MENICHELLI, Giuseppa Iolanda (Pina). – Nacque a Castroreale (Messina)
il 10 genn. 1890, da Cesare e Francesca Malvica, attori dialettali siciliani.
Secondogenita di quattro figli – Lilla, Dora e Alfredo, tutti poi avviati alla carriera drammatica – la M. venne mandata, con la sorella Dora, a studiare a Bologna presso il collegio delle suore del Sacro Cuore; tuttavia entrambe le ragazze presero molto presto la via del palcoscenico seguendo le orme dei genitori e della sorella maggiore Lilla.
La M. iniziò la professione vera e propria nel 1907, con la compagnia di Maria Francesca, in arte Irma, Gramatica e F. Andò, facendosi notare come «giovane amorosa».
Si mise in luce con un ruolo piccolo, ma brillante e incisivo, in Prima dell’amore, opera di un quasi esordiente T. Monicelli; con una parte di maggior rilievo, in Il nido altrui di J. Beñavente, fu gratificata da un deciso successo personale.
L’anno seguente, durante una tournée in Argentina, sposò un agiato giornalista napoletano, L. Pica, residente a Buenos Aires; pur se all’apparenza consolidato da due figli (il primo, nato nel 1909, morì a pochi mesi d’età; il secondo, Manolo, nacque l’anno dopo), il matrimonio non si rivelò felice e, di conseguenza, anche se incinta per la terza volta, la M. decise di separarsi dal marito e di tornare in Italia; a Milano, infatti, nel 1912 nacque la figlia Cesarina. Poco tempo dopo ebbe occasione di sostituire la sorella Lilla, impegnata nella compagnia di Emma Gramatica. Fu allora che la sua bellezza atipica, da siculo-normanna – capelli biondi e occhi azzurri, un volto dai lineamenti importanti e non proprio regolari, in particolare un evidente naso aquilino – attirò su di lei l’attenzione dei primi talent scouts della fiorente industria cinematografica italiana dove si andavano affermando Francesca Bertini, Giselda Lombardi (in arte Leda Gys), Lyda Borelli, per citare alcune tra le più famose colleghe e concorrenti della Menichelli. Ingaggiata dalla romana Cines, nel biennio 1913-15 partecipò, al ritmo intenso che caratterizzava il cinema muto di quegli anni, a numerose pellicole con registi già noti, o comunque destinati a diventarlo. Questo apprendistato – che le permise di farsi le ossa e di impadronirsi dall’interno, con «un’intelligenza dei poteri della macchina da presa superiore a quella delle stesse Borelli e Bertini» (Brunetta, p. 109), del funzionamento della «realtà cinematografica» – la vide impegnata in almeno trentacinque film.
Si contano tra gli altri: nel 1913, Checco è sfortunato in amore, con G. Gambardella (nome d’arte «Checco»), comico di punta della Cines, Una tragedia al cinematografo e Il lettino vuoto (regia di E. Guazzone), Il romanzo (N. Martoglio), In contrasto (B. Negroni); nel 1914, La parola che uccide e Lulù (A. Genina), Scuola d’eroi (Guazzone), Veli di giovinezza (N. Oxilia), Rinunzia e Turbine d’odio (C. Gallone); nel 1915, Alla deriva, La morta del lago, Alma mater e La casa di nessuno (tutti di Guazzone). Furono anni di lavoro frenetico, con un coinvolgimento via via crescente, sia per la maggiore importanza dei ruoli che le vennero assegnati sia per la crescente complessità delle pellicole cui partecipò.
Il momento di svolta nella carriera della M. si ebbe quando G. Pastrone, regista di fama (aveva già girato il kolossal dell’epoca Cabiria) nonché proprietario della casa cinematografica torinese Itala, visionando alcune pellicole della concorrente Cines notò in un film storico di ambiente napoleonico – con ogni probabilità il sopra citato Scuola d’eroi di Guazzone – la M. nel ruolo di una tamburina.
La tamburina, con sguardo glaciale e deciso, guardava dritto dentro l’obiettivo, in contrasto con tutte le regole del linguaggio cinematografico, i cui principî grammaticali si andavano proprio allora fissando. Si tratti di storia o di leggenda, sembra che Pastrone, fatto sforbiciare il fotogramma, allertò i suoi agenti in giro per l’Italia perché rintracciassero – dal momento che all’epoca i nomi degli attori che partecipavano alla realizzazione del film non venivano elencati nei titoli, né venivano veicolati nel materiale destinato alla stampa e alla promozione – quella ragazza dalla bellezza inconsueta e, almeno all’apparenza, orgogliosa e impertinente.
Pastrone – che, per la competenza in tutti gli ambiti del lavoro cinematografico può essere considerato una sorta di archetipo del producer americano degli anni d’oro hollywoodiani – seppe valorizzare al meglio le doti attoriali e la fotogenia della M. e, con due sole pellicole, Il fuoco e Tigre reale, riuscì a inserirla saldamente fra le «dive», un fenomeno che si andava proprio in quegli anni sviluppando in Italia, tanto rapidamente quanto caoticamente.
