PRETI, Giulio
PRETI, Giulio. – Ultimo di cinque figli, nacque a Pavia il 9 ottobre 1911, da Roberto e da Alberta Giulia Mariani.
I genitori, emiliani di origine, erano entrambi maestri elementari. Sposatisi con rito civile a La Maddalena nel 1891, vissero in Sardegna prima di stabilirsi, nel 1896, a Pavia. Il padre, repubblicano e socialista, coltivava interessi letterari: autore di racconti per bambini, pubblicò un volume di poesie intitolato Visioni (Pavia 1911).
Cresciuto in un ambiente modesto, ma culturalmente vivace, Preti fu studente curioso e intelligentissimo e frequentò con ottimi risultati le scuole inferiori, rivelando però fin da subito quell’irrequietezza che ne caratterizzò l’esistenza. Rimasto orfano del padre a otto anni, e nonostante le difficoltà economiche della famiglia, riuscì a proseguire negli studi fino a conseguire la maturità classica nel 1929.
Datano a quel periodo i primi studi di linguistica, disciplina per cui nutrì sempre un vivo interesse, nonché i primi contatti con Luigi Suali, professore di indologia presso il locale Ateneo pavese, che esercitò su di lui una profonda influenza. Nell’ottobre del 1929 si iscrisse al corso di laurea in filosofia dell’Università di Pavia, dove seguì le lezioni di Guido Villa, di Adolfo Levi e, appunto, di Suali. Durante gli anni universitari strinse amicizia con Luigi Heilman, Gianfranco Contini, Enzo Paci. Fu proprio grazie a Paci che Preti entrò in contatto con Antonio Banfi, professore di storia della filosofia presso l’Università di Milano, e con il ricchissimo ambiente culturale che si era formato assistendo alle sue lezioni. Il magistero di Banfi fu decisivo per la sua formazione intellettuale: decise quindi di abbandonare la tesi che aveva concordato con Suali e si laureò l’8 novembre 1933 con Villa discutendo una tesi su Edmund Husserl, autore che costituì sempre per lui un punto di riferimento costante.
Dalla tesi trasse il suo primo articolo, Filosofia e saggezza nel pensiero husserliano, pubblicato in Archivio di filosofia (IV (1934), 1, pp. 83-88), cui seguirono I fondamenti della logica formale pura nella “Wissenschaftslehre” di B. Bolzano e nelle “Logische Untersuchungen”di E. Husserl, apparso nella rivista anti-idealista Sophia (III (1935), 2, pp. 187-194; 3-4, pp. 361-376) di Carmelo Ottaviano, in cui è esposto con favore l’approccio antipsicologista alla logica di Husserl e di Bernard Bolzano.
Ma l’incontro con il circolo di Banfi non fu rilevante soltanto per la sua maturazione filosofica: in quegli incontri conobbe Daria Menicanti, che sposò nel 1937 e a cui, anche dopo la separazione avvenuta nel 1954, rimase sempre legato da profondo affetto.
Nel 1934 Preti si trasferì a Milano e nel 1936 vinse il concorso per l’insegnamento di filosofia e storia nei licei, venendo nominato l’anno successivo professore – dapprima straordinario e poi ordinario – di filosofia e pedagogia presso il Regio Istituto magistrale Guido Albergoni di Crema. Nello stesso anno fu nominato assistente volontario alla cattedra di storia della filosofia di Banfi.
Allo stesso anno data anche l’articolo Difesa del principio di immanenza (Sophia, IV (1936), 2-3, pp. 281-301) in cui attraverso una critica al realismo metafisico di Ottaviano, formulò il principio cardine del suo pensiero: la tesi, che gli giungeva mediata da Husserl e da Banfi, della natura correlativa di soggetto e oggetto. Nel 1938 diede alle stampe una traduzione della Monadologia di Gottfried Leibniz, prima tappa di un lungo percorso di confronto con il pensiero leibniziano e con la cultura filosofica e scientifica del Seicento. Su quel plesso di temi e problemi, che gli apparivano come il momento centrale nella formazione dell’Europa moderna, tornò non a caso a più riprese, prima con uno studio monografico su Isaac Newton (Milano 1950) e poi con il libro Il cristianesimo universale di Leibniz (Milano-Roma 1953). Sempre nel 1938 pubblicò nel Giornale critico della filosofia italiana (n. 6, pp. 391-406), diretto da Giovanni Gentile, Tipologia e sviluppo nella teoria hegeliana della storiografia filosofica in cui formulò i principi di un’attività storiografica filosoficamente impegnata che accompagnò sempre, influenzandola, la sua riflessione teorica. A partire dal 1940 ebbe inoltre inizio la sua collaborazione con la neonata rivista di Banfi Studi filosofici.
