ALBERIGO, Giuseppe (Pino)
Nacque a Cuasso al Monte (Varese) il 21 gennaio 1926. Il padre, Giovanni Alberto, di famiglia poverissima, era maestro elementare. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale, rimediandone una grave forma di tubercolosi che lo tormentò per vari anni. Dal 1931 fu impiegato al Comune di Varese. Impegnato nel sociale e di grande rigore nel lavoro, ne trasmise a Pino la dedizione e il gusto. La madre, Eugenia Banfi, milanese, proveniva da una famiglia agiata che tuttavia con la morte del padre aveva perso tutte le sue sostanze. Figlio unico, già in famiglia ricevette una seria formazione cattolica: vengono probabilmente da lì le prime radici di quel suo modo di essere cattolico che si autodefinirà «cristiano comune». Un posto importante nella sua giovinezza ebbero gli zii materni, Giuseppe e Alda Banfi, con i quali trascorreva abitualmente le vacanze.
Dal 1937 Alberigo condusse gli studi medi, ginnasiali e liceali a Varese. Alla fine del 1943 si rifugiò per un breve periodo in Svizzera per evitare l’arruolamento nell’esercito di Salò. Sostenne l’esame di maturità nel 1944, da privatista, avendo saltato l’ultimo anno di corso. Nell’autunno si iscrisse all’Università cattolica, alla facoltà di giurisprudenza, e nello stesso tempo venne assunto come impiegato praticante avventizio dall’Opera pia Santa Corona, uno dei più antichi ospedali milanesi, dove lo zio era segretario generale.
All’Università stabilì un forte rapporto con Francesco Rovelli, a lungo sospettato di modernismo, e nel novembre 1948 si laureò discutendo con lui una tesi in diritto amministrativo su Le autonomie regionali. In quegli anni fu attivo nella FUCI, divenendo presidente della sezione di Varese, e contemporaneamente partecipò al movimento giovanile della democrazia cristiana. Nel 1946, al convegno nazionale della DC, sentì parlare per la prima volta di Giuseppe Dossetti. Definirsi dossettiani diverrà l’insegna dei giovani che guardavano con crescente diffidenza alla politica di De Gasperi e trovavano nelle Cronache sociali, per tanta parte animateda Dossetti, un sicuro punto di riferimento. Per Alberigo furono le lontane premesse di un incontro che, dagli anni Cinquanta, segnò profondamente tutto il suo successivo percorso di cristiano e di studioso.
Nella primavera del 1947, sul treno che da Varese lo portava a Milano, incontrò per la prima volta Angelina Nicora, frequentante anch’essa la facoltà di giurisprudenza della Cattolica. Fu un incontro decisivo per la sua vita: il sodalizio con Angelina rappresentò una componente essenziale del suo impegno religioso, sociale, politico e più tardi culturale. Inizialmente partecipò con lei a un’intensa attività religiosa e sociale all’interno di iniziative e movimenti operanti su questo duplice piano (gruppi Servire, gruppi spirituali di Notre Dame). Nell’estate del 1948, in occasione della settimana di studi del movimento Pax romana tenuta in Lussemburgo, incontrò per la prima volta Beniamino Andreatta: ne nacque un’amicizia intensa, che si rivelò più volte di fondamentale sostegno alle sue iniziative culturali.
Il 7 gennaio 1950 si sposò con Angelina e si stabilì con lei a Milano. Nel frattempo era stato promosso funzionario del Santa Corona con mansioni di vicesegretario. Insieme ad altri amici, in quello stesso anno, Pino e Angelina costituirono un gruppo, non a caso denominato la Centrale in quanto intendeva porsi come polo di incontro e di confluenza di persone e di esperienze molteplici organizzate in un impegno comune. Come recitano alcuni appunti programmatici manoscritti redatti allora, la Centrale infatti voleva essere espressione di «cristiani impegnati senza riserve e senza limiti per la gloria di Dio nel senso specifico dell’amore del prossimo», e nello stesso tempo «impegnati senza limiti e senza riserve per la costituzione di una società migliore». Criterio fondamentale del loro modo di lavorare fu il rifiuto di ogni «individualismo». Sarebbe stato un punto fermo in tutta l’attività futura di Alberigo. Non a caso, ricorrente per definire il carattere del proprio lavoro sarà il motto di Alberto Magno quaerere veritatem in dulcedine societatis. Con queste premesse vennero stabiliti periodici incontri con alcuni gruppi di operai di Sesto San Giovanni, dando vita a un’esperienza che, pur se interrotta nel 1953, lascerà profonde tracce nel modo di pensare e di lavorare di Alberigo.
In quegli stessi anni si fece crescente la consapevolezza del progressivo venir meno delle speranze di rinnovamento seguite al chiudersi della guerra. Si registrava la caduta delle «illusioni» del 1945. Il clima appariva «buio e difficile». Non erano solo potenti forze conservatrici a tutelare l’intangibilità del «sistema». Era la stessa Resistenza che agli occhi di quei giovani si impoveriva «ad atto di ribellione generosa», incapace però di cogliere «il significato di fondo più recondito e insidioso» del fascismo. Erano mancati, questa in sintesi la conclusione della loro analisi, gli strumenti concettuali e politici adeguati per avviare un effettivo rinnovamento della società e un mutamento nel sistema. Si era creduto in una sorta di benefica «automaticità» della riconquistata libertà nel dare vita a «una sistemazione adeguata dei rapporti sociali». Il proposito, perciò, fu di lavorare in una prospettiva di «rottura democratica del sistema», più in termini di preparazione che di azione. Catastrofico inoltre veniva giudicato l’aver creduto «ad una supposta funzione guida dei cattolici», con il risultato che «la assoluta carenza di maturazione della loro vocazione civile» ha finito col reclamare una crescente «supplenza ecclesiale» facendo sì «che lo stato italiano postfascista» ha dovuto «ad un certo momento scoprirsi privo di un proprio asse e prigioniero dei sottoprodotti del mondo cattolico».
La delusione politica, che coinvolse pienamente la democrazia cristiana, si accompagnò dunque a un occhio fortemente critico per gli orientamenti della Chiesa in Italia. Erano idee, giudizi, constatazioni, prospettive sulla base delle quali si realizzò e prese corpo l’incontro di quei giovani con Dossetti. In quegli stessi anni infatti Dossetti stava maturando il suo distacco dall’impegno politico diretto alla luce di un giudizio estremamente critico sia della situazione italiana e internazionale, considerata pericolosamente bloccata e rispetto alla quale solo forme di contenimento venivano ritenute ormai possibili, sia dei modi di essere e degli orientamenti della Chiesa, ritenuti del tutto inadeguati a far fronte alla criticità del momento (l’episcopato dipende totalmente da Gedda, dirà nell’incontro di Rossena del 4-5 agosto 1951). Furono le due persuasioni che spinsero Dossetti a scegliere una prospettiva di più lungo periodo e di più larga visione, che aveva nella scelta religiosa comunitaria (con una particolare attenzione alla condizione dei poveri) e nell’attività di ricerca e di studio i propri assi portanti. Da qui il suo raccogliere intorno a sé giovani disponibili a tali prospettive e l’infittirsi, in quei primi anni Cinquanta, degli incontri e delle discussioni per dare loro una forma compiuta. Tra questi giovani figuravano anche Pino e Angelina.