Ne Il fuoco (1915) – da un soggetto di F. Mari (anche coprotagonista della pellicola), firmato da Pastrone con lo pseudonimo di Piero Fosco, di scoperta ispirazione dannunziana non solo nel titolo, suddiviso nei tre episodi: La favilla, La vampa, La cenere – e nel successivo Tigre reale (1916) – sceneggiatura dell’omonimo romanzo breve di G. Verga – la M., in ruoli che illustrano i caratteri salienti della femme fatale, seppe, nonostante o proprio in virtù delle «poco classiche linee del viso» (v. Cinegraf, 22 giugno 1916), raggiungere «un livello di sensualità e varca[re] la soglia dell’erotismo» (Brunetta, p. 108). Anche perché era guidata, nella recitazione esasperata e sopra le righe, da un regista che in ambedue i casi «rende centrale l’idea di un corpo e di un volto che, abilmente manipolati, sono in grado di governare essi stessi l’andamento narrativo» (C. Camerini, in Cinema italiano muto, a cura di R. Redi, Roma 1991, p. 64). I due titoli in questione, come alcuni lavori successivi nella filmografia della M., ebbero una travagliata avventura distributiva, dovuta soprattutto alla censura, particolarmente attenta, data la spregiudicatezza dei soggetti (nel Fuoco la M. appariva in una scena di nudo quasi integrale).
Ancora più complessa fu, almeno in Italia, la vicenda del terzo film dell’accoppiata Pastrone - Menichelli, Trecce d’oro (1917): sequestrato il giorno precedente alle prime visioni annunciate, per riapparire nelle sale solo tre anni più tardi con il titolo L’olocausto, fu stroncato da critica e pubblico, l’una e l’altro incapaci di raccapezzarsi in una vicenda resa incomprensibile dai tagli censori. Tuttavia, le difficoltà, anche finanziarie, causate dal blocco delle uscite e dai sequestri, innescarono dibattiti sulla stampa, e non solo su quella specializzata, che resero eccellenti servizi promozionali.
Il successo della M. si propagò presto a livello internazionale – Pastrone seguiva con particolare cura la distribuzione dei suoi film all’estero – e la sua fama di grande interprete di personaggi ambigui e decadenti, le sue pose languide, gli sbattimenti di palpebre, ma anche l’autentica, intensa capacità espressiva, ne fecero una beniamina del pubblico nonché, secondo le linee dell’imperante divismo, un imitato modello.
Peraltro, la M. fu donna di grande dirittura morale, professionista seria e coscienziosa che, grazie al credito conquistato, si spese ripetutamente affinché venisse riconosciuto e rispettato il lavoro di quanti, a vario titolo, partecipavano alla costruzione dei film in cui era impegnata.
Se la recitazione della M. rimase prevalentemente legata al cliché, quasi il «luogo comune», della donna simbolo erotico, raffinata e sensuale, priva di sentimento e avida di piaceri, che le aveva dato il successo, la collaborazione con l’Itala la vide protagonista anche di film legati a generi diversi, molti dei quali girati sotto la direzione di G. Zambuto; tra gli altri: La trilogia di Dorina, dalla commedia omonima di G. Rovetta, Una sventatella, sceneggiatura originale dello stesso Zambuto, La moglie di Claudio, da un celebre drammone di A. Dumas figlio (tutti del 1917); e ancora due titoli del 1919 entrambi per la regia di E. Perego, Il padrone delle ferriere e Noris.
Sul finire degli anni Dieci la M. interruppe il sodalizio con Pastrone e passò stabilmente alla Rinascimento Film, casa di produzione romana con cui già aveva girato alcuni film, di proprietà del barone Carlo Amato, al quale la M. era legata sentimentalmente.
Nell’ultima fase della carriera la M., spesso diretta da A. Palermi ma anche da A. Genina e altri, insieme con i soliti personaggi travagliati e drammatici (Storia di una donna, Il romanzo di un giovane povero, ambedue del 1920) volle cimentarsi pure in ruoli più leggeri, talvolta decisamente comici, come quelli tratti da due testi teatrali di G. Feydeau: La dama di Chez Maxim (1923) e Occupati d’Amelia (1924).
Due circostanze pressoché concomitanti, l’una di natura privata e l’altra pubblica, cioè il matrimonio della M. con Amato, reso possibile nel 1924 dalla morte del primo marito da cui non era mai riuscita a divorziare, e la grave crisi del cinema italiano, dove le produzioni dal 1924 al 1928 avevano chiuso praticamente i battenti, portarono alla precoce conclusione della carriera della M., appena trentenne.
La M. morì a Milano il 29 ag. 1984.
Fonti e Bibl.: Fondamentale, tanto per le notizie biografiche quanto per la filmografia, V. Martinelli, Pina M. Le sfumature del fascino, Roma 2002. Si vedano inoltre: M. Gromo, Cinema italiano (1903-1953), Milano 1954, ad ind.; G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano (1895-1945), Roma 1979, ad ind.; Tra una film e l’altra. Materiali sul cinema muto italiano (1907-1920), a cura di L. Micciché, Venezia 1980, ad ind.; Bianconero rosso e verde. Immagini del cinema italiano (1910-1980) (catal.), a cura di D. Turconi - A. Sacchi, Firenze 1983, ad ind.; M. Cardillo, Tra le quinte del cinematografo. Cinema, cultura e società in Italia (1900-1937), Bari 1987, ad ind.; C. Jandelli, Le dive italiane del cinema muto, Palermo 2006, ad ind.; Enc. dello spettacolo, VII, sub voce.
G. Pangaro