.
Appena quindicenne, s'offese per un innocente scherzo d'un gentiluomo, che aveva augurato alla sua spada di non aver mai a far danno a carne battezzata; si batté con lui a duello e lo ferì mortalmente. Dovette perciò riparare in un convento e il soggiorno tra i monaci lo indusse a studiare filosofia. Uscito dal suo rifugio e rimasto orfano, stette di malavoglia sotto la tutela di uno zio, morto il quale decise di cercare fortuna nella carriera militare. Con nobilesca generosità, dotò di tutti i suoi beni, che non dovevano essere molti, l'ultima parente rimastagli affinché si maritasse da "pari suo" e partì per la guerra di Candia su una galea dell'Ordine di Malta. A Candia compì imprese coraggiose che gli meritarono l'ascrizione all'ordine aureato costantiniano di S. Giorgio. Tornò prima del 1654 in Italia e Napoli fu la sua residenza abituale, tanto da venir considerato dal Toppi uno scrittore napoletano.
Abilissimo nella scherma, coraggioso, collerico, prontissimo nel ribattere alla minima offesa con la lingua e con la spada, rappresentò per i contemporanei un esempio tipico della spavalderia barocca, innamorata dei bei gesti, disposta a tutto rischiare per difendere il punto d'onore e la "riputazione".. Fu protagonista di scontri leggendari, quale quello, cui egli fa cenno nelle sue poesie, che l'oppose, solo e con successo, a otto avversari. Al soggiorno napoletano l'A. alternò frequenti viaggi: fu certamente a Venezia per la pubblicazione delle sue opere, accompagnò in giro per l'Italia Ernesto di Brunswick-Lüneburg, di cui fu capitano della guardia, cercò protezione a Vienna presso l'imperatore Leopoldo I e la sua fama di feroce duellista s'affermò anche in Germania dove era conosciuto come "der Blutgierige Ritter", il "cavaliere sanguinario".
Cominciò a comporre versi almeno fin dal tempo della sua partenza per Candia; e continuò, tornato in Italia, ad intrecciare alle sue avventure di spadaccino le esercitazioni letterarie. Già nelle sue prime raccolte di liriche (Della Enciclopedia poetica, libri I e II) la sua poetica è ben riconoscibile. L'A. ( è suo il famoso e quasi proverbiale sonetto sulla Maddalena che bagna coi "soli" [gli occhi] e asciuga coi "fiumi" [i capelli]) appartiene a quello che il Croce chiama il "secentismo del secentismo": è cioè un continuatore del Marino in una direzione particolare, di esasperazione del concettismo ben di là dai modi medi del poeta dell'Adone.
Tale formula di barocco estremista poco si presta a riprendere gli spunti idillicosentimentali del primo barocco: spunti che l'A. raggela in troppo risentiti contrapposti; è adatta invece a celebrare attraverso argute iperboli i fasti di un'albagiosa società nobiliare (frequentissimi sono i sonetti encomiastici dell'A.) e a costruire variazioni concettoso-moraleggianti intorno ad argomenti gravi e cupi. Un primo spunto offrono in tal senso all'A. proprio i casi della sua vita avventurosa; egli dà così una personale interpretazione del gusto secentista per la variazione peregrina del repertorio amoroso, proiettando la tradizionale casistica erotica su di uno scenario di guerre e duelli. Accanto ai componimenti ispirati alle sue vicende di uomo d'armi, si allineano, con risultati artistici modesti, ma con una indubbia coerenza di gusto, alcune poesie d'amore legate al motivo altero e aspro della sua eroica e sfortunata costanza d'innamorato, e altre che riflettono (per un gusto del truce e del forte più che per una profonda partecipazione sentimentale) alcuni aspetti tragici del nostro Seicento: le inumane sofferenze del galeotto (l'ode Il forzato), o i funesti casi della peste napoletana del 1656 (nell'elegia La bellezza atterrata e nell'epitalamio Partenope restaurata).
