Vedi Giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani dell'anno: 2014 - 2015 - 2016
Giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani
Questo contributo si sofferma su due sentenze di condanna della Corte europea dei diritti umani nei confronti del nostro Paese che sono di sicura rilevanza per il periodo temporale preso in considerazione. Si tratta della sentenza Godelli, concernente la questione del diritto all’anonimato della madre naturale che abbia deciso di abbandonare il figlio, e della sentenza Torreggiani et al., sentenza-pilota con cui la Corte stabilisce il termine di un anno affinché l’Italia ponga in essere le misure sistemiche necessarie a risolvere il problema di sovraffollamento nelle carceri italiane.
Secondo i dati statistici diffusi dalla Corte europea dei diritti umani1, nel 2012 la Corte ha emanato 1.093 sentenze pronunciandosi su 87.879 ricorsi. Nei confronti del nostro Paese, sono state rese 63 sentenze (relative a 122 ricorsi), 36 delle quali hanno riscontrato la violazione di almeno una disposizione della Convenzione da parte dell’Italia. Il numero più cospicuo di condanne concerne la violazione dell’art. 6, in specie nella parte in cui si stabilisce il diritto alla durata ragionevole del procedimento giudiziario, confermando così un difetto “strutturale” del nostro ordinamento che la cd. legge Pinto non ha certo provveduto a risolvere in partenza2.
Nel periodo settembre 2012-maggio 2013, la Corte europea si è pronunciata su due casi riguardanti il nostro Paese che, per le questioni sollevate, sono meritevoli di menzione.
Procedendo per ordine cronologico, vi è anzitutto da segnalare il caso Godelli (ricorso n. 33783/09), deciso con sentenza del 25.9.2012. La ricorrente, nata nel 1943 da una donna che aveva chiesto di non indicare la propria identità nell’atto di nascita, aveva sollevato innanzi alla Corte la questione della compatibilità dell’art. 28, co. 7, della legge sulle adozioni, che tutela l’anonimato della madre biologica in caso di parto in una struttura pubblica e abbandono del figlio, lasciato in adozione, e l’art. 8 della Convenzione europea, che garantisce il diritto alla vita privata e familiare. Tale ultima disposizione, secondo la ricorrente, garantiva anche il diritto a conoscere le proprie origini biologiche. La normativa italiana, rendendo impossibile per il figlio adottato e abbandonato di avere accesso alle informazioni concernenti le proprie origine biologiche, doveva dunque considerarsi in contrasto con l’art. 8 della Convenzione.
Per risolvere il caso, la Corte è mossa dalla premessa che la scelta delle misure idonee a garantire il rispetto dell’art. 8 della Convenzione nei rapporti interpersonali rientra in linea di principio nel margine di discrezionalità degli Stati contraenti. La Corte ha però osservato che il diritto all’identità, che ha come corollario il diritto di conoscere la propria ascendenza, costituisce parte integrante della nozione di vita privata e che si trattava dunque di valutare se la legislazione italiana operasse «un giusto equilibrio nella ponderazione dei diritti e degli interessi concorrenti ossia, da una parte, quello della ricorrente a conoscere le proprie origini e, dall’altro, quello della madre a mantenere l’anonimato». Secondo la Corte, l’Italia aveva però oltrepassato il margine di apprezzamento in quanto la propria legislazione non prendeva in alcuna considerazione gli interessi del figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto. Di conseguenza essa ha condannato l’Italia per la violazione dell’art 8 della Convenzione3.