I loro primi incontri con Dossetti risalivano probabilmente al 1950 o all’inizio del 1951. Su suo invito, il 4 e 5 agosto e il 1° e 2 settembre 1951, parteciparono entrambi agli incontri di Rossena, dove Dossetti illustrò i termini generali della propria analisi, ulteriormente approfonditi e precisati in alcune riunioni a Milano e in un nuovo incontro a Rossena nel settembre 1952. Furono le premesse per la costituzione da parte sua del Centro di documentazione con sede a Bologna, dove da poco aveva iniziato il suo episcopato Giacomo Lercaro, da lui conosciuto e apprezzato in occasione di un ritiro spirituale quando era ancora arcivescovo di Ravenna. Ed è a Lercaro che il 4 settembre 1952 egli espose la sua idea di creare un «istituto di ricerca per laici, libero da legami universitari, unito da un vincolo di fede e di preghiera» (L’officina, p. 33). Nel novembre 1952 ebbe inizio l’impianto materiale del Centro, in alcuni locali di via San Vitale presi in affitto dall’Opera pia degli asili infantili, e si avviò la costituzione di quella che nel corso degli anni sarebbe diventata un’imponente, e unica nel suo genere, biblioteca di scienze religiose. Nel frattempo, l’8 ottobre 1951, Dossetti si era dimesso dalla direzione e dal consiglio nazionale della Democrazia cristiana (DC), cui seguirono, nel luglio 1952, le dimissioni da deputato.
Un rigoroso impegno religioso comunitario e la questione Chiesa assumevano nella prospettiva che Dossetti intese dare al Centro un posto centrale per non dire esclusivo. Come scrisse in un piano di studi redatto alla fine del 1953 lo scopo era di prestare «aliquod auxilium, però intenzionale, specializzato e permanente, per almeno alcuni dei settori più importanti della conoscenza riflessa sistematica che la Chiesa deve avere di sé e del flusso dei suoi rapporti con l’ordine civile» (Alberigo, 1998, p. 56). La piena autonomia nel proprio lavoro da ogni istituzione civile o ecclesiastica si accompagnava però allo stabilimento di un rapporto specifico di dipendenza spirituale dall’arcivescovo, cui sarebbe stata periodicamente presentata una relazione sulla vita e l’attività del Centro. L’impegno a pronunciare il giuramento antimodernista ribadì ulteriormente la volontà di piena ortodossia dei suoi membri.
Il 27 giugno 1953 Dossetti offrì a Pino e ad Angelina di trasferirsi a Bologna per lavorare con lui (così risulta da un diario che Alberigo tenne dall’agosto di quell’anno – Ruggieri, 2008, p. 704). Non fu evidentemente una decisione facile da assumere: entrambi erano consapevoli che il cambiamento di vita che si prospettava era radicale. Seguirono dolorose settimane di incertezza e discussioni. I pareri dei sacerdoti di loro fiducia e degli amici cui si rivolsero per un consiglio erano divisi. Le famiglie erano decisamente contrarie: temevano che la perdita del lavoro per un futuro denso di incognite fosse da scoraggiare «con ogni mezzo». Ma l’attrattiva rappresentata dalla proposta di Dossetti era troppo forte: in essa, come scrisse Angelina in un’appassionata testimonianza in suo ricordo, «Pino vedeva concretamente la possibilità di sottrarsi alla “carriera” di buon funzionario che si era trovato sulle spalle», per partecipare invece a «una comunità di lavoro scientifico tra laici» nella quale poter realizzare nello stesso tempo il proprio impegno e la propria responsabilità nei confronti della Chiesa (Angelina Alberigo, 2008, p. 905). Con il 1° gennaio 1954 Pino e Angelina si trasferirono a Bologna. Ne seguì la rottura con le due famiglie e con gli zii Banfi, ricomposta solo dopo la nascita della prima figlia. Nell’autunno li raggiunse anche Paolo Prodi, che di Angelina avrebbe sposato la sorella.
Con l’arrivo a Bologna ebbe inizio l’attività di ricerca scientifica di Alberigo e quello che, pur non senza aggiustamenti nelle proprie prospettive, può ben definirsi l’impegno costante e assorbente della sua vita. Da questo punto di vista gli anni Cinquanta furono caratterizzati in particolare da due aspetti. Da una parte lo stretto rapporto che, su suggerimento di Dossetti, egli stabilì con Delio Cantimori e Hubert Jedin, in vista di avviare una serie di ricerche sul primo Cinquecento e il concilio di Trento in quanto tornante decisivo per il modo di porsi della Chiesa in termini tuttora operanti nei suoi rapporti con la società. Il loro insegnamento avrebbe lasciato una traccia profonda nel suo modo di fare ricerca storica: la consapevolezza in particolare che la sua base imprescindibile sta nella raccolta e nello studio dell’insieme delle fonti che il passato ci ha lasciato, uno studio però che andava condotto con ampiezza di orizzonti e in piena libertà da condizionamenti apologetici o propagandistici. Non è raro il ricorso da parte sua a formulazioni che ricalcano quella celeberrima di Leopold von Ranke per definire lo scopo del suo lavoro, «di ricostruire cioè gli eventi come si sono effettivamente svolti, senza omissioni» (Alberigo, 1991, p. 24, in n.*; Alberigo, 1999, p. 16). Da Cantimori inoltre Alberigo ricavò l’insegnamento che la storia della Chiesa è storia come tutte le altre, da studiare e da capire anche nei suoi nessi con la storia civile, ed è storia perciò estranea e avulsa dal sistema della teologia. Egli rompeva così decisamente con una tradizione di studi che sottoponeva lo studio della storia della Chiesa alle definizioni e ai criteri offerti dalla teologia, e dunque, in ultima istanza, ne faceva ambito riservato a quanti ne condividessero fede e dottrina.
Un soggiorno a Bonn, a metà degli anni Cinquanta, per studiare con Jedin, venne interrotto per la gravidanza di Angelina (ad Anna, nata nel marzo 1956, seguirono Stefano, nato nell’aprile 1962, e undici anni dopo Paola, nata nel luglio 1973). Nel 1956 diventò assistente volontario di Cantimori. Con la fine del 1959 arrivò il molto atteso posto di assistente di ruolo, con il conseguente concorso, dopo che nella primavera aveva ottenuto la libera docenza in storia della Chiesa. Così nel gennaio 1960 la facoltà fiorentina gli attribuì l’incarico di storia della Chiesa, introdotta nel frattempo nel suo statuto. Era un primo riconoscimento accademico dell’importanza e del valore del blocco di ricerche condotte da Alberigo in quegli anni: tra una nutrita serie di saggi spiccano in particolare il volume I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1547), pubblicato dalla Sansoni nel 1959, di cui Cantimori, nella sua Prefazione, segnalò la novità anche dal punto di vista del metodo, e quello dedicato alla riforma protestante, edito da Garzanti in quello stesso anno. Merita sottolineare come Alberigo vi rilevasse con forza (e non era affermazione scontata in un contesto cattolico) come una comprensione adeguata della frattura religiosa del XVI secolo dovesse considerare in primo luogo la natura essenzialmente religiosa ed ecclesiale dei primi grandi riformatori e del vasto movimento di consensi che trasformò, irresistibilmente, singole esperienze spirituali in un moto storico travolgente.
