PARIGI, Giulio
– Nacque a Firenze il 6 aprile 1571, da Alfonso di Santi Parigi e da Alessandra di Berto Fiammeri. La famiglia Parigi era originaria di Prato.
Nella Firenze medicea dei primi tre decenni del Seicento Giulio fu l’architetto e lo scenografo ufficiale dei granduchi, ricoprendo il ruolo che era stato già di Bernardo Buontalenti. Come costui fu un uomo eclettico: incisore, creatore di arredi e di gioielli, maestro di una rinomata Accademia dove leggeva Euclide, insegnava meccanica, prospettiva, architettura civile e militare, e un «bello e nuovo modo di toccar di penna vaghissimi paesi» (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 144). I colleghi stessi lo consideravano il più famoso scenografo d’Italia.
La centralità del ruolo svolto da Giulio Parigi nella cultura artistica del suo tempo emerge con tutta chiarezza nel Privilegio che il 14 febbraio 1623 gli fu concesso dal granduca Ferdinando II, e di cui abbiamo testimonianza in un documento che ricorda come durante i granducati di Ferdinando I e di Cosimo II non fossero occorse né «fabbrica, né opera celebre» che non fossero state inventate, maneggiate e «perfettionate» dal Parigi (BNCF, Fondo nazionale, ms. II, I, 447 (16): Misc. Palagi, Privilegi, genealogie, note storiche estratti da mss. ecc. relativi ad Alfonso di Santi, Giulio d’Alfonso, ed Alfonso di Giulio, architetti fiorentini del sec. XVI e seg.).
Se è da ritenere improbabile – data la giovane età – una sua partecipazione attiva ai lavori del padre Alfonso, architetto di una certa fama, è invece assai ragionevole supporre che i buoni servigi resi ai Medici dal genitore, e la prestigiosa parentela con il prozio Bartolomeo Ammannati abbiano favorito un precoce inserimento nell’ambiente artistico di corte del giovanissimo Giulio che, fin da ragazzo, studiò sotto la guida di Bernardo Buontalenti, con il quale poi collaborò come scenografo e disegnatore di bozzetti. Nel 1594 fu immatricolato all’Accademia del disegno come ‘pittore’; nel 1597 fu iscritto a provvisione della corte granducale.
Nella produzione grafica di Giulio Parigi e degli incisori della sua cerchia, il motivo di continuità si identifica in un cospicuo nucleo di incisioni che sono testimonianze figurative di apparati, feste e spettacoli teatrali fiorentini degli anni in cui i vari e complessi momenti del cerimoniale mediceo – con gli stessi spettacoli teatrali – acquistavano la definitiva accezione di tangibili espressioni di quella rete di incontrastata autorità sulla vita pubblica che la corte granducale andava programmaticamente delineando già da qualche tempo.
La prima incisione a noi pervenuta è quella posta a corredo della Relazione di uno spettacolo militare fatto in un prato del Palazzo Pitti, del 1606, dedicata a Paolo Orsini principe di Bracciano, che documenta lo spettacolo, con la sfilata dei carri nel giardino di Boboli e il finto combattimento.
Due anni dopo, alla morte di Bernardo Buontalenti, indiscusso protagonista della scenografia medicea durante il granducato di Francesco I, Giulio Parigi significativamente legò il suo nome alla messa in scena dei due spettacoli più importanti allestiti in occasione delle nozze di Cosimo II con Maria Maddalena, figlia dell’arciduca Carlo d’Austria: la commedia Il Giudizio di Paride, recitata nel Teatro degli Uffizi la sera del 25 ottobre 1608, e il combattimento navale dell’Argonautica, rappresentato in Arno la sera del 13 novembre.
La rappresentazione del Giudizio di Paride, una favola in cinque atti, riuscì «una festa stupenda per la magnificenza e maraviglia delle macchine che adornarono la favola rappresentata» (Il luogo teatrale a Firenze, 1975, p. 118).
L’evento straordinario nella carriera di scenografo di Giulio Parigi va senza dubbio individuato nelle splendide invenzioni delle navi dell’Argonautica, che danno tutta la misura dell’ampiezza della sua fantasia, sostenuta da una costante, raffinata vena decorativa.