L'A. si avvicina anche al romanzo, tocca cioè il genere letterario nel quale nel Seicento trovarono più spesso voce quegli ideali di spavalderia cavalleresca che ispirano la sua vita e alcune sue liriche. Pubblica nel 1660 il Cordimarte in cui narra concettisticamente le avventure di un prode guerriero e i suoi amori per la regina di Bisanzio. Alla tradizione secentesca di avventurosità galante si rifà anche un suo melodramma, Pasife ovvero l'impossibile fatto Possibile,edito nel 1661 e musicato dal padre Daniello Castrovillari; in cui, con un gusto di pastiche tipicamente barocco, mescola a una trama amoroso-cavalleresca (gli amori di Bimarte per Alminda) il mito classico, un po, mutato e corretto, di Pasife. Nel melodramma, indotto (come dichiara nella prefazione) dalla necessità del genere e dalle richieste del pubblico, modifica un poco il suo, stile, non correggendo, come è stato detto, il suo concettismo, ma dandogli un diverso tono, accentuando cioè, cosa che accadeva di rado nelle sue liriche, il carattere sorridente (o per lo meno ambiguo tra serietà e sorriso) dell'arguzia secentistica.All'età di quarant'anni la podagra, la chiragra e la sifilide cominciano a tormentare l'A. e gli impediscono l'esercizio delle armi, arrestando così "la nave dei suoi prodigiosi trionfi nel mare nemico" (C. A. Clabbes [V. C. Cabballone], Vita di Don G. A., p. 348). Peggiorarono anche le sue condizioni economiche.
La tristezza della seconda parte della sua vita accresce il carattere cupo del suo marimsmo. Vi si unisce un più cosciente impegno di poetica moralistica; l'A. partecipa alla ricerca, diffusa nel secondo barocco, di una poesia che oltre a dare "fiori" dia anche "frutti" (racchiuda cioè intenti edificanti entro gli spiritosi concetti), e appunto alla metafora dei "frutti", molto frequente nel linguaggio critico secentesco, si ispira il titolo del terzo libro Dell'Enciclopedia poetica: L'Alloro fruttuoso (1 ediz.: 1672). In esso, che è, almeno nelle sue parti più compatte, l'opera migliore dell'A., lo scrittore, che si presenta come un convertito dalle scapestrataggini giovanili ("io stesso - scrive nella prefazione - se coll'arco di Apollo innalzai le mie colpe, or con l'arco della rimembranza di morte, le saetto e le abbatto"), dà alla sua interpretazione "aspra" del marinismo un contenuto sentimentale preciso che nella produzione precedente spesso mancava: si tratta di un amaro e totale pessimismo che ha forti accenti di sincerità. La maggiore partecipazione umana e la maggiore consapevolezza della propria poetica non conducono ad autentica poesia; portano però lo scrittore a un ulteriore acquisto di sicurezza letteraria, sicché proprio tenendo conto dell'Alloro fruttuoso meglio si capisce la fama che godette l'A. tra i suoi contemporanei, fossero essi suoi ammiratori, o fossero invece i nemici del marinismo, che in lui vedevano uno degli esponenti più in vista dello stile che essi combattevano.
Nell'Alloro fruttuoso, il truce vocabolario peregrino, i colori cupi, le antitesi stravolte delle prime poesie non sono più fine a sé stessi, ma servono a ribadire, in tetre forme epigrammatiche, una visione dei mondo come perenne rovina e tragico imbroglio. È un sentimento senza sfumature, senza ripensamenti più pacati, disposto, perciò naturalmente a condensarsi in stilemi barocchi: l'uomo è corrotto da sempre: insieme "ebber natale / fratricidi germani uomo e peccato" (sonetto Mundus numquam mundus);non è possibile in terra nessuna felicità sicura: "se ti bacia il destin, Giuda è di morte" (son. Mondana felicità ingannevole), gli uomini credono "palpabile il gioire / ed è un'ombra dipinta in lontananza" (son. Ravvedimento); ogni bene di quaggiù nasconde in sé il suo opposto: il "trionfo" è "duolo", il "piacere" "pazzia", la "vita" "è morir" (son. Mondo tutto bugiardo), "ombra e sozzura è la beltade" (son. Conversione di S. Francesco Borgia), la vita "non riserba di certo altro che morte" (son. Nil certius mori). Su questa via di totale (e sbrigativa) negazione