L’altro aspetto che condizionò profondamente la vita di Alberigo negli anni Cinquanta fu il progressivo deteriorarsi dei rapporti interni al Centro e in particolare il contrasto che lo oppose a Dossetti. Le loro radici stavano nel rapido profilarsi di una diversità di vocazioni tra i membri del Centro. L’ottica con cui Dossetti guardava ai caratteri che dovevano contraddistinguerli privilegiava chiaramente una prospettiva che sarebbe sfociata nella formazione di una famiglia monastica. In alcuni appunti redatti nel dicembre 1954 sulla forma communitatis egli definì la comunità come «una famiglia di credenti, interiormente “consacrati”, generata ed alimentata dall’adorazione e dall’abbandono nella convivenza coi minimi e nel lavoro, in ostensione ad essi di una “Chiesa santa e immacolata” già oggi […]» (Dossetti, 1954, p. 110). Nella rigida costruzione dei diversi momenti che dovevano scandire la giornata, le diverse pratiche religiose, la meditazione, la lettura biblica in comune occupavano di gran lunga lo spazio maggiore. Lo studio e la ricerca ne restavano largamente subordinati. Come scrisse Angelina, «lo scontro sulla priorità del lavoro nella vita dell’Istituto fu uno dei momenti più aspri negli anni di sofferta tensione» tra Alberigo e Dossetti (Angelina Alberigo, 2008, p. 905). Non infirmò «il legame profondissimo di affetto, di condivisione che legò Pino a Dossetti» (ibid., p. 904), ma impose distinzioni e divisioni che furono sentite come dolorose. In una lettera a Dossetti del marzo 1955, rivendicando le ragioni che avevano portato lui e altri al Centro, Alberigo fu molto esplicito: «Per noi fare del lavoro un ‘ritmo’ subordinato e secondario della nostra vita sarebbe – a mio avviso – cambiare radicalmente essere» (Ruggieri, 2008, p. 713). La fusione tra l’aspetto scientifico e quello religioso si stava rivelando dunque irrealizzabile. Mentre un gruppo di sorelle, cui si aggiunsero lo stesso Dossetti e un altro membro del Centro, dava vita alla Piccola famiglia dell’Annunziata (nel dicembre 1955 Lercaro ne approvò oralmente la regola), netto si palesò il rifiuto di tale prospettiva da parte di chi era entrato ed entrava nel Centro con la prospettiva di lavorare in ambito culturale. Ne diede ulteriore conferma la ‘fuga’ di Paolo Prodi a Parigi nella primavera del 1955 (Menozzi, 1993, p. 366).
Le tensioni si accrebbero quando nell’autunno Dossetti accettò, in «sofferta obbedienza» a un ordine di Lercaro, di presentarsi capolista della DC alle elezioni amministrative di Bologna della primavera successiva per cercare di togliere il governo del comune ai comunisti (Battelli, 2010, p. 870 ss.). Non si trattò solo della rottura che si attuava così del ‘patto’ che stava alla base della costituzione stessa del Centro, di evitare cioè ogni forma attivistica o politicistica. La stessa idea di ‘obbedienza’, per Dossetti doverosa obbedienza («obbedienza terribile» come la definì Franca Magistretti – Magistretti, 2003, p. 18), espressa dalla sua sottomissione all’ordine di Lercaro, strideva con la rivendicazione di autonomia che agli occhi di Pino e di Angelina (ma anche di altri) doveva caratterizzare l’opera dei laici cattolici nella vita culturale e politica. Non a caso, in un documento redatto da Alberigo nell’autunno 1958 sulle prospettive del Centro, pur confermando «un atteggiamento di totale continua e umile apertura e semplicità nei confronti della gerarchia che, senza riconoscimenti o sanzioni, si esprima nella notizia data all’ordinario del luogo sull’andamento e gli oggetti della ricerca», egli ebbe cura di precisare che si trattava di «un rapporto diverso dalla dipendenza gerarchica o dalla missione apostolica, meno immediato di questi, ma non meno profondo, che tenga conto dell’ambito scelto – la ricerca scientifica – e delle esigenze intrinseche di rigore e di verità ad esso proprie» (Alberigo, 2003, p. 147).
Le premesse per una ‘separazione’ c’erano tutte. Dossetti ne informò Lercaro il 13 novembre 1957: la faticosa ricerca di un compromesso tra la tendenza di una parte a costituirsi in una vera e propria famiglia religiosa e il gruppo che rivendicava nello studio il centro del proprio impegno, era fallita.
Per l’insieme di vicende appena ricordate la presenza di Dossetti nella vita del Centro si era fortemente allentata, pur continuando ad esercitarne formalmente la funzione direttiva. Alla fine del 1956 aveva presentato le dimissioni da professore universitario, e in quello stesso dicembre aveva chiesto a Lercaro di ricevere gli ordini. Dopo molte esitazioni il cardinale l’aveva ordinato sacerdote il 6 gennaio 1959. In quello stesso mese i membri della Piccola famiglia dell’Annunziata lasciarono il Centro, che su indicazione dello stesso Dossetti si avviò a diventare, con l’apporto di nuovi membri e sotto l’egida della neocostituita Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia (agosto 1961), l’Istituto per le scienze religiose (nel 1964 ne divenne la denominazione ufficiale) (L’officina, p. 44, n. 24).
L’annuncio, del tutto imprevisto, da parte di Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, della prossima convocazione di un concilio ecumenico aprì la strada per una svolta profonda nella vita e negli impegni dell’Istituto, e, in prospettiva, negli stessi orientamenti di ricerca di Alberigo; ma anche, credo si debba aggiungere, in un più preciso definirsi sul piano pubblico del suo impegno ecclesiale, progressivamente sempre più intrecciato con la sua opera di ricerca. La sua partecipazione, insieme a Paolo Prodi, a partire dal settembre 1960, alla Conferenza cattolica per le questioni ecumeniche, che avrebbe aperto la strada al Segretariato per l’unità del cristiani, segna il profilarsi di un campo che sarà di costante riflessione e coinvolgimento, offrendo insieme un punto di vista e un approccio essenziali alle sue stesse ricerche.
Nello stesso tempo la volontà di mettersi al servizio del concilio, della sua preparazione come del suo svolgimento, ristabilì la collaborazione, che divenne in quegli anni sempre più intensa, fra l’Istituto, Dossetti e la Piccola famiglia dell’Annunziata. Primo frutto ne fu la raccolta e l’edizione delle decisioni dei concili ecumenici: quei Conciliorum oecumenicorum decreta, comprensivi anche delle decisioni di Costanza e Basilea che la controversistica anticonciliarista aveva preteso di espungere dalla serie, offerti il 1° ottobre 1962 a Giovanni XXIII come attestazione dell’impegno dell’Istituto verso il concilio che stava per aprirsi.
Nel corso delle quattro sessioni conciliari il coinvolgimento dei membri dell’antico Centro, ricompostisi sotto la guida di Dossetti, fu totale. Di primo piano, indubbiamente, il ruolo svolto da Dossetti. Ma l’intero personale dell’Istituto ne trasse spinta e beneficio.
Importanti anche per il futuro furono l’intensificarsi e l’allargarsi dei rapporti con personaggi di primo piano dell’episcopato e della ricerca teologica internazionale (di particolare intensità quelli con i domenicani Marie-Dominique Chenu e Yves Congar – L’officina, p. 44, n. 25).