Diciannove sono le incisioni relative alle imbarcazioni, eseguite da Remigio Cantagallina su disegni di Giulio, a eccezione delle barche di Eurito, di Echione ed Etalide, e di Periclemene, dovute a Jacopo Ligozzi, e di Anfione, creata da Ludovico Cigoli.
Le navi dell’Argonautica mostrano di aderire pienamente a quell’ottica manieristica che privilegiava l’irreale, il fantastico e, soprattutto, il meraviglioso. La loro componente fondamentale si identifica proprio nell’artificiosa trasposizione dell’elemento strutturale in quello naturalistico, nella linea antropomorfica già largamente diffusa nel Cinquecento.
Nel 1610 l’artista costruì il convento della Pace de’ frati di S. Bernardo, fuori della Porta Romana, oggi distrutto. Nello stesso anno creò gli apparati funebri per le solenni esequie di Enrico IV di Francia e, due anni dopo, si occupò dell’allestimento per i funerali di Margherita d’Austria, regina di Spagna, ricordata solennemente a Firenze. Tre incisioni relative a questi addobbi introducono ai rapporti Parigi-Callot, iniziati a questa data e interrotti solo dalla partenza del lorenese da Firenze nel 1621, alla morte di Cosimo II.
Jacques Callot, in questa prima fase fiorentina, si adattò al ruolo di incisore degli apparati inventati da Giulio Parigi, come era già avvenuto per Remigio Cantagallina, poi partito, nel 1612, per il suo viaggio nei Paesi Bassi.
Alla partenza di Callot fu il figlio di Giulio, Alfonso il Giovane, nato nel 1606, a incidere i lavori del padre.
Due stampe eseguite dal lorenese in occasione di una festa sull’Arno del 1615 ci informano del cammino compiuto da Callot a questa data: si tratta di due pezzi incisi su suo disegno da invenzioni di Giulio Parigi, il Carro d’amore e ilTeatro dell’Arno, per i quali è lecito parlare di piccoli capolavori, tracciati con libertà e come nel fuoco dell’improvvisazione.
La percezione del paesaggio è per Callot una delle grandi conquiste che avvengono attraverso Giulio Parigi; gli espedienti illustrativi di Callot, individuabili – nelle loro linee essenziali – negli esagerati scarti di scala fra le figurine e gli elementi architettonici o vegetali, negli sbalzi chiaroscurali e nelle aperture a grandangolo, danno poi la misura dell’aggiornamento derivato all’artista dalla sua consuetudine con il mondo degli apparati scenografici con il quale era venuto a trovarsi in contatto.
Dal 1613 in poi Giulio svolse un’intensa attività come ingegnere civile incaricato dal granduca di effettuare sopralluoghi, rilievi e perizie; nel 1616 iniziò una progettazione dell’ospizio di Loreto, mai realizzato. Nello stesso anno fu a Roma, come egli stesso annota sui fogli del cosiddettoTaccuino dei Parigi (Alfonso, Giulio e Alfonso il Giovane), una raccolta di appunti eterogenei di notizie private e pubbliche mescolati a schizzi in cui compaiono vedute di monumenti antichi quali l’Arco di Costantino e i Fori (Tra Controriforma e Novecento, 2009, n. 22). Sempre nel 1616 vinse il concorso indetto da Cosimo II per l’ampliamento di palazzo Pitti: è lo stesso Giulio, nel Taccuino, a sottolineare la sua affermazione al concorso con un progetto che ebbe il consenso unanime del granduca e dei nobili, e a dare spazio ai vari interventi che seguirono all’interno del complesso di Palazzo Pitti: la ‘Grotticina di Vulcano’ nel Giardino di Boboli (1617); l’inizio dei lavori nel gennaio 1620 e la posa della prima pietra nell’ala nord del palazzo il 29 maggio 1620.
L’ampliamento della facciata fu condotto proseguendo il modello dell’originario nucleo con le finestre di Bartolomeo Ammannati: si configurava, così, l’attuale corpo centrale, con tredici finestre per piano, mentre veniva ripresa – nelle ali aggettanti – l’idea espressa anni addietro da Bernardo Buontalenti delle due «rampe carrabili nella zona periferica della piazza per migliorarne la pendenza» (Borsi, 1974, p. 278).
