MONTEVERDE, Giulio
MONTEVERDE, Giulio. ‒ Nacque a Bistagno (Alessandria) l’8 ottobre 1837 da Vittorio, bracciante e tessitore originario di Casale Monferrato, e da Teresa Rondanino, nativa di Bistagno.
La sua precoce vocazione artistica spinse il padre a collocarlo, quando aveva appena nove anni, come apprendista presso un intagliatore in legno a Casale Monferrato; sono infatti sculture in legno le sue prime opere note, tra cui tre crocifissi policromi, uno realizzato intorno al 1849 circa, conservato nel palazzo comunale di Ponti, un altro del 1851, per l’oratorio dell’Annunziata a Spigno Monferrato, e un terzo del 1855, che si trova nella chiesa di S. Desiderio a Monastero Bormida (Arditi - Moro, 1987, pp. 43-45). Vengono assegnati a Monteverde negli stessi anni anche alcuni portali intagliati, tra i quali quello della chiesa di S. Francesco ad Acqui Terme (ibid., p. 46).
Nel 1857 risulta già sposato con Rosa Pregno e attivo a Casale Monferrato nella bottega di intaglio di Giovanni Bistolfi, padre dello scultore Leonardo, che lo incoraggiò a intraprendere una vera carriera artistica. Si trasferì quindi lo stesso anno a Genova, dove si iscrisse all’Accademia Ligustica, pur continuando a lavorare come intagliatore presso l’ebanista Bottaro e il mobiliere Giacinto Grosso (ibid., p. 55). In accademia seguì i corsi di Santo Varni il cui linguaggio cautamente naturalista risentiva dell’influsso di Lorenzo Bartolini, ma fu per lui una vera e propria scuola anche l’attività scultorea che fioriva in quegli anni nel cimitero di Staglieno.
Nel 1858-59 collaborò al lavoro di intaglio per gli stalli del duomo di Genova sotto la direzione di Varni ed ebbe un primo studio nell’ex oratorio di S. Giovanni Battista all’Acquasole. Nel 1863 vinse una medaglia d’oro all’accademia per l’opera Cristo alla colonna e nel 1865 il concorso per la Pensione Durazzo che consentiva un soggiorno di studio a Roma, città nella quale si trasferì lo stesso anno. Abitò dapprima in via della Purificazione, frequentò l’ambiente artistico ed intellettuale del caffè Greco ed ebbe vivaci scontri polemici con il gruppo di scultori che faceva capo a Pietro Tenerani, allora direttore dei Musei Pontifici. Inviò a Genova, quale primo saggio richiesto per la Pensione Durazzo, il gruppo La Vergine saggia e la Vergine stolta (1866-67), oggi scomparso e noto attraverso una litografia conservata presso la Galleria d’arte moderna di Genova e attraverso la dettagliata descrizione fattane da Marchese (1895; cfr. anche Sborgi, 1988, p. 390). Il gruppo allegorico, costruito sulla opposizione morale delle due figure femminili, testimonia un linguaggio moderato, quasi purista, ancora vicino a quello di Varni.
Una svolta decisiva in senso verista e un notevole progresso tecnico furono raggiunti con il gruppo Primi giochi o Bambini che giocano con un gatto, di cui il modello in gesso è del 1867 (Genova, Galleria d’arte moderna, dove si conserva anche un esemplare in marmo del 1874).
Il gruppo, ispiratogli dai suoi figli, rappresenta una bambina in piedi in camicia da notte presso uno sgabello su cui siede il fratellino più piccolo completamente nudo poiché la camiciola è caduta a terra tra le zampe del gatto. La vivacità e la tenerezza dell’opera richiamano alcuni ritratti di bambini di Vincenzo Vela.
Della stessa temperie sono altre due opere successive, L’Ingenuità, di cui il gesso è del 1872, e Bimbo che scherza con un gallo, del 1875 (entrambi i gessi sono alla Galleria d’arte moderna di Genova). In queste opere il tema comune è quello della prima infanzia sorpresa in atteggiamenti freschi e spontanei che consentono però allo scultore di esibire un notevole virtuosismo tecnico nella resa delle morbide carni, delle stoffe spiegazzate, delle movenze degli animali.