Di grande rilievo fu l’apporto di Alberigo, in considerazione soprattutto delle discussioni emerse intorno al problema della collegialità come aspetto fondamentale del legame che unisce i vescovi alla figura del papa, ‘vescovo di Roma’, rendendoli partecipi di una ‘giurisdizione universale’. In vista della discussione che si sarebbe sviluppata in aula egli preparò una prima memoria ciclostilata da distribuire ai padri nel corso del 1963 (Momenti essenziali nella formazione della dottrina sulla giurisdizione universale dei vescovi) che scava nel passato le emersioni della questione. L’anno dopo fu il volume di oltre quattrocento pagine pubblicato da Herder (Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo), che trovò largo ascolto fra i padri e i periti e l’inaspettato apprezzamento in aula conciliare di mons. Pietro Parente, assessore del Santo Uffizio e noto per le sue posizioni conservatrici, il cui intervento favorì l’approvazione del paragrafo della Lumen gentium, alla cui dottrina esso faceva riferimento.
Il 26 gennaio 1965 Paolo VI, in un’udienza privata concessa ad Alberigo, ne sancì i meriti (Melloni, 2012, p. 130). Un ulteriore contributo da parte sua a tali questioni sarebbe stato, qualche anno più tardi, il volume Cardinalato e collegialità. Studi sull’Ecclesiologia tra l’XI e il XIV secolo (Firenze 1969).
Sono anni dunque, questi conciliari, decisivi per la piena maturazione dell’esperienza ecclesiale di Alberigo, e anche, vorrei dire, per l’acuirsi del suo occhio critico, nella persuasione della necessità di una piena storicizzazione del percorso della Chiesa, e per renderlo «sempre più convinto, come scrisse, che la conoscenza del fatto cristiano [può] pervenire a risultati criticamente rigorosi solo ripercorrendo la sua evoluzione dentro la storia dell’umanità, senza concedere nulla ai ricorrenti integralismi essenzialisti e senza isolare la Chiesa dal contesto culturale, sociale, politico ed economico nel quale vive, dal quale riceve influssi e impulsi e di cui costituisce uno dei fattori maggiori» (Alberigo, 1988, p. 8). Sul piano personale furono anni segnati anche dalle defatiganti vicende di una serie di concorsi di storia della Chiesa, cui, nonostante l’appoggio di Cantimori, partecipò senza successo. Era la rivalsa del mondo curiale per il ruolo svolto dall’Istituto e da Alberigo al margine del concilio. All’ennesimo ripetersi delle opposizioni e delle difficoltà, in una lettera del 10 gennaio 1965 Cantimori gli scrisse: «Come amico, tutta la mia solidarietà; come professore, il maltrattamento a te è come se fosse fatto a me; come studioso sono avvilito e indignato» (Miccoli, 2010, p. 920). La vittoria concorsuale arrivò finalmente nel 1967, e dal novembre Alberigo occupò la cattedra di storia della Chiesa presso la neocostituita facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna (Melloni, 2008, p. 680).
Il concilio si era chiuso non senza preoccupazioni e incertezze nel gruppo che aveva affiancato Dossetti nel corso delle quattro sessioni. La persuasione di aver vissuto una «strepitosa avventura» (Melloni, 2012, p. 117) si accompagnava alla consapevolezza delle progressive restrizioni subite dai testi maggiori nelle loro formulazioni finali. L’opera di mediazione e la ricerca di una maggioranza più ampia possibile perseguite da Paolo VI avevano dato vita a testi con aspetti ambigui e a volte contraddittori. Angelina nel suo Diario aggiunse anche altro: «Quello che ci terrorizza è il post-concilio»: tutto nelle mani della curia «diventerà terribile pappa…» (Melloni, 2012, p. 134). Anche il giudizio sull’operato di Paolo VI divenne progressivamente sempre più critico, per non dire negativo. La brusca rimozione, nel febbraio 1968, del cardinale Lercaro dalla guida della diocesi bolognese in seguito a una sua omelia in cui invocava la cessazione dei bombardamenti americani sul Vietnam del Nord segnò un momento di non ritorno. Ne restò anche interrotta l’opera di ricezione del concilio, con una prima ristrutturazione degli organi della diocesi, avviata sotto la guida di Dossetti, che Lercaro aveva nominato provicario generale.
La proposta di realizzare una «legge fondamentale» per la Chiesa (LEF) accentuò e indurì ulteriormente i termini della critica a Paolo VI. È l’idea stessa di «imporre alla Chiesa una costituzione» a essere considerata da Alberigo espressione di una «smisurata presunzione spirituale», estranea a tutta la tradizione (Alberigo, 1972, p. 15). Il tentativo di attuare così un pieno recupero della centralità romana acquistò ai suoi occhi «il significato di un’inversione di tendenza, o – almeno – di un disperato tentativo di rovesciamento e di restaurazione, mediante un rigetto sostanziale e globale del Vaticano II». Il governo di Paolo VI ne risultava pienamente coinvolto: «La LEF si qualifica come l’atto emblematico del pontificato in corso, anzi di tutta una secolare deformazione del modo di concepire il primato romano» (Alberigo 1971, p. 6 s.; Alberigo, 1972, p. 39 s.).
Sono prese di posizione e giudizi che segnarono con chiarezza un punto d’arrivo nell’ottica con cui Alberigo guardava alla situazione della Chiesa cattolica e attestano nello stesso tempo la direzione che egli riteneva necessario fosse perseguita per realizzare un effettivo rinnovamento del cristianesimo e della presenza cristiana nella società. Un suo lungo articolo di commento al congresso teologico di Bruxelles (settembre 1970) pubblicato su Lettere ’70, ne offre, in sintesi, una completa e significativa illustrazione (Alberigo, 1970, pp. 1-14).
Il congresso, nato su iniziativa e nell’ambito della rivista Concilium (Alberigo ne era assiduo collaboratore fin dalla fondazione nel 1965 e faceva parte del comitato di redazione) intendeva delineare i compiti di una nuova teologia in funzione di un avvenire della Chiesa adeguato ai bisogni della vita cristiana e della società. Alla ribadita stima per gli organizzatori (Edward Schillebeeckx, Yves Congar, Karl Rahner e Hans Küng), cui era legato da tempo e che nel concilio erano stati tra i protagonisti nelle proposte di rinnovamento, si accompagnò da parte sua una critica radicale: nel loro impianto e nelle loro proposte, pur ispirate da una opposizione alla teologia cosiddetta romana, non sono riusciti a realizzare un autentico rinnovamento nel modo «di fare e di pensare teologia, che resta ancora in un ambito strettamente clericale ed accademico, separato dall’esperienza cristiana della gente comune». Era un limite decisivo. Per Alberigo infatti «non si innoverà veramente il modo di fare teologia, e quindi la teologia stessa, se, malgrado tutto, lo schema ‘romano’ della ricerca teologica (riservata ai chierici, separata dalla fede personale, pura elaborazione intellettuale, condizionata da un preciso sistema filosofico) non verrà totalmente abbandonato». Il problema dunque per lui era di «reinventare un servizio teologico che si misuri essenzialmente sulla fede missionaria del popolo di Dio, sulla fede delle comunità e delle chiese cristiane», a opera di teologi che non si formino nell’isolamento «ma in un rapporto vitale con la fede delle comunità» nelle sue diverse e svariate espressioni, mai pienamente risolte e concluse. Perché (e qui sta il punto fondamentale della sua riflessione, del resto presente al congresso di Bruxelles) è essenziale riconoscere in via preliminare che è Cristo «il criterio della Chiesa e della teologia». Ma dire così, riconoscere questo, «relativizza in modo radicale tutte le altre cose, relativizza il magistero, gli stessi concili, le grandi formulazioni dogmatiche» (Alberigo, 1970, p. 13);per Alberigo, mi pare di poter dire, diventava la chiave per guardare con occhio libero alla storia del cristianesimo e delle Chiese e insieme per operare responsabilmente nel loro presente.