delle gioie terrene, l'A. riprende vecchi spunti secentisti con impegno ancora più risentito: perfeziona in un'ampia ode il tema, che era già stato della prima generazione barocca (del Preti per es.), dell'orologio, simbolo della fragilità umana, ponendolo sullo sfondo di un paesaggio deserto e sconvolto e riferendolo più direttamente ai suoi casi biografici, alla malattia che lo consuma (Terminava un suo malore il giro dell'anno quando, necessitato perciò a ridursi in loco solitario e tormentoso nell'isola di Pitecusa, s'accorge di non avere quindi altro compagno che un oriuolo a polvere). Anche la spavalderia che aveva animato la sua feroce vita di spadaccino confluisce nell'intonazione pessimistica dell'Alloro fruttuoso: egli domanda tregua alle disgrazie che lo colpiscono, non perché ne sia vmto, ma perché esse sono inutili: "è van per me che non so ceder mai 1 rinforzarsi le pene una con una" (son. Chiede pace a' suoi disastri).Nel mutato clima di queste poesie l'alterezza barocca acquista però un vigore morale (sia pure tutto volto all'estemo, alla formula sonante) che altrove era assente, diventa volontà di non rinunziare alla naturale fierezza nonostante le miserie della vita. Ppossibile così anche all'A. un recupero energico di antichi suoi motivi, quello dell'amore, ad esempio, come esercizio di costanza e fedeltà: l'A. ha perduto la possibilità di amare altamente, ma non si piegherà per questo a facili amori; la superbia del vecchio duellista vi si rifiuta: "ché a magnanime imprese uso, un coraggio - di facil palme il trionfar non cura". "o il tutto o il nulla" - afferma una volta l'A., ed è un po, come l'"impresa", di tutta la tensione dell'Alloro fruttuoso, sincera ma poco articolata, enfatica sempre - "e se restai perdente / dell'offerta del poco odio, l'invito cha magnanimo cor più giova il niente / che di vil qualità premio aborrito"(ode La rimembranza d'un gran fuoco l'ha sempre renduto incapace d'altri affetti).
La morte, spesso invocata nell'Allora fruttuoso, raggiunge l'A. proprio quando stava raccogliendo l'opera sua in una edizione quasi completa, presso il Bulifon a Napoli. Nel dicembre del 1678 poté comunque correggere la stampa dei tre libri dell'Enciclopedia poetica e del Cordimarte: il 13 genn. del 1679 un nuovo attacco di podagra, cui sopravvenne una febbre maligna, lo costringe a lasciare "con qualche insapore" "tra le angustie del torchio" (C. A. Clabbes, Cit., p. 25) "l'ultimo parto del suo ingegno", la tragicommedia Guerra tra i vivi e i morti,in cui si rifaceva al gusto di pastiche della Pasife,inserendo nella storia di Semiramide, trattata nei moduli eroico-galanti del romanzo barocco e del teatro alla spagnola, il mito classico di Edipo. Morì a Napoli l'11 febbr. 1679.
Opere: Dell'Enciclopedia poetica. Parte I, Perugia 1658; Cordimarte, Venezia 1660, Napoli 1679; La bellezza atterrata, Venezia 1661; Pasife ovvero l'impossibile fatto Possibile, Venezia 1661; Dell'Enciclopedia poetica intera, Venezia 1664; L'Allorofruttuoso, Napoli 1672; Dell'Enciclopedia poetica, parte I, parte II, parte III (L'Alloro fruttuoso), Napoli 1679; Guerra tra i vivi e i morti, Napoli 1679.
Bibl.: C. A. Clabbes [V. C. Cabballone], Vita di Don G.A., in G. A., Dell'Encicl. Poetica, parte I, Napoli 1679, pp. 347 s.; A. Mongitore, Bibliotheca sicula, Panormi 1708, I, pp. 371 s.; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753 pp. 1143 s.; B. Croce, Saggi sulla lett. italiana del '600, Bari 1911, pp. 422, 427, 428, 430; G. Interligi, Studio su G.A., poeta, drammaturgo, romanziere del sec. XVIII, Catania 1921; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 432-33; G. B. Marino, Opere scelte di G. B. M. e dei marinisti, a cura di G. Getto, Torino 1954, pp. 405-409; Marino e Marinisii, a cura di G. G. Ferrero, Milano-Napoli 1954, pp. 1025-1031; U. Prota-Giurleo, Il cavalier A., in Il Fuidoro, nn. 3-4, marzo-aprile 1955; F. Croce, Tre lirici dell'ultimo barocco. I. Giuseppe Artale, in La rassegna della letteratura italiana, 1960, 3, pp. 393-417.