Monteverde ottenne un grande successo di pubblico nel 1870 con il Colombo giovinetto (il gesso del 1870 è a Genova nella Galleria d’arte moderna, una versione in marmo al Castello D’Albertis) che vinse nello stesso anno una medaglia d’oro alla prima Esposizione nazionale di belle arti di Parma.
Il grande esploratore è immaginato dall’artista nella sua fanciullezza, mentre siede pensieroso su un pilastrino del porto lambito dalle onde, già immerso nei suoi sogni di grandezza. La sua grazia esile da paggio rinascimentale rimanda alla cultura tradoromantica italiana che molto si esercitò sul tema del genio fanciullo.
Un omaggio al progresso tecnico è invece il Genio di Franklin (di cui esistono varie versioni; il modello in gesso del 1871 è a Genova nella Galleria d’arte moderna) che vinse una medaglia d’argento alla Esposizione di Milano del 1872. Rappresenta un fanciullo dalle morbide fattezze berniniane che si avvinghia al parafulmine issato su un realistico comignolo per convogliarvi l’elettricità. Il tema del progresso scientifico appassionò Monteverde che lo riprese nella sua opera più famosa, Eduardo Jenner che inocula il vaccino al figlioletto.
L’opera, avviata fin dal 1869, fu realizzata in gesso nel 1873 e vinse una medaglia d’oro alla Esposizione universale di Vienna dello stesso anno, riscuotendo un grande successo di critica (Filippi, 1873). Nel 1878 la versione in marmo ottenne altrettanto successo alla Esposizione universale di Parigi, nella quale Monteverde era anche presente in qualità di giurato.
Una versione in bronzo è conservata nella Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.
Il medico inglese è raffigurato mentre sperimenta coraggiosamente il siero contro il vaiolo inoculandolo nel braccio del suo stesso figlioletto. Scegliendo il momento dell’operazione, quando Jenner seduto sulla culla del bimbo lo afferra per praticargli l’incisione, Monteverde volle affrontare una composizione difficile e un soggetto nuovo, considerato allora molto audace per il suo crudo verismo. Riuscì così a fondere il dinamismo dell’attimo, la minuzia descrittiva di abiti e oggetti e l’espressione del volto di Jenner, che nell’intensa concentrazione, quasi disperata, diviene il simbolo universale della volontà umana di riuscire a ogni costo in un’impresa ritenuta necessaria alla salvezza dell’umanità.
La statua del Fabbro, il cui gesso è del 1874 (Genova, Galleria d’arte moderna), destinata a un gruppo mai realizzato sul tema «Volere è potere», testimonia ancora la fiducia positivista di Monteverde, che fu un appassionato lettore del filosofo hippolyte Taine. Nel frattempo, l’enorme successo dello Jenner gli valse una quantità di commissioni italiane e internazionali, soprattutto per monumenti sepolcrali e celebrativi, come il Monumento a Giuseppe Mazzini, commissionatogli nel 1874 dalla comunità italiana di Buenos Aires, che fu inaugurato il 17 marzo 1878.
Il volto ispirato dello statista e la sua sagoma dal portamento fiero ed elegante ne fanno una raffigurazione di grande suggestione, nella quale il virtuosismo tecnico traspare anche nel dettaglio della sedia accuratamente riprodotta, alla quale Mazzini si appoggia lievemente con la mano destra (Busetto 2003-04; Sborgi, 2005; il gesso originale è conservato a Genova, al Museo del Risorgimento).