Fondamentale a questo riguardo restava per lui l’insegnamento che Giovanni XXIII aveva voluto impartire alla Chiesa con il suo invito ad assumere un atteggiamento di ricerca. Era un invito infatti che non corrispondeva ad «un fatuo prurito di novità» perché mirava a «verificare la propria effettiva fedeltà alle esigenze misteriose ed inesauribili del messaggio evangelico». Si trattava, insomma, di «superare l’atteggiamento di certezza che era divenuto abituale nel cattolicesimo moderno e contemporaneo» (Alberigo, 1993, p. 174). Non era dire poco, perché profilava una prospettiva che scardinava un punto fermo del magistero della Chiesa di Roma: l’idea cioè di un possesso pieno, integrale ed esclusivo della verità di Cristo.
Con sempre maggiore evidenza la battaglia ecclesiale per realizzare quell’aggiornamento della Chiesa che Giovanni XXIII avrebbe voluto si intrecciò con i temi e gli ambiti di ricerca che i ‘segni dei tempi’ suggerivano: ne costituì, vorrei dire, la ragione e la prospettiva. Fu la linea maestra perseguita da Pino, che aspirava a coinvolgervi tutti i membri dell’Istituto. Da ciò, da una parte, l’impegno a fondo, con un’ampia mobilitazione degli episcopati, per bloccare l’attuazione della LEF, un impegno che fu coronato da un pieno successo.
Dall’altra, «l’impostazione di un progetto di ricerca pluriennale sulle caratteristiche storiche e le problematiche dottrinali del regime di cristianità» (L’officina, p. 50 e 197 s.), visto nelle sue linee generali e insieme nell’esperienza di figure come Carlo Borromeo, Gasparo Contarini e Caterina Vigri che, pur se in termini diversi, hanno espresso con la loro vita alcuni punti forti del modo di essere cristiani nella loro epoca (Spaccamonti - Faggioli, 2008, nr. 45, 48, 180, 239, 240, 326, 383, 433, 449).
L’Istituto intanto si arricchiva di nuovi apporti e di nuove presenze. Si riproposero però anche nuove, lunghe e laceranti tensioni. Nel 1970, con d.p.r. del 3 novembre, l’Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia venne riconosciuta ente morale cui competeva di reggere l’Istituto. Dossetti, in qualità di presidente, e Lercaro erano membri vitalizi del Consiglio, segretario fu confermato Alberigo, con la piena responsabilità di gestione dell’Istituto e della Biblioteca. L’11 dicembre 1971 la legge Andreatta-Zaccagnini di finanziamento dell’attività di ricerca e di formazione alla ricerca dell’Associazione venne approvata dal Parlamento con la sola eccezione dei fascisti (Melloni, 2008, p. 683; L’officina, p. 50).
La prospettiva che Alberigo vedeva per l’Istituto era definita da tempo: farne sempre più un organismo che vive e opera grazie al lavoro in comune dei suoi membri, concentrati e uniti intorno allo studio di argomenti scelti collettivamente, secondo quanto i ‘segni dei tempi’ suggerivano. La fondazione nel 1980 della rivista Cristianesimo nella storia intese dotare l’Istituto di uno strumento che rafforzasse questa prospettiva. Non era però una prospettiva condivisa da tutti: perché metteva in discussione percorsi di ricerca e competenze ormai mature che intendevano battere individualmente strade proprie.
L’abbandono dell’Istituto, nel 1981, di un folto gruppo formato per lo più da ‘antichisti’ segnò l’impossibilità di trovare un compromesso. Furono rotture dolorose per tutti: «Non so rimuovere, scrisse Pino in anni recenti, la sofferenza profonda da cui le separazioni sono state sempre segnate, sia in quanti sono rimasti sia in coloro che se ne sono andati» (Riflessioni (brevi) su un cinquantennio. 1953-2003, p. 27).
Il suo impegno ecclesiale non mancò in quegli anni di altre iniziative e momenti importanti. All’indomani della morte di Paolo VI, nell’agosto 1978, predispose con la collaborazione di Enzo Bianchi, Giuseppe Ruggieri e altri un denso memoriale destinato ai partecipanti del prossimo conclave, intitolato significativamente Per un rinnovamento del servizio papale nella Chiesa alla fine del XX secolo. Dire che l’iniziativa era del tutto inconsueta è dire poco: sia per il fatto in sé sia per la perentorietà del discorso che vi era svolto. L’invito rivolto ai cardinali fu di discutere collettivamente e nei loro colloqui privati i problemi che il nuovo papa avrebbe dovuto affrontare e le linee programmatiche che avrebbe dovuto assumere per poter riprendere quel cammino di rinnovamento che il concilio aveva prospettato e che era restato in gran parte interrotto. Il punto centrale, che il memoriale rilevò con molta forza, prospettava la necessità di affermare nella Chiesa, «e quindi anche nel servizio di Pietro», la priorità dei poveri e l’impegno per i poveri, sull’esempio del ministero di Gesù Cristo, nel quale «la vita dei cristiani e di ogni Chiesa» deve trovare «la sua forza, il suo alimento, la sua ispirazione». Ciò implicava per la Chiesa e il vescovo di Roma, se non si voleva ridurre tale impegno «a qualche gesto retorico», «la scelta di mezzi poveri e che siano comprensibili ai poveri, ed un abbandono, certo faticoso ma costante, di tutti quegli strumenti che li rendono più simili ed omogenei ai potenti del mondo»; e implicava ancora, per rendere credibile la propria parola, una piena libertà «da ogni potere e da ogni sistema politico». Il memoriale reclamò anche, contro ogni tendenza riduzionistica del Vaticano II, «gesti inequivocabili, come la realizzazione effettiva della collegialità, una prassi differenziata nella scelta dei vescovi, il superamento della divisione tra clero e laicato, il rispetto delle scelte delle comunità locali nel loro impatto con la storia, il riconoscimento di un effettivo pluralismo nelle scelte politiche», abbandonando, per favorire una piena ricezione del concilio, quella «“politica dell’intervento” che ha così duramente contrassegnato soprattutto gli ultimi secoli della […] storia del papato» (Per un rinnovamento del servizio papale, p. 199 ss.).
Sempre con l’idea di rivitalizzare nella Chiesa la spinta riformatrice, partecipò alla rivista Bozze, fondata nel 1978 da Raniero La Valle, con il quale Alberigo aveva stabilito ottimi rapporti fin dagli anni del concilio, durante il quale La Valle aveva diretto con grande apertura e autorevolezza il quotidiano Avvenire. La strenua volontà di evitare anche la sola apparenza e il rischio di strumentalizzazione o commistione tra fede e politica lo porterà tuttavia a interrompere ben presto la sua collaborazione alla rivista. Alla stessa logica di distinguere nettamente tra opzione politica e dimensione di fede rispondevano sia la sua dura critica ai Cristiani per il socialismo, al cui convegno nazionale, tenuto a Bologna nel settembre 1973, era stato invitato, sia la sua adesione all’appello dei cattolici democratici per il no all’abrogazione delle legge sul divorzio proposta con il referendum del 12 maggio 1974.