Dopo un anno di congedo, a partire dal 1° ottobre 1942 Preti venne trasferito al liceo scientifico Torquato Taramelli di Pavia. Durante gli anni del secondo conflitto mondiale continuò a pubblicare con regolarità nonostante le difficoltà: nello stesso anno apparvero l’antologia I presocratici (Milano 1942) e la Fenomenologia del valore (Milano-Messina 1942), in cui veniva discusso per la prima volta un tema – quello della natura del valore – centrale nella sua riflessione matura.
Punto di partenza era il riconoscimento della tensione vitale fra esistenza e ragione: Preti osservava che solo perché l’uomo era anima oltre che spirito, esistenza finita caratterizzata dal bisogno, poteva accedere alla dimensione del valore. Da quel testo emergeva la sua attenzione per l’esistenzialismo – mediato tuttavia da una forte enfasi posta sulla dimensione corporea – così come il profondo interesse per Blaise Pascal, un autore di cui amò sempre moltissimo la sensibilità nel cogliere la drammaticità della condizione umana, e cui dedicò vari lavori: il libro Pascal e i giansenisti (Milano 1944), l’edizione degli Opuscoli e scritti vari (Roma-Bari 1959) e la traduzione delle Provinciali (Torino 1972).
Ma è con Idealismo e positivismo (Milano 1943), apparso per i tipi di Bompiani, che il pensiero pretiano assumeva per la prima volta i suoi tratti caratteristici. La convergenza di positivismo e idealismo in un razionalismo antimetafisico definiva l’orizzonte teorico di una riflessione strutturata attorno ad alcuni principi fondamentali: la concezione della filosofia come indagine delle forme della cultura; la teoria dei concetti come metodi di risoluzione dell’esperienza nel pensiero; la tesi della vuotezza dei simboli linguistici che, proprio perché vuoti, predeterminano i modi del proprio riempimento e della propria verificazione; il riconoscimento dell’autonomia delle rappresentazioni simboliche.
Dopo avere preso parte durante la Resistenza alle attività clandestine del Partito comunista italiano (PCI) e del Fronte della gioventù, Preti partecipò ai dibattiti politici e culturali che seguirono la Liberazione denunciando con forza quelle soluzioni compromissorie che secondo lui avevano tradito lo spirito dell’esperienza resistenziale. E quando si concluse la breve fase della sua militanza nelle file del PCI, Preti continuò a intervenire sui problemi più urgenti del suo tempo sulle pagine de La Cittadella e del Politecnico di Elio Vittorini.
L’impegno civile però non lo distolse mai dal lavoro filosofico; anzi lo spinse a formulare una proposta teorica in cui l’esigenza democratica che rivendicava come prassi politica potesse essere motivata razionalmente. Quelli dell’immediato dopoguerra furono per Preti anni difficili, caratterizzati da un profondo isolamento intellettuale e da una crescente insoddisfazione professionale – la sua aspirazione a una cattedra universitaria fu ripetutamente frustrata e dovette aspettare il 1950 per ottenere un incarico di filosofia morale presso l’Ateneo pavese; soltanto nel 1954 riuscì a vincere (giungendo terzo) il concorso da professore straordinario di storia della filosofia grazie all’appoggio di Nicola Abbagnano, Gustavo Bontadini ed Eugenio Garin, che successivamente ne favorì la chiamata alla facoltà di magistero di Firenze dove Preti rimase per tutta la vita, con l’eccezione di un breve e burrascoso passaggio alla facoltà di lettere della stessa Università.