Nel 1879 realizzò il Monumento al tessitore per la piazza Rossi a Schio (Vicenza), commissionato dall’industriale della lana Alessandro Rossi: la statua, caratterizzata da un pacato realismo, ritrae un operaio in piedi accanto ai rotoli di stoffa, esaltandone l’onesta bonomia in linea con i dettami di moralizzazione sociale dello stesso Rossi. Il 22 settembre 1883 si inaugurò il Monumento a Vincenzo Bellini in piazza Stesicoro a Catania, opera di una più complessa struttura architettonica: per innalzare l’effigie del compositore Monteverde usa uno schema piramidale a basamenti sovrapposti culminanti con il ritratto del musicista seduto con gli spartiti tra le mani; sul basamento prendono posto le statue di quattro protagonisti delle sue opere più famose (La Norma, La Sonnambula, Il Pirata, I Puritani). Due monumenti furono dedicati a Vittorio Emanuele II, il primo inaugurato nel 1888 a Bologna in piazza Maggiore (spostato nel 1944 nei Giardini Margherita), il secondo, del 1891, per la piazza Vittorio Emanuele II di Rovigo.
In quegli anni Monteverde vide cristallizzarsi sempre più il suo ruolo di protagonista dell’arte ufficiale, coinvolto spesso in commissioni e giurie: nel 1880 fu nella commissione dell’Esposizione di Torino e nel 1881 in quella di Milano. Nel 1884 si trasferì in un villino di piazza Indipendenza da lui fatto costruire come studio e abitazione sul tetto del quale collocò un esemplare in bronzo del Genio di Franklin. Il 26 gennaio 1889 fu nominato senatore del Regno.
Il 28 giugno 1896 nell’omonima piazza di Bologna si inaugurò il Monumento a Marco Minghetti, nel quale l’eccessiva retorica dell’ufficialità viene superata conferendo una nota di umana cordialità alla foga oratoria dello statista (Bettoli, 1899, p. 15).
Lo stesso anno fu collocato a Genova, in piazza Principe, il Monumento al duca di Galliera, composto di un ricco insieme allegorico che, sotto l’effigie realistica del celebrato, illustra simbolicamente le sue imprese filantropiche: la personificazione della Munificenza, ispirata da un genio alato, dona le sue ricchezze a Mercurio, il quale si appresta a volare via, alludendo così alle attività commerciali del porto di Genova di cui il duca aveva finanziato l’ampliamento. Analoga impostazione si ritrova nel Monumento alla duchessa di Galliera, sistemato il 19 giugno 1898 presso l’ospedale Galliera (o S. Andrea) di Genova, che era stato fondato nel 1878 dalla stessa duchessa.
Qui l’ispirazione, ormai palesemente simbolista, si fonde con un realismo decisamente melodrammatico: sul basamento l’Angelo della Carità indica una donna lacera accasciata a terra accanto al suo bimbo affamato; la duchessa siede su una sorta di seggio curiale, il volto maturo atteggiato in un’espressione di calma benevolenza e i derelitti da lei assistiti sono evocati anche dalla figura del vecchio mendicante con la stampella che si è trascinato ai suoi piedi e china il capo, stremato.
La svolta simbolista di Monteverde trovò il suo culmine nel gruppo marmoreo Idealità e materialismo a cui lavorò fin dal 1899, pensando di presentarlo alla Esposizione universale di Parigi del 1900, ma che terminò solo nel 1908 e presentò alla Esposizione universale di Roma del 1911 (oggi nella Galleria nazionale d’arte moderna di Roma).
L’audace contrapposizione tra lo svettante nudo femminile di gusto liberty e la bestiale personificazione maschile che, accovacciata su una ruota, insegue il benessere materiale, dimostra la ricerca di un linguaggio più attuale ed espressivo ma nella sua eccessività sfiora il grottesco. Nel 1910 realizzò il gruppo in bronzo dorato raffigurante il Pensiero, destinato alla base sinistra della scalea del Monumento a Vittorio Emanuele II, a Roma.
Composto da sei personificazioni allegoriche, il gruppo gigantesco si organizza intorno all’asse verticale formato dalle figure del Pensiero alato e della Minerva-Sapienza. In primo piano una figura maschile nuda personifica il Popolo Italiano, mentre in secondo piano si dispongono le figure di accezione negativa: la Discordia, la Tirannia, il Genio della guerra. Rispetto al gruppo Idealità e materialismo, Monteverde creò qui una composizione più tradizionale e pacata, bilanciata inoltre dalla bianca, gigantesca mole della scalea e nella quale si avvalse di un linguaggio più sintetico con punte di ispirazione archeologica ben visibili nella Minerva e nel nudo maschile.