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta si profilarono e si definirono progressivamente, assumendo per dir così carattere pressoché esclusivo, i due grandi argomenti di riflessione e di ricerca che avrebbero occupato per almeno due decenni l’impegno di Alberigo, con un largo coinvolgimento dell’Istituto e di una vasta e qualificata collaborazione internazionale: Giovanni XXIII e il concilio Vaticano II. Due temi distinti e insieme strettamente intrecciati.
Da Giovanni XXIII egli era rimasto progressivamente affascinato nel corso dei suoi anni di pontificato. Angelina avrebbe scritto di «un vero innamoramento» (Angelina Alberigo, 2008, p. 908). Dalla seconda metà degli anni Sessanta si infittirono i suoi saggi e interventi che lo riguardavano. È del 1978 l’ampia antologia di scritti di Roncalli, curata da Pino insieme ad Angelina: Giovanni XXIII profezia nella fedeltà.
Un passaggio decisivo è segnato nel 1981, quando, ultimato il fondamentale volume Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, poco prima che prendesse forma un ampio e articolato progetto di ricerca su Roncalli, Alberigo ricevette un premio dalla Menil Foundation di Houston, per la difesa dei diritti umani nella Chiesa. La presidente Dominique de Menil – una coltissima collezionista d’arte impegnata sul terreno dei diritti umani: fra i premiati dalla fondazione anche Nelson Mandela, Rigoberta Menchú e il Soccorso giuridico della diocesi di San Salvador –, era stata presentata ad Alberigo da padre André Scrima, un monaco ortodosso conosciuto negli anni del concilio, quando questi si trovava a Roma in qualità di osservatore personale del patriarca ecumenico Anthenagoras I (Melloni, 2008, p. 683 e 688).
I frutti di quell’incontro furono diversi e cospicui, a cominciare dal grande convegno L’età di Roncalli, tenuto a Bergamo dal 3 al 7 giugno 1986. Seguirono, a opera di Alberigo e di altri membri dell’Istituto (Giuseppe Battelli, Francesca Della Salda, Antonino Indelicato, Alberto Melloni, Stefano Trinchese e Sandra Zampa), lo studio sistematico delle varie tappe della sua vita e del contesto in cui aveva operato, l’analisi e l’edizione dei suoi scritti e dei suoi Diari, la preparazione, in vista della sua canonizzazione di una dettagliata biografia (Melloni, 2008, p. 693). L’ottica con cui Alberigo guardava al percorso biografico di Roncalli è chiaramente espressa in un suo breve scritto dedicato alle letture che lo hanno portato alla storia.
Riferendosi agli scritti di Roncalli egli si espresse così: «È biograficamente interessante seguire l’accumulo di esperienze e di riflessioni, che si esprime nel formarsi di una personalità di statura del tutto imprevedibile, che si manifesta solo dopo l’elezione al pontificato romano» (Alberigo, 2003, p. 170). Parallelamente lo guidava una persuasione che sarà orientativa sia nel suo lavoro di ricerca sia nel suo impegno ecclesiale: che il «grande maestro», la «grande insostituibile guida […] per comprendere il significato profondo, il nucleo essenziale del Vaticano II» è appunto papa Giovanni; perché fu lui «che ha voluto il concilio, che l’ha pensato, che gli ha dato vita sotto l’impulso dello Spirito». Il giudizio è categorico, non sembra ammettere obiezioni: «Non è una scelta, non è una preferenza, non è un gusto l’indicare in papa Giovanni la chiave di comprensione essenziale del Vaticano II, è invece fare un atto di consapevolezza storica» (Alberigo, 1985, p. 44). Tale persuasione nasceva in lui dal carattere tutto particolare che egli individuava nel pontificato di Roncalli, un carattere che, come non poteva restare estraneo allo studio di esso così non poteva non riflettersi sul significato profondo del concilio.
Una conferenza tenuta al monastero di Bose nel 1981 lo illustra con chiarezza. Egli vi riconosceva naturalmente che anche il papato di Roncalli andava studiato secondo l’approccio classico, individuandone gli atti e gli orientamenti «come per qualunque altro pontificato». Ciò tuttavia non bastava, perché per il pontificato di Roncalli vi era per lui un secondo livello che andava preso in considerazione, che coinvolgeva la storia cristiana «in termini molto più larghi», ossia la «dimensione profetica» della sua figura e della sua opera (Galavotti, 2008, p. 792).
Si tratta di un punto capitale, che non mancò di suscitare critiche e opposizioni anche aspre, non tanto per ragioni ‘scientifiche’ che pur non mancavano, ma perché del tutto evidente era la sua dimensione ecclesiale, di discorso rivolto alla Chiesa, alle gerarchie e ai fedeli della Chiesa, nel senso che il carattere ‘profetico’ di Giovanni stava in atti, gesti, parole e atteggiamenti che profilavano un diverso modo di essere rispetto alla storia secolare del papato che egli aveva alle spalle, suggerendo una rottura che riportava al centro la questione di dare testimonianza del vangelo nella pratica del proprio servizio pubblico (Galavotti, 2008, p. 792 s.): «Per lungo tempo nella Chiesa era stato facile usare le fede come strumento di potere e di regno oppure dissimularla come un puro fatto privato: papa Giovanni va al di là dell’una e dell’altra posizione per dare testimonianza della fede come forza operante posta dal Cristo nella storia, testimonianza che le chiese sono tenute ad adempiere anche se non sarà impresa facile» (Galavotti, 2008, p. 795).
Sta in questa ‘lettura’ della figura e dell’opera di Giovanni XXIII la premessa dell’ottica con cui Alberigo guardava al concilio e propose e si propose di studiare il concilio.