Tuttavia proprio in quegli anni Preti giunse a gettare le basi di quello che più tardi definì «il mio punto di vista empiristico», attraverso un approfondimento delle istanze costruttive insite nel suo razionalismo critico (Il mio punto di vista empiristico, in Id., Saggi filosofici, I, a cura di M. Dal Pra, Firenze 1976).
L’allontanamento da Banfi fu il segno di questa nuova fase di pensiero. Pur ribadendo i propri debiti intellettuali nei confronti del maestro, Preti riconosceva di inclinare ormai verso un «illuminismo» e «nuovo positivismo» che mal si accordava con la tendenza banfiana a insistere sull’autonomia della ragione rispetto all’intelletto. E faceva i nomi di Rudolf Carnap, John Dewey – di cui tradusse in italiano, rispettivamente, i Fondamenti di logica e matematica (Torino 1956) e Problemi di tutti (Milano 1950) – e Charles Morris come motivi ispiratori di una filosofia pluralista, convenzionalista e relativista (Lettera a Banfi del 24 luglio 1949, in Rivista di storia della filosofia, XLII (1987), 1, pp. 82 s.).
Obiettivo di Preti era scongiurare il rischio di autoritarismo implicito nel realismo metafisico. Per evitare che fosse un atto autoritario a definire il vero e il falso occorreva ristabilire la centralità dell’intelletto e delle sue pratiche intersoggettive di costituzione dell’oggettività. Diveniva così urgente tanto una corretta comprensione del principio di verificazione quanto la chiarificazione della funzione svolta dalle categorie nell’esperienza. Al primo compito Preti dedicò numerosi scritti, fra cui il saggio Le tre fasi dell’empirismo logico (in Rivista critica di storia della filosofia, IX (1954), 1, pp. 38-51). Influenzato da Carl Gustav Hempel, Preti individuava nell’empirismo logico una traiettoria di progressiva liberalizzazione dei criteri di verificazione delle teorie che consentiva di rigettare l’idea di un’unità materiale della scienza a favore di una pluralità di universi di discorso diversi «per la stessa nozione di verità» (Di alcune concezioni scientifiche della filosofia di oggi, in Saggi filosofici, I, cit., p. 273). Ma gli effetti di una tale liberalizzazione erano controbilanciati dall’affermazione dell’unità del metodo scientifico e dalla centralità che, sulla scia di George Edward Moore, Preti assegnava al senso comune.
In Linguaggio comune e linguaggi scientifici (Milano-Roma 1953) Preti formulava invece la propria concezione della natura linguistica e convenzionale dell’a priori e istituiva un nesso fra storicità e analiticità delle categorie. Miscelando sapientemente le analisi degli empiristi logici con l’epistemologia pragmatista di Dewey e Morris, Preti mostrava la funzione sistematrice delle categorie, considerate come principi formali e vuoti di selezione e traduzione degli aspetti dell’esperienza nel linguaggio della teoria. Era così in grado di ridefinire in termini funzionalisti il rapporto fra pensiero e realtà, dando forma a un «trascendentalismo storico-oggettivo» che vedeva nelle categorie schemi «costruiti dall’uomo» e pertanto mutevoli (G. Preti, Il mio punto di vista empiristi, cit., pp. 485 s.).
Le raffinate analisi con cui Preti cercò di coniugare temi empiristi e istanze trascendentaliste erano profondamente originali – e non soltanto per la cultura italiana. Ma, per quanto innovativa, la riflessione filosofica di Preti si era alimentata dei rapporti che in quegli anni egli intrattenne con figure di spicco del panorama filosofico italiano. Oltre a Mario Dal Pra – cui fu legato da amicizia e da interessi comuni: per Marx, per Dewey, per la storia della logica medievale – altrettanto importante fu la partecipazione alla stagione neoilluminista, favorita dal rapporto di stima che legò Preti e Abbagnano e che lo portò a collaborare alla composizione del Dizionario di filosofia (Torino 1961).