Il caso Torreggiani et al. (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10) è il secondo degno di rilievo concernente il nostro Paese. In questo caso la Corte si è pronunciata sulla questione del sovraffollamento delle carceri italiane e lo ha fatto con una “sentenza-pilota” prevista ai sensi dell’art. 46 della Convenzione4. Tre dei ricorrenti erano detenuti nel carcere di Busto Arsizio e lamentavano di essere reclusi in una cella molto piccola (9 metri quadri), con uno spazio personale di 3 metri quadri per ciascuno. Parimenti, i quattro ricorrenti detenuti nel carcere di Piacenza lamentavano di aver occupato delle celle di 9 metri quadri con altri due detenuti. Nel decidere in merito, la Corte rilevato che i ricorrenti non avevano beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri da essa ritenuti accettabili con la sua giurisprudenza, ricordando che la norma in materia di spazio abitabile nelle celle collettive raccomandata dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa è di quattro metri quadrati. La Corte ha quindi condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione5.
La decisione della Corte europea nel primo dei due casi innanzi menzionati, il caso Godelli, si è posta in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale seguito dalla Corte Costituzionale italiana. Nella sentenza n. 425/2005, quest’ultima ha sostenuto la legittimità costituzionale della norma impugnata dalla ricorrente davanti alla Corte di Strasburgo, sostenendo che la garanzia assoluta dell’anonimato da parte della gestante in difficoltà mira a «proteggere tanto lei quanto il nascituro». Tale protezione, secondo la Corte Costituzionale, «sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall’autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà».6
Secondo la Corte europea, invece, l’assolutezza del diritto all’anonimato della madre biologica, comportante dunque l’assenza di qualunque bilanciamento di interessi rispetto ai diritti del figlio adottato di conoscere la propria identità e le proprie origini, era in contrasto con i diritti sanciti dall’art. 8 della Convenzione.
Si palesa dunque un contrasto radicale di vedute tra i due organi giurisdizionali, di non facile componimento. In effetti, come tra l’altro ha correttamente osservato il giudice Sajó nell’opinione dissenziente rispetto alla sentenza della Corte europea nel caso in questione, nella valutazione degli interessi in gioco devono poter entrare in considerazione anche le questioni relative alla garanzia del diritto alla vita del bambino, tutelato dall’art. 2 della Convenzione. La normativa italiana, nel garantire in modo assoluto il diritto all’anonimato della madre che decida di abbandonare il bambino, mira a fornire lo strumento normativo volto a garantire il diritto alla vita del nascituro (assicurando ossia alla madre di non prendere decisioni irreparabili e di partorire in strutture adeguate). É questo aspetto, non sufficientemente affrontato nell’opinione di maggioranza della Corte europea nel caso Godelli, che richiede forse una più puntuale riflessione.
Quanto alla sentenza nel caso Torreggiani et al., si può osservare che sono centinaia i ricorsi presentati alla Corte di Strasburgo da parte di detenuti che lamentano le condizioni disumane e degradanti della loro detenzione. Non è quindi sorprendente che la Corte, nella sentenza in questione, abbia rilevato l’esistenza di problemi di carattere strutturale nel sistema penitenziario italiano e abbia dato al nostro Paese un anno di tempo per porre in essere le misure carattere sistemico atte a risolvere le questioni di compatibilità con l’art. 3 della Convenzione derivanti dal sovraffollamento carcerario.
In sostanza, è divenuta pressante per il nostro Paese la necessità di elaborare e attuare un progetto di riforma che consenta di ridurre il numero dei detenuti, privilegiando misure punitive non privative della libertà e la riduzione della carcerazione preventiva (quasi il 40 per cento della popolazione detenuta nel nostro Paese lo è in via cautelare, dimostrandosi così che alla fonte vi è anche la questione della lunghezza irragionevole del procedimento penale).
1 I dati sono disponibili sul sito della Corte, all’indirizzo: http://www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=reports&c=#n1347956767899_pointer.
2 L. 24.3.2001, n.89, recentemente modificata dall’art. 55 del d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito con l. 7.8.2012, n. 134.
3 Ibidem, parr. 66-72.
4 Sent. 8.1.2013, disponibile in lingua italiana sul sito del Ministero di grazia e giustizia, all’indirizzo: <http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU810042>-.
5 Ibidem, parr. 76-79.
6 La sentenza della Corte costituzionale può leggersi in Giur. cost., 2005, 4601 ss.