Nell’impostare e avviare tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta le ricerche in vista della realizzazione di quella che sarà la Storia del concilio Vaticano II, egli aveva precisato che la domanda che doveva guidarla «non è “come si è giunti all’approvazione del corpus delle (sue) decisioni”, ma invece “come si è svolto effettivamente il Vaticano II e quale è stato il suo significato”» (Alberigo, 1995, p. 13). Si trattava di una domanda corrispondente a due aspetti essenziali del suo modo di leggere e di intendere il concilio. In primo luogo corrisponde all’affermata necessità di considerarlo in tutto il suo insieme complessivo, come ‘evento’ appunto che si qualifica con un suo spessore proprio e in qualche modo autonomo già per il fatto stesso di essere stato convocato e di esistere. In secondo luogo essa era frutto della persuasione che ne derivava che il concilio non era riducibile alle sue decisioni, che la realtà assembleare era stata più ricca delle decisioni approvate, ma soprattutto che «l’evento conciliare (aveva) espresso orientamenti qualitativamente più significativi delle decisioni formali, e di portata molto maggiore per il rinnovamento del cristianesimo moderno» (Alberigo, 1997, p. 521). Da qui la sua ricorrente affermazione che è del tutto insufficiente ricostruire l’iter formativo dei documenti approvati dal concilio per comprenderne i caratteri di fondo e il loro significato, e ciò non solo per il fatto che si tratta sovente di testi compositi, espressione della tenace volontà di Paolo VI di raggiungere una tendenziale unanimità di consensi, e dunque largamente aperti all’influenza di un’irriducibile minoranza. Perché ciò che costituisce il tratto distintivo del concilio, ciò che lo rende per dir così ‘evento’, capace di poter operare e di incidere oltre i limiti delle decisioni assunte, posto in qualche modo al di là e al di sopra della loro lettera, è rappresentato dalla duplice insegna alla luce della quale Giovanni XXIII aveva inteso convocarlo: la pastoralità e l’aggiornamento. Furono questi i due aspetti che per Alberigo hanno reso il Vaticano II un concilio diverso da quelli del passato, ma anche i due aspetti che dovevano imprimere al modo di essere della Chiesa una dinamicità, un impulso, una prospettiva necessariamente aperti al futuro, in quanto non assumibili né realizzabili nell’arco di un breve periodo. ‘Pastoralità’ e ‘aggiornamento’ infatti, come scrisse nel 2001 nella Conclusione alla Storia del concilio Vaticano II, «hanno posto congiuntamente le premesse per il superamento della “teologia”, intesa come isolamento della dimensione dottrinale della fede e sua concettualizzazione astratta, come anche del “giuridismo”, in quanto irrigidimento in formule giuridiche del dinamismo dell’esperienza cristiana» (Alberigo, 2001, p. 588). Ma erano premesse appunto che solo in parte il concilio era riuscito a far proprie, accentuando così ulteriormente le resistenze a una sua piena ricezione. Giovanni XXIII per parte sua aveva perseguito, secondo Alberigo, «una pedagogia graduale e carismatica, preoccupandosi quasi solo di proporre a tutti indicazioni forti e adeguate alla congiuntura epocale, con fiducia nell’istinto di fede del corpo ecclesiale e nella capacità creativa dell’assemblea episcopale», assumendo perciò rispetto ad essa «un ruolo di propulsione e di garanzia» della sua «autonoma responsabilità e libertà» (Alberigo, 2001, p. 610).
I cinque volumi della Storia del concilio Vaticano II (Bologna 1995-2001) coronano una grande impresa collettiva che ha avuto in Alberigo il suo principale ideatore e la sua guida costante. Ma sarebbe un errore ridurre alla Storia il suo contributo allo studio e alla conoscenza del concilio. Perché esso trova espressione anche nelle decine di saggi che in oltre un trentennio precedono, preparano e affiancano da un certo momento in poi quell’imponente cantiere di lavoro che l’ha prodotta. Una trentina di essi sono stati raccolti e pubblicati in un volume postumo che nel suo titolo, Transizione epocale, esprime perfettamente il giudizio complessivo che Alberigo formulava sul concilio e insieme la prospettiva con cui guardava alla condizione della Chiesa, sempre più restia nei suoi vertici a farsi carico di tutte le sue potenzialità. Ricorrente infatti, per non dire costante, nella scrittura di Alberigo sul concilio è la compenetrazione di storia e attualità ecclesiale, di ricostruzione storica e di lettura teologica di un passato prossimo che preme e si fa strada nel presente. Sono ottiche e linguaggi diversi che si incrociano e si sovrappongono, mentre gli interlocutori cui si rivolgono si configurano sempre più frequentemente in primo luogo come i membri della comunità ecclesiale. Allo storico, con sempre maggiore evidenza, si accompagna e si salda il credente, il ‘cristiano comune’, come lui stesso amava definirsi, che trova nel contesto ecclesiale il suo impegno primario perché depositario anche lui di una piena responsabilità rispetto alla realtà del cristianesimo e agli orientamenti della Chiesa.
Ancora una volta, in piena coerenza con tutto il suo passato, fu la proposta di un grande tema, da affrontare collettivamente, a caratterizzare i primi anni Duemila. Il progetto di ricerca riguardava la sinodalità, che Alberigo propose di studiare nelle sue varie manifestazioni e forme assunte in passato, nella persuasione, come scrisse in un saggio del 2003, che stava lì, in un percorso di piena assunzione della conciliarità, «il futuro delle chiese» (Melloni, 2008, p. 697, n. 142). Come si ricorderà i concili e la storia dei concili non erano per lui un tema nuovo: figurano tra gli incunaboli del suo avvio alla ricerca, con particolare attenzione alle loro dinamiche interne e alle loro ricadute istituzionali. Ma ora viene modulato in termini nuovi e più direttamente stringenti rispetto alla strada che egli riteneva dovesse essere della Chiesa. L’idea era di assumere come tema centrale della propria ricerca il nesso che unisce sinodalità e liturgia, secondo una prospettiva che considerava la comunione liturgica e la sua pratica, quali si manifestano nei primi secoli, il momento sinodale essenziale già in quanto tale. Ciò che Pino propose era un vero e proprio «salto concettuale», superando «la secolare accezione giuridico formale dei sinodi». Tale superamento era stato aperto dall’impostazione «pastorale» del Vaticano II, che ha sciolto il legame tra «concilio» e produzione di norme, «lasciando emergere una fisionomia della sinodalità più ampia e più ricca». In questa direzione il recupero dell’«antica identità del sinodo/concilio come momento della comunità connesso con la liturgia eucaristica potrebbe essere determinante» per affrancare «lo svolgimento dei sinodi dall’egemonia delle preoccupazioni normative, consentendo un andamento ispirato direttamente dalla communio e scandito da momenti di preghiera» (Alberigo, 2006, p. 16 s.). Un denso Preprint, datato aprile 2006 (Comunità-liturgie-eucarestia-sinodalità), rappresentò il primo esito collettivo della ricerca, peraltro partita non senza difficoltà e rimasta interrotta dalla morte di Alberigo.
Parallelamente egli aveva avviato una nuova edizione dei decreti conciliari, accantonando il tradizionale elenco di concili ecumenici dovuto a Roberto Bellarmino, e distinguendo tra concili ecumenici (cioè recepiti da tutte le confessioni cristiane) e generali (cioè considerati validi dalla sola Chiesa cattolica). Il 7 febbraio 2007 consegnò personalmente a Benedetto XVI la sua Breve storia del concilio (Bologna 2005), un denso appunto riguardante quelli che ai suoi occhi apparivano i problemi più urgenti nel governo della Chiesa, e il primo volume dei decreti conciliari, che ebbe l’‘onore’ di suscitare un’incredibile stroncatura de L’Osservatore Romano, pubblicata il 3 giugno 2007 in prima pagina, mentre Alberigo si trovava ormai in coma da più di due mesi.
Nel 2005, chiudendo la sua Premessa alla Breve storia del concilio, con uno sguardo di fiducia rivolto soprattutto al futuro egli aveva scritto: «La preoccupata diffidenza cattolica degli ultimi secoli verso la modernità è divenuta un capitolo chiuso, sia pure con qualche fiammata nostalgica. Si è avviata l’esperienza – anche con goffaggini e non poche fatiche – di un atteggiamento di amicizia verso gli uomini e le loro conquiste» (Alberigo, 2005, p. 14).
Fu questo del resto anche il senso profondo, mi pare di poter dire, che ha ispirato e animato la sua ultima iniziativa pubblica, quell’appello ai vescovi italiani di evitare la «sciagura» di un intervento che intendeva imporre ai parlamentari cattolici di rifiutare il progetto di legge sui «diritti delle convivenze». Il suo ricorso al verbo ‘supplicare’ («supplichiamo i Pastori»), così insolito nella sua scrittura e nel suo stile, dà certamente la misura della gravità con cui avvertiva la situazione, per il rischio di ricadere nuovamente in un conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino, ma voleva anche sottolineare con forza la sua piena appartenenza ecclesiale, perché era una realtà ecclesiale che intendeva in primo luogo tutelare. La frase che chiuse l’appello però suggerisce esplicitamente anche altro. Suona infatti così: «Invitiamo la Conferenza episcopale a equilibrare le sue prese di posizione e i parlamentari cattolici a restare fedeli al loro obbligo costituzionale di legislatori per tutti». La responsabilità del ‘cristiano comune’ verso la Chiesa, quando fedelmente e rigorosamente attuata, diventava nella sua ottica un atto di responsabilità verso l’intera società. Credo stia qui un aspetto centrale della sua lezione.