Del neoilluminismo Preti condivideva il giudizio sull’urgenza di emancipare la cultura italiana da ogni ipoteca umanista e idealista. Frutto di quella stagione furono Alle origini dell’etica contemporanea (Bari 1957), Storia del pensiero scientifico (Milano 1957) e, soprattutto, Praxis ed empirismo (Torino 1957) che, edito da Einaudi all’indomani dei fatti di Ungheria, fu un atto di sfida contro il mondo intellettuale di sinistra. Preti vi affermava la necessità di una filosofia della praxis di orientamento scientifico, sorta dalla convergenza di marxismo, pragmatismo ed empirismo logico, diversa tanto dal materialismo dialettico sovietico quanto dalla tradizione del marxismo italiano. Un materialismo storico che assumesse come punto di partenza l’uomo in carne e ossa nella concretezza dei suoi rapporti economici e sociali e riconoscesse come obiettivo la costruzione di un sapere universale, verificabile e pubblico.
Negli anni successivi alla pubblicazione di Praxis ed empirismo Preti avvertì crescere attorno a sé la diffidenza di un ambiente che, a parte pochi amici (Ermanno Migliorini, Giovanni Nencioni), sentiva ormai estraneo. Furono anni tristi, nei quali al desiderio di lasciare Firenze per Milano si alternava un senso di profonda stanchezza e sfiducia. Pubblicò assai meno che nel decennio precedente, ma l’intensità della sua riflessione filosofica rimase immutata.
Importante fu la lettura della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Husserl che lo spinse a riformulare la propria filosofia della praxis nei termini di una fenomenologia della carne. Contro la tradizione spiritualista e cristiana Preti affermava che «in principio era la carne» – come recitava il titolo di un lungo saggio rimasto inedito del 1963-64 – e mostrava come ogni conoscenza muovesse e ritornasse a quell’esperienza corporea fondamentale. Era all’interno di questo movimento vitale che si inscriveva la possibilità del Logos di esercitare la propria funzione costruttiva. Mantenendosi fedele al proprio razionalismo, Preti teneva fermo il carattere formale della ragione e rimarcava che ogni contenuto (etico, estetico, cognitivo) acquistava significato soltanto in relazione a valori o ideali.
La riflessione sul valore costituì l’asse portante attorno cui ruotò il pensiero dell’ultimo Preti. Non erano soltanto ragioni di tipo filosofico che lo condussero a scrivere e dedicare corsi universitari al tema del valore. Agirono anche motivi politici e culturali. Preti guardò con preoccupazione alla democrazia di massa e si oppose con forza a quello che giudicava essere l’irrazionalismo della contestazione studentesca. Riferendosi a Max Scheler, ne riprese la categoria di «risentimento» per indicare il desiderio di sovvertire i valori della civiltà occidentale che vedeva in atto in molti ambiti della società contemporanea. Preti affidò la propria risposta a brevi saggi, apparsi in La Fiera letteraria e raccolti in Que serà, serà (Firenze 1970), e soprattutto a Retorica e logica (Torino 1968), pubblicato ancora una volta da Einaudi, in cui prese posizione sulla questione delle due culture. E lo fece difendendo la funzione dinamica e liberatrice della scienza che, sola, era in grado di superare «la vischiosità» dell’ethos morale (p. 242). Preti non negava la legittimità della retorica e della cultura umanistica; sapeva bene che la vita non poteva condividere l’avalutatività della scienza. Ma riteneva che solo attraverso la scienza una civiltà poteva andare oltre i propri pregiudizi. E pertanto ne sottolineava l’importanza, giungendo ad affermare che in essa risiedeva la civiltà di un popolo.
Nel frattempo la salute di Preti era peggiorata, anche a causa dell’alluvione di Firenze del 1966 che lo aveva costretto a vivere diversi giorni in condizioni di estremo disagio.
Gravemente malato, partì per l’isola tunisina di Djerba, dove morì il 28 luglio 1972.
Fonti e Bibl.: Si vedano almeno: M. Dal Pra, Studi sull’empirismo critico di G. P., Napoli 1988; P.L. Lecis, Filosofia, scienza valori: il trascendentalismo critico di G. P., Napoli 1989; F. Minazzi, L’onesto mestiere del filosofare, Milano 1994; P. Parrini, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento (Sez. II/B), Milano 2004; L.M. Scarantino, G. P.: la costruzione della filosofia come scienza sociale, Milano 2007.