Una menzione a parte merita il ruolo svolto da Monteverde nella scultura funeraria, a cui dedicò un’ampia parte della sua produzione. Fin dall’ancora giovanile Monumento Pratolongo al cimitero di Staglieno a Genova del 1868, in cui appare ancora vicino allo stile moderato di Varni (Sborgi, 1988, p. 391), Monteverde articolò in numerose varianti il tema dell’Angelo della morte. Lo riprese con maggior naturalismo e virtuosismo tecnico, nel Monumento Massari del cimitero della certosa a Ferrara (1878), nel Monumento Della Gandara nel cimitero di Madrid (1879), nella Tomba Zonca al cimitero del Verano a Roma (1895; Cardilli - Cardano, 1998, pp. 95 s.). Più innovativa la spledinda realizzazione dell’angelo nel Monumento Oneto di Staglieno (1882), con una figura di gusto decisamente moderno, quasi mondano, poiché a un volto botticelliano di stampo preraffaellita è unito un seducente corpo femminile fasciato da un abito di raso più simile a un abito da sera che a una tunica paradisiaca. L’adesione al linguaggio simbolista europeo si fa ancor più marcata nel Monumento Celle (1891-93), sempre a Staglieno, in cui è raffigurata una vera e propria danza macabra tra uno scheletro ammantato e una fanciulla nuda sul cui capo si posa una farfalla, antico simbolo dell’anima. Un posto a sé occupa nella produzione funeraria di Monteverde il Monumento a Carlo Sada nel cimitero di Torino (1878): nell’imponente struttura architettonica si fondono ecletticamente l’ispirazione veristica del ritratto dell’architetto, la citazione barocca del putto che sulla base sfoglia i progetti di Sada e la personificazione dell’Architettura che siede sul sarcofago, di un classicismo elegante che ricorda la Saffo di Giovanni Dupré.
Nella Tomba Balduino per il cimitero di Staglieno (1889) Monteverde elaborò una Madonna in trono di gusto neorinascimentale assai ammirata dalla regina Margherita di Savoia, che replicò nel 1914 per donarla alla sua città natale (Bistagno, chiesa di S. Giovanni Battista).
Monteverde si distinse anche nel filone della ritrattistica con la stessa capacità di cambiare tono e linguaggio a seconda della destinazione: più spontanei e realistici sono i ritratti meno ufficiali, come quello del padre Vittorio Monteverde (gesso alla Galleria d’arte moderna di Genova, datato 1891), più tradizionali e celebrativi i busti di personaggi eminenti, come quelli di Giacomo Leopardi, Vincenzo Gioberti e Giuseppe Verdi, che compongono la cosiddetta «Rotonda del Monteverde» nella sede del Senato in palazzo Madama, che si inaugurò nel 1902 per rendere omaggio al senatore scultore.
Negli ultimi anni Monteverde dimostrò di saper accogliere i mutamenti del linguaggio artistico, poiché nel 1911 appoggiò il bozzetto del giovane Eugenio Baroni nel concorso per il Monumento ai Mille di Quarto e nella sua ultima opera, il Monumento a Giuseppe Saracco ad Acqui Terme (1917), cercò, con la figura di Saracco che si appoggia allo scanno senatoriale con una decisa torsione del busto e un audace svolazzo del soprabito, di superare i limiti della retorica ottocentesca (De Micheli, 1992, p. 244).
Morì a Roma il 3 ottobre 1917, lasciando il figlio Aurelio Giuseppe e le figlie Erminia, Luisa e Corinna, le quali nel 1919 fecero una importante donazione alla Galleria d’arte moderna di Genova di opere, soprattutto modelli in gesso, provenienti dallo studio paterno, una parte dei quali si conserva oggi nella Gipsoteca Monteverde di Bistagno (Giubilei, 2004).
Fonti e Bibl.:
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