Nel 1619 Giulio costruì la loggia del Grano, un loggiato di ordine tuscanico che veniva a precisare un’altra localizzazione nel sistema dei mercati del centro fiorentino, aggiungendosi al Mercato Vecchio, a Orsanmichele e alle logge del Mercato Nuovo (Fanelli, 1973, p. 328).
Nello stesso tempo l’artista coordinò un gruppo di pittori per la decorazione del palazzo dell’Antella in piazza S. Croce. Già anni addietro, tra il 1599 e il 1600, aveva svolto attività di pittore affrescando, con due collaboratori, il soffitto della ‘Stanza de li strumenti matematici’, un piccolo ambiente adiacente alla Tribuna degli Uffizi (Tra Controriforma e Novecento, 2009, p. 58).
Intensa, in questi anni, fu la sua attività di scenografo, di cui vanno ricordati innanzitutto gli allestimenti per La Guerra d’Amore e La Guerra di Bellezza, del 1616.
Il 6 febbraio 1617, nel teatro degli Uffizi, fu rappresentata La Liberazione di Tirreno, il cui apparato fu quanto di più sorprendente potesse creare l’esperta ingegneria del tempo: cambiamenti di scena a vista, macchine per apoteosi, nuvole, carri e fuochi artificiali, costumi fantasiosi e complessi.
Nel 1619, sempre nello stesso luogo, fu messa in scena La Fiera, una commedia di Michelangelo Buonarroti il Giovane, e la tragedia Il Solimano, la cui documentazione figurativa è in sei incisioni di Callot.
In questa rappresentazione una nuova concezione spaziale dilata il volume della scena cinquecentesca con un senso di ariosità accentuato dalla leggera struttura a portico che conclude la scena al centro.
Nel 1622 Giulio vinse il concorso per l’ampliamento della villa di Baroncelli, poi Poggio Imperiale, residenza di Maria Maddalena d’Austria, sbaragliando la concorrenza, fra altri, di Gherardo Silvani, Matteo Rigetti e Cosimo Lotti.
La villa – completamente trasformata da successivi interventi – presenta una serena impaginatura della facciata e appare come una grandiosa quinta scenografica, determinata dalla parte centrale e da due grandi braccia laterali. L’innegabile taglio scenografico del linguaggio architettonico del Parigi è nello stesso vialone del Poggio Imperiale, il bellissimo stradone che da Porta Romana conduce alla villa del Poggio.
Il 12 maggio 1621 morì Cosimo II: una stagione felice trovava la sua fine con la persona che l’aveva stimolata: le reggenti – la madre e la moglie – furono infatti costrette a ridurre drasticamente le spese di corte per l’impoverimento del tesoro granducale. Cambiò anche la politica culturale adottata dalla corte, che si improntò a un clima molto più rigido, al quale si adeguò il melodramma La Regina S. Orsola, recitato la sera del 6 ottobre 1624. Le incisioni che lo documentano sono di Alfonso il Giovane.
L’anno seguente, in una sala della villa di Poggio Imperiale fu messa in scena La Liberazione di Ruggiero dall’Isola di Alcina. Il libretto fu illustrato con cinque incisioni sempre del figlio di Giulio, Alfonso.
Il ballo a cavallo, che costituisce il nucleo centrale dell’azione scenica, costituisce soprattutto un pretesto per la rappresentazione della villa, di cui Cosimo II aveva fatto dono alla figlia Isabella e al genero Paolo Orsini, duca di Bracciano.
Nel 1628 iniziò il lungo governo di Ferdinando II (1628-70), turbato da un susseguirsi di episodi calamitosi, per cui il solo evento artistico a Firenze fu la rappresentazione della Flora, una favola in onore delle nozze fra Edoardo Farnese e Margherita de’ Medici, con sei stampe incise da Alfonso il Giovane, al quale non pochi studiosi attribuiscono anche la paternità delle invenzioni.
Per il Gran Teatro di Boboli (i lavori per la costruzione iniziarono il 14 settembre 1630 e si protrassero fino al 31 marzo del 1635) Giulio si assunse il delicato compito di rendere concrete le intuizioni artistiche di Cosimo II, tuttavia il progetto originale fu purtroppo alterato da una eccessiva semplificazione.