Colpito da un ictus l’11 aprile 2007, morì il 15 giugno senza aver ripreso conoscenza.
Il 20 aprile il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli aveva conferito il titolo di cavaliere di Gran Croce e nel messaggio inviato alla famiglia all’indomani della scomparsa ricordò che Alberigo, «nel corso della sua vita e fino agli ultimi momenti, ha rappresentato una voce autorevole che ha saputo sottolineare con coscienza critica l’importanza dell’apporto della cultura cattolica nel dibattito delle idee nel nostro Paese».
Per la bibliografia completa delle opere di Alberigo si veda L. Spaccamonti - M. Faggioli, Bibliografia di Giuseppe Alberigo 1956-2008, in Cristianesimo nella storia, 29 (2008), pp. 921-961.
Fra le altre opere di Alberigo non citate nel testo si ricordano inoltre:
La riforma protestante. Origini e cause, Brescia 1977; Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Brescia 1981; Il cristianesimo in Italia, Roma-Bari 1989; Nostalgie di unità. Saggi di storia dell’ecumenismo, Genova 1989; Karl Borromäus: geschichtliche Sensibilität und pastorales Engagement, Münster 1995;Dalla Laguna al Tevere. Angelo Giuseppe Roncalli da San Marco a San Pietro, Bologna 2000; Sinodi e liturgia, a cura di G. Alberigo, Cristianesimo nella storia, numero monografico, 28 (2007); Transizione epocale. Studi sul concilio Vaticano II, Bologna 2009; Vita di papa Giovanni: biografia di un pontefice, Bologna 2013.
Opere di Alberigo o da lui curate citate nel testo
Il congresso di Bruxelles sull’avvenire della Chiesa, in Lettere ’70, novembre-dicembre (1970), pp. 1-14; È in gioco l’essere stesso della Chiesa, in Lettere ’71, maggio-giugno (1971), pp. 1-5; Fede, istituzione e Lex fundamentalis nella tradizione cristiana, in Legge e Vangelo. Discussione su una legge fondamentale per la Chiesa, Brescia 1972, pp. 15-42; La Chiesa italiana tra Vaticano II e nuovo millennio, in Il Vaticano II nella chiesa italiana: memoria e profezia, Assisi 1985, pp. 43-67; Nota introduttiva, in La Chiesa nella storia, Brescia 1988, pp. 7-10; Un vescovo e un popolo, in Bologna ricorda Giacomo Lercaro, Bologna 1991, pp. 7-30; L’amore alla chiesa: dalla riforma all’aggiornamento, in “Con tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. Alberigo - G. Alberigo, Genova 1993, pp. 169-194; Criteri ermeneutici per una storia del Vaticano II, in Il Vaticano II fra attese e celebrazione, a cura di G. Alberigo, Bologna 1995, pp. 9-26; Rinnovamento della chiesa e partecipazione al concilio, in Giuseppe Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, a cura di G. Alberigo, Bologna 1998, pp. 41-86; Fedeltà e creatività nella ricezione del concilio Vaticano II. Criteri ermeneutici, in Cristianesino nella storia, 21 (2000), pp. 383-402; Transizione epocale? “Conclusioni” alla Storia del Vaticano II, in Storia del Concilio Vaticano II, a cura di G. Alberigo, V, Bologna 2001, pp. 577-646; Come diventai uno storico. Letture suggestive e suggestioni di lettura, in Contemporanea, 6 (2003), pp. 167-171; Breve storia del concilio Vaticano II, Bologna 2005, pp. 201; Eucarestia-liturgie-sinodalità, in Istituto per le scienze religiose, Comunità-liturgie-eucarestia-sinodalità, Bologna 2006, pp. 4-17; G. Dossetti, Appunti sulla “forma communitatis” (Pentecoste 1954), in L’“officina bolognese” 1953-2003, a cura di G. Alberigo, Bologna s.d., pp. 109-132; F. Magistretti, Testimonianza in occasione del 50° del Centro, ibid., pp. 11-21; A. e G. Alberigo, Riflessioni (brevi) su un cinquantennio, ibid., pp. 23-29; Per un rinnovamento del servizio papale nella Chiesa alla fine del XX secolo (agosto 1978), ibid., pp. 199-213.
Le fonti sono raccolte nell’Archivio di famiglia (ringrazio la figlia Anna per avermene fornito larga documentazione) e presso l’Istituto per le scienze religiose di Bologna.
D. Menozzi, Le origini del Centro di documentazione (1952-1956), in “Con tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. Alberigo - G. Alberigo, Genova 1993, pp. 333-369; P. Prodi, Il convegno di Bologna (1958), in Cinquant’anni di vita della «Rivista di Storia della Chiesa in Italia». Atti del Convegno di studio (Roma, 8-10 settembre 1999), a cura di P. Zerbi, Roma 2003, pp. 167-192; H. Legrand, Quelques réflexions ecclésiologiques sur l’«Histoire du Concile Vatican II» de G. Alberigo, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», XC (2006), 3, pp. 495-520; U. Mazzone, Giuseppe Alberigo, in Ricerche di storia sociale e religiosa, 73 (2008), pp. 247-258; E. Galavotti, «È un cristiano sul serio». Giuseppe Alberigo e l’interpretazione di Giovanni XXIII, in Cristianesimo nella storia, 29 (2008), pp. 761-874; A. Melloni, Appunti per un percorso biografico, ibid., pp. 665-702; A. Alberigo, Testimonianza, ibid., pp. 903-908; G. Ruggieri, Alberigo di fronte a Dossetti e Jedin, ibid., pp. 703-723; Giuseppe Alberigo (1926-2007). La figura e l’opera storiografica, ibid., pp. 665-961; N. Klein, Die Kirche in der Geschichte, in Orientierung, 24 (2009), pp. 261-263; G. Battelli, Una “guerra fredda” nel cuore dell’Italia centrista. La Bologna del cardinale Lercaro e del Pci che governa la città (1952-1956), in Cristianesimo nella storia, 31 (2010), pp. 851-904; G. Miccoli, L’insegnamento fiorentino di Pino Alberigo, ibid., pp. 905-925; G. Ruggieri, Lo storico Giuseppe Alberigo (1926-2007), in Storici e religione nel Novecento italiano, a cura di D. Menozzi - M. Montacutelli, Brescia 2011, pp. 33-52; A. Melloni, Il Vaticano II e la sua storia. Introduzione alla nuova edizione, 2012-2014, in Storia del concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo, vol. 1: Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959-settembre 1962, a cura di A. Melloni, Bologna 2012 (nuova edizione aggiornata e ampliata), pp. IX-LVI; Id., Vivere il concilio. Il diario di Angelina Alberigo, in “Tantum aurora est”. Donne e Concilio Vaticano II, a cura di M. Perroni, A. Melloni, S. Noceti, Münster 2012, pp. 99-135.