Il 1° giugno del 1631 iniziarono i lavori per l’ampliamento di palazzo Pitti verso sud; Giulio mantenne la direzione dei cantieri fino al 1633, anno in cui gli subentrò il figlio Alfonso, che proseguì l’ingrandimento secondo le indicazioni paterne.
Nel 1634, stando al Taccuino, Giulio iniziò l’innalzamento della propria cappella nella chiesa di S. Felice in Piazza, nella quale fu sepolto l’anno seguente.
Nel suo doppio aspetto di architetto e scenografo, Giulio Parigi è uno degli esempi più probanti di quel rapporto tra codice formale degli apparati effimeri del teatro e delle feste e linguaggio manierista, che resta uno dei parametri più interessanti per una giusta lettura della cultura artistica della Firenze granducale.
Se per Alfonso il Vecchio l’esclusivo riferimento a una severa concezione controriformista è ineludibile, per Giulio, orientato verso soluzioni oscillanti in una continua interdipendenza tra tridimensionalità architettonica e gusto puramente scenografico, il discorso è più articolato e comporta il collegamento con un momento storico diverso, quello nel quale si trovarono a operare Santi di Tito e il Caccini, il Cigoli, il Silvani, don Giovanni dei Medici e il Nigetti: architetti, cioè, sollecitati da richieste che, maturate nell’ambito della Controriforma, denunciavano, agli inizi del Seicento, chiari sintomi di un processo di gestazione.
Nonostante la poliedricità di Giulio Parigi renda difficile circoscriverne il mondo espressivo, esistono delle costanti stilistiche, presenti nella sua produzione complessiva, che appaiono già perfettamente definite allorquando si venne formando la sua celebre Accademia (presso la propria abitazione in via Maggio), che raccolse un cospicuo numero di allievi tra i quali Jacques Callot è il nome più prestigioso. Tra gli artisti, frequentarono la sua scuola i figli Alfonso, architetto, ingegnere, scenografo e incisore, e Andrea, ingegnere, eccellente disegnatore di paesaggi e abile inventore di ‘fuochi lavorati’; Antonio Cantagallina, esperto in prospettiva, e suo fratello Giovan Francesco, paesaggista e maestro di fortificazioni; ancora, il maestro di campo Ercole Bazzicaluva, «disegnatore in penna bravissimo», Giovanni da S. Giovanni, «suo scolare nella prospettiva e architettura», e, per qualche tempo, anche Stefano della Bella, Baccio del Bianco e Agostino Tassi (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 144).
Nutrita fu la schiera dei nobili che pure frequentarono l’Accademia: oltre ai giovani della famiglia granducale, infatti, vi troviamo i nomi di Ottavio Piccolomini duca d’Amalfi e del marchese Alessandro dal Borro; del marchese Sant’Angiolo, di Ludovico Incontri, di Annibale Cecchi e di molti altri.
Il gruppo di disegni a penna e a sanguigna, conservati in diverse raccolte, realizzati dall’artista nell’ambito della sua Accademia è cospicuo; in essi l’artista si mostra ben aggiornato nei confronti dei portati della cultura dei paesaggisti nordici con un ruolo di trait d’union fra questi e i frequentatori della sua scuola, come lui interessati a una nuova lettura del paesaggio che si andasse arricchendo in termini di aderenza e naturalezza. Paesaggi nei quali compaiono spesso vivaci figurette che nel loro piglio dinamico ci fanno comprendere, per esempio, la portata dell’ascendente di Giulio Parigi su Jacques Callot, che proprio in virtù dello sguardo del fiorentino rivolto alla realtà abbandonò il suo modo ‘aggottescato’ per una visione più aderente al vero.
Giulio Parigi morì a Firenze il 13 luglio del 1635.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale centrale (BNCF), Codice Palatino 853; Fondo nazionale, ms. II, I, 447 (16): Misc. Palagi, Privilegi, genealogie, note storiche estratti da mss. ecc. relativi ad Alfonso di Santi, Giulio d’Alfonso, ed Alfonso di Giulio, architetti fiorentini del sec. XVI e seg.; Taccuino di Alfonso, Giulio, Alfonso il Giovane Parigi (seconda metà XVI sec. - metà XVII sec.), a cura di M. Fossi, Firenze 1975; F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di F. Ranalli, IV, Firenze 1846, pp. 144 s.; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, I-II, Parma 1781